Buongiorno, come state?

Stefania Asaro
Ifoglialvento
Published in
5 min readJun 19, 2020

“Buongiorno, come state?”

La risposta, quasi sempre, fornita da almeno un simpaticone era

“Seduti”.

AH AH.

Ho anche imparato ad aspettarmela: se non arrivava, ripetevo

“Oh! Vi ho chiesto, come state?”

Dopo un po’, era diventato anche un modo per interpretare la curva emotiva di quel muro di caselle che apparivano sul mio schermo e al cui interno erano disegnate, in grande, molte D, più di qualche F, diverse M.

Finché c’è ironia, c’è vita. Lo pensavo prima e lo penso anche adesso.

Poi, “seduto” forse c’è stato qualcuno, ad essere ottimisti cinque su sedici, o la metà del totale, considerati gli assenti, nelle giornate più illuminate.

Un giorno, a tale F ho ripetuto la stessa domanda dodici volte e all’ennesimo silenzio ho chiesto quale fosse il problema: ha risposto che stava lavorando con il tornio.

Candido, cristallino. Scusa il disturbo allora, F.

Ero anche piacevolmente stupita (nel senso che so con certezza che non era una bugia, lui veramente era a lavorare nell’azienda di famiglia) se non fosse che quella è stata forse una delle quattro volte in cui l’ho sentito parlare, in tre mesi.

E comunque, non era evidentemente seduto.

Un’altra volta, L. stava facendo un discorso, serio e concentrato: era già giugno e mi sembrava un miracolo, per cui non volevo interrompere uno della squadra dei non esattamente loquaci.

Sentivo un rumore quasi metallico, che però sembrava anche il verso di un animale, a momenti.

Ho provato a tacere, ad avvicinare l’orecchio al computer, come se quel gesto potesse veramente essere utile, incurante di poter dimostrare almeno quarant’anni in più di quelli che ho.

Niente.

“L., ma cos’è quel rumore in sottofondo?”

“Eh, mi scusi. Si è svegliato il mio pappagallo e sta parlando”

“Lo sento. Sei collegato dal telefono?”

“Sì”

“Hai pensato all’ipotesi di spostarti un attimo in un’altra stanza?”

“No, prof”.

Lo supponevo.

Il pappagallo intanto gracchiava e io cercavo di restare impassibile, disarmata da tanta ingenuità, mentre in chat S. scriveva “Sta spaccando i timpani a tutti quel caxxo di pappagallo” (le xx, si potrà facilmente dedurre, erano zz).

L. probabilmente, era seduto, sì. Incatenato alla sedia.

C’è stato anche un B. che uno degli ultimi giorni era collegato dal mare: beato lui. Sarà stato sdraiato.

A. un giorno ha addirittura acceso la webcam, con mia somma gioia: peccato che probabilmente, parlandomi (e rispondendo anche correttamente) stava facendo le prove per un video da postare su TikTok, perché si sistemava i capelli e citando un compagno “Si sparava le pose”.

In ogni caso, era in piedi, in salotto — il bagno ce lo ha mostrato in un’altra lezione, lavandosi i denti –

D. addirittura mi ha mostrato il suo frigo — quindi ho la certezza che fosse in piedi — per confermarmi la coincidenza per cui ogni volta che doveva collegarsi a lezione con me alle otto, il latte per la sua colazione, era finito.

Poi c’è stato anche il pomeriggio in cui si è dimenticato il microfono aperto, era dalla nonna e ho sentito nitidamente risponderle

“Sì, sono a lezione … sì è la prof, davvero … sì sì, facciamo lezione così. Sì è l’insegnante di italiano, ma è giovane … credo”

Quel credo mi ha ucciso.

Seduti poi, mi ricorda quando facevo le superiori e ci si alzava quando in classe entrava un docente o il preside e se magari si provava ad accennare solo il gesto, rimanendo piegati, con il sedere a tre centimetri dalla sedia, capitava sempre l’insegnante che diceva “Su su, le gambe le avete, la schiena pure, state dritti due secondi”.

E quando aveva ottenuto tre secondi di silenzio, soddisfatto sentenziava

“Seduti”. E dovevamo anche spostare le sedie delicatamente.

