Vi racconto il World Usability Day Rome 2018

Donatella Ruggeri
Idib Group
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5 min readNov 10, 2018
Il giorno della conferenza (8 Novembre 2018) al Parco Leonardo.

Scrivo mentre sono ancora qui, al Parco Leonardo, per paura che le cose ascoltate e viste in questi due giorni sfuggano via dalla mia mente.

Il World Usability Day Rome 2018 è stato il primo WUD al quale io abbia mai partecipato e stando ai commenti che ho sentito forse uno dei più belli tra quelli che si sono svolti contemporaneamente in Italia e nel mondo, e per questo mi ritengo molto fortunata.

Due giorni dedicati al design come lo conosciamo e lo amiamo, ma anche come non lo abbiamo mai visto o immaginato.

Il tema era già stimolante di per se, Design for good or evil, con diverse accezioni che ciascuno degli speaker ha dato e ha portato sul palco. Anche io sono salita sul palco come speaker con un pecha kucha, uno speech di 6 minuti e 40 secondi in cui non ho avuto il controllo delle slide, che cambiavano automaticamente ogni 20 secondi. Faticoso ma divertente!

Dunque Design for good, per bene, o una volta per tutte, o a fin di bene e Design for evil, per ingannare l’utente, manipolare la società o per favorire la criminalità.

Il design è responsabilità, profonda conoscenza dell’ambiente e comprensione delle conseguenze che derivano dalle decisioni che prendiamo. Oserei asserire anche da quelle che non prendiamo e che finiamo col subire, perché anche non fare alcuna scelta è una posizione che provoca un outcome.

Carlo Frinolli, CEO e Founder di nois3.

La conferenza del primo giorno, introdotta da Carlo Frinolli che è il CEO e founder di Nois3, agenzia organizzatrice dell’evento, ha visto alternarsi speaker internazionali come Cennydd Bowles, che ha parlato dell’etica della progettazione e ci ha ricordato che la tecnologia è tutt’altro che neutrale, o Katy Arnold, che ha raccontato come la fiducia sia alla base di una relazione sana e trasparente tra un governo e i suoi cittadini e ha portato il caso di e-Estonia, la società quasi completamente digitale che ha realizzato, appunto, l’Estonia.

Di fiducia ha parlato anche Simone Borsci, in particolare guardando ai tre momenti della customer journey: pre-sale, experience e post-sale e portando i dati della sua recente ricerca sul tema. E quando la fiducia viene tradita, in buona o cattiva fede, possiamo invece parlare di dark patterns, come ha spiegato Guido Martini (Guimar), con una serie di esempi diabolici di interfacce utente.
Alessandra Petromilli ha invece trattato un tema emergente, quello delle Voice User Interfaces, portando un caso d’uso concreto che ha progettato per Alexa, l’assistente virtuale di Amazon.

Il pomeriggio ha toccato anche temi forti e a tratti inaspettati. È forse stato la dimostrazione di come si possa progettare bene, a fin di bene, come ha visualizzato Federica Fragapane attraverso The Stories Behind a Line, un progetto nato per dare voce alle storie di sei persone arrivate in Italia per richiedere asilo, o l’iniziativa creativa di @Pietro Gregorini e il suo gruppo che con Solo in cartolina ha coinvolto centinaia di designers a supporto del salvataggio delle vite in mare, dimostrando che il design può essere reazione, azione, presa di posizione su temi sociali. Di società e socialità ha parlato anche Vincenzo Di Maria, presentandoci oltre allo user anche il misuser (che utilizza uno strumento per scopi altri rispetto a quelli previsti) e l’abuser (che utilizza lo strumento per sovvertire le regole della società). Quando progettiamo dobbiamo infatti pensare non solo all’uso che le persone possono fare del prodotto che stiamo mettendo nelle loro mani, ma anche a come questo potrebbe essere impiegato per raggiungere altri outcome, perfino criminosi.

Altri speaker d’eccezione, come Dee Scarano (Creating better products, faster with Design Sprints), Stefano Maggiore e Omar Campana (Nascondere la complessità per semplificare la vita), Lorenzo Fabbri (Le parole sono importanti), Daniela Petrillo (Progettare una salute accessibile: l’eterna lotta tra la regola e il caos) e Matteo Cadeddu (Change.org: Human Centered Change) hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza sui nostri progetti, portando casi e applicazioni originali e d’ispirazione e ad accompagnarci alla giornata più hands on, quella dei workshop, alcuni dei quali hanno registrato il sold out.

Personalmente ho partecipato al workshop di Adam StJohn Lawrence, co-autore di This is Service Design Doing, attore e grande facilitatore, con cui abbiamo guardato alla componente implicita del design, la quale non è sempre immediatamente percepibile o apparentemente rilevante anche se gioca un ruolo non indifferente per gli utilizzatori dei nostri servizi o all’interno delle aziende.
Attraverso una serie di attività poco convenzionali, in tre ore ho sperimentato frustrazione per ciò che non era immediatamente accessibile attraverso il linguaggio, sorpresa per i significati anche molto diversi che ciascun partecipante ha attribuito a una singola scena e la solita meravigliosa sensazione che si prova quando si rimane aperti alla possibilità di cambiare idea o di vedere le cose in un altro modo. Adam ha aperto il workshop proprio dicendo che alcune cose le avremmo portate con noi in modo implicito e così è stato, non è facile da spiegare con le parole.

Ho provato comunque a usare le parole per raccontare questa edizione del WUD Rome, sperando di aver dato anche solo un’idea dell’aria che si respirava e delle relazioni che si sono create o consolidate, che certamente hanno modificato alcune nostre connessioni cerebrali, come accade quando facciamo una nuova esperienza o apprendiamo qualcosa di nuovo.

PS: nel mio speech ho guardato al design dal punto di vista neuropsicologico. Ho parlato della necessità di comprendere come funziona il nostro cervello per prendere decisioni e strade che rispecchino come siamo fatti neurobiologicamente e non come crediamo di essere. Ho raccontato della recente vittoria del buon senso, o del design for good, nell’introduzione degli allarmi obbligatori per i seggiolini delle auto in cui è fisiologicamente possibile dimenticare i bambini. La condizione che provoca tale dimenticanza, nota come amnesia dissociativa, è dovuta proprio a come funziona il nostro cervello e la nostra memoria, che in certi casi fa prevalere l’aspetto motorio, procedurale (andare al lavoro) su quella cognitiva (ricordare di portare il piccolo al nido). Se non accettiamo come siamo fatti e se non costruiamo gli oggetti che usiamo sulla scienza umana, biologica, rischiamo di diventare designer diabolici.

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Donatella Ruggeri
Idib Group

Comunicatrice seriale, mi occupo di user experience, divulgazione scientifica, neuropsicologia e formazione.