La guerra russa in Ucraina e le conseguenze sull’agroalimentare italiano e globale

Uno dei risvolti più critici della guerra in Ucraina (e che desta crescenti preoccupazioni nei cittadini e nelle PMI) è quello agroalimentare. Com’è noto il paese esteuropeo è un importante esportatore di commodities quali il grano e gli oli vegetali, ma i danni della guerra al tessuto produttivo e alle infrastrutture dell’Ucraina, il blocco dei porti ucraini sul Mar Nero e la scarsità di carburante stanno gravemente ostacolando l’export agroalimentare ucraino.

Su questo tema, cruciale per l’Italia e in particolare per il nordest, il direttore di OGGNIL Gabriele Catania si è confrontato con un esperto del settore, Stefano Corsi, professore associato presso il Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano. Corsi si occupa da anni proprio di filiere agroalimentari sostenibili nei paesi in via di sviluppo, di agricoltura urbana e periurbana, di conflitti ambientali. Nel post, una breve sintesi della loro conversazione.

Professore, nel complesso l’export agroalimentare russo e ucraino vale il 12% delle calorie totali scambiate nel mondo. Quale potrebbe essere l’impatto della contrazione dell’export agroalimentare dei due paesi sull’Italia?

In effetti l’import russo e ucraino di alcuni prodotti come soia, mais, grano e oli vegetali è essenziale per le nostre filiere agroalimentari più importanti. Vede Direttore, soia e mais sono indispensabili per l’alimentazione degli animali alla base della produzione di formaggi, carni e carni lavorate, mentre il grano tenero è necessario per molte produzioni alimentari di cui l’Italia è leader. Benché negli ultimi anni la bilancia commerciale del nostro agroalimentare sia passata dal deficit a un saldo positivo, ciò è dovuto principalmente alle esportazioni di prodotti trasformati come vino, paste alimentari, latti e carni lavorate (oltre a frutta e ortaggi). L’agroalimentare “made in Italy”, che rappresenta una quota importante del nostro export, si può produrre nella quantità e qualità che conosciamo, e che è indispensabile per la tenuta delle filiere stesse, solo se materie prime e fattori di produzione continuano a fluire verso il nostro paese.

In tal senso credo che, più che le materie prime, il collo di bottiglia principale collegato alla guerra siano gli input produttivi come i fertilizzanti a base di fosforo e azoto, che in Europa e in Italia arrivano principalmente da Ucraina e Russia, e in carenza dei quali le rese produttive sono destinate a calare vertiginosamente. Inoltre, il problema dei prezzi dell’energia, che affligge tutto il sistema produttivo, non risparmia di certo l’agricoltura, fortemente dipendente dal gasolio agricolo, indispensabile per le attività meccanizzate, e dall’energia elettrica che serve per molte operazioni (si pensi all’illuminazione e al riscaldamento nelle aziende avicole, oppure all’essiccazione dei cereali).

La guerra in Ucraina, quindi, ha ridotto la disponibilità globale di alcuni prodotti, le sanzioni alla Russia hanno ulteriormente aggravato la situazione e il comportamento di alcuni paesi (come Argentina e Ungheria, che spaventati dalla prospettiva di scarsità di alcuni prodotti hanno deciso di limitare le loro esportazioni) ha fatto il resto.

Questo come si tradurrà nel lungo periodo, a suo parere?

Se nel breve periodo la disponibilità di commodities agricole per il nostro paese può essere un problema, nel medio-lungo periodo saranno soprattutto energia e input il principale limite. Già da un anno gli agricoltori italiani lamentano la crescita dei prezzi degli input e la scarsità sul mercato di prodotti essenziali come le macchine e i pezzi di ricambio, gli imballaggi e il packaging (è il caso delle bottiglie di vetro per il settore vitivinicolo, ad esempio). L’elasticità della domanda e la capacità di sostituzione di alcuni di questi prodotti sono estremamente limitate. Da non sottovalutare poi il ruolo della Cina, che da anni sta cercando di ridurre la dipendenza dal mercato globale sia in termini di import che di export: ciò inevitabilmente riduce la disponibilità di materie prime, di cui Italia ed Europa sono grandi consumatrici, e