Non ho più scritto

Stefania Asaro
Ifoglialvento
Published in
3 min readNov 22, 2019

Non ho più scritto nulla.

Non ho scritto di quel giorno, in cui faceva freddo come oggi e Daniele, nonostante le vertigini, mi ha accompagnato fino in cima alla torre degli Asinelli.

Delle ventidue persone con cui, anche se in modi diversi, ho abitato sotto lo stesso tetto: coinquilini veri, fidanzati, amici, parenti. Chi per un mese, chi mai davvero, chi per anni.

Non ho più scritto degli appartamenti in cui ho vissuto, che hanno in comune gli alberi che potevo vedere affacciandomi alla finestra.

Della notte del terremoto, da sola a casa, della fatica a riprendere sonno e della lettura di “Empirismo eretico” di Pasolini, fino all’ alba.

Casteldebole, il Pratello, la Bolognina. L’autobus 19.

La prima compagna di stanza che ora è una meravigliosa mamma e l’ultima coinquilina che dopo pochi giorni di conoscenza, mi ha preparato una pizza.

Non ho più scritto della prima volta a San Luca, in una domenica distratta di novembre, qualche giorno dopo la prima laurea.

Non ho più scritto della scrivania colma di fogli su cui ho preparato tutti gli ultimi esami.

Dei cartoncini attaccati alla porta per non fare filtrare la luce dal vetro, dei miei poster e di quelli che ho trovato quando sono arrivata e che non ho mai voluto togliere.

Non ho più scritto delle sere al cinema a tre euro e delle brioches comprate per golosità da un baracchino sulla strada di casa e divorate tra un commento sul film appena visto e uno sul successivo da scoprire.

Le due volte in cui mi sono fatta portare sulla canna della bici e la giornata primaverile passata in giro per l’evacuazione del quartiere dopo il ritrovo di un ordigno inesploso della seconda guerra mondiale.

Non ho più scritto dell’emozione incredibile di tornare a Genova, la prima volta, dopo un mese di lontananza: di come mi sentivo cambiata, grande, viva. Di come sembrava essere passato un tempo veloce e infinito allo stesso modo.

Non ho più scritto delle brutte notizie per cui ho pianto guardando fuori dalla finestra, dal primo piano rialzato del palazzo in fondo alla via de’ Carracci. Delle mattine passate all’ Orto Botanico a togliere le infestanti dalle aiole, mansione di un lavoro distante dai miei interessi, ma vicino ai bisogni di quei giorni.

Piazza Santo Stefano, piazza Maggiore, via della Pioggia.

La stessa strada, ogni mattina, più di quattro chilometri ad andare e poi a tornare, a piedi, per confermare il mio rifiuto per i mezzi pubblici nelle ore di punta.

Un ottobre eterno, i luglio caldissimi. I regali di Natale comprati il 20 dicembre, maledicendomi.

Il portico dei Servi a Natale, il Senza Nome in primavera, con un amico che come me viveva un periodo complicato.

L’amico di quei giorni, che mi faceva leggere la bozza di un racconto, che ora è un uomo e ha pubblicato un libro tratto proprio da quegli scritti.

I pranzi all’ Osteria dell’Orsa, a parlare di cose che a me e ad un piccolo gruppo di colleghi, sembravano lontane, ma oggi sono più vicine che mai.

I saluti alla sera che si protraggono fino al pomeriggio successivo. Gli aperitivi che diventano cene, poi bevute e spuntini notturni.

Le case degli altri, di cui conosco oggetti, libri, scorci dalla finestra del soggiorno.

Il funerale della Saracca, le feste dello studentato e le feste di laurea, le tre volte in cui sono andata in discoteca -Tre, contate- e un paio di stivali che chissà se rimetterò mai nella vita.

Non ho più scritto delle prime fregature lavorative, delle soddisfazioni personali e di quella volta che con Erika ci siamo trovate, senza prevederlo, alla presentazione di un libro di Guccini.

Delle “gite” con mia mamma per il ponte dell’Immacolata e delle trasferte venete a fine settimana alterni, per circa due anni.

Non ho più scritto di questo e di moltissimo altro.

Non ho più scritto dei primi giorni, quando mi sentivo persa, ma spesso serena.

Non ho più scritto di quella sera, un anno fa, in una macchina piena di scatoloni, serena.

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