Seduti mi fa anche pensare all’atteggiamento che in tanti -forse anche me compresa — hanno avuto in tempi recenti. Per scelta o per obbligo.

Seduti sulle incertezze, sui concorsi bloccati, sul rinvio dei problemi, a mangiare la pizza fatta in casa, a rispondere a video-chiamate, ad ascoltare Enrico Mentana, ad ironizzare sulle conferenze di Conte, o a filosofeggiare sulla pandemia e su come si sarebbe potuto andare avanti.

Me compresa, lo confermo, mentre ci penso e scrivo.

Personalmente, ho anche partecipato ad un cineforum con cadenza settimanale, improvvisato con tre amici ex- damsiani a Bologna, per sopperire al mancato incontro a Milano, organizzato con largo anticipo e previsto per i giorni di fine febbraio di cui tutti abbiamo memoria.

Mi sono fatta convincere a partecipare ad una versione telematica di “Lupus in fabula” e per la festa del papà ho cucinato frittelle di San Giuseppe in quantità tali da poter sfamare un reggimento.

Seduti, crogiolati nell’apatia o in un mondo diverso da quello a cui eravamo abituati, che se è più facile del normale, meglio, se invece è più difficile, noi non ne possiamo niente, è stata una disgrazia.

Seduti a soffrire, a rivedere decisioni importanti, a ripensare ad una data, a fare battute sull’asocialità e sulla misantropia, a inorridirci (spero) per Trump e per la situazione in Ungheria, a ricordare chi se n’è andato, a riflettere sul concetto di eroe e quello di miracolo.

Seduti a guardare il mondo, a riscoprire ideali, qualcuno a riscoprirsi anche razzista e ottuso (la consapevolezza, prima di tutto).

Seduti, chi a centellinare reazioni, chi a fare una cronaca dettagliata di ogni giorno di quarantena –e diciamocelo, i primi quattro ha fatto anche sorridere — chi a portare avanti progetti, altri rivendicare il sacrosanto diritto di non sapere cosa fare, cosa pensare e cosa dire.

Me ne sono stata romanticamente seduta alla finestra, a marzo, immaginando di essere un incrocio tra una novella Don Milani, Virginia Woolf e non so chi, con il mio caffè, spinta dallo slancio della novità e forse ancora tiepidamente convinta di quanto potesse essere una situazione momentanea.

Ero seduta ad aprile, a fare i conti con le distanze, con tutti quegli slogan che leggevo e mi sembravano così aridi, con l’invidia nei confronti di chi riusciva a sfruttare quel momento per dedicarsi a qualcosa che per me è estremamente edificante: scrivere.

Non sono riuscita più a scrivere.

Ho avuto tanto tempo, sono stata seduta alla scrivania giornate intere, per lavoro, fino al punto di non sapere nemmeno fuori che tempo facesse — in effetti ho passato proprio ore al computer -ma ciò nonostante, scrivere, per come lo intendo io, è risultato impossibile.

Seduta con una gamba sulla sedia accanto, con le gambe incrociate, con il piede che batteva per terra, dritta, storta, sprofondata.

Sprofondata nella paura di essere mediocre, di ritenere retorico ciò che leggevo e di pensarlo così simile a quello che avevo scritto in passato — intimamente o pubblicamente — nel dubbio potessero avere lo stesso pensiero le persone a me vicine.

Seduta a giugno, davanti al computer, ho capito di essermi confrontata con alcune tra le persone più anti — retoriche, sfrontate e oneste con cui io abbia mai avuto a che fare: gente che non si è fatta intenerire, spesso, dal modo di fare, dalla pazienza di chi avevano davanti.

Persone che sedute ci stanno perché lo vogliono, non perché devono, che se usano frasi fatte è perché credono il loro interlocutore voglia sentirsi dire esattamente determinate parole, non perché non abbiano un pensiero loro.

Persone irriverenti, che spingono a rivedere ogni argomento da un altro punto di vista, che convinti di perdere tempo, propongono di parlar di temi complicatissimi, infiammandosi, all’occorrenza.

La metà di giugno, ha lasciato il posto libero alla pigrizia, anziana e strana nemica.

“Buongiorno, come state?”

“Bene, lei?”

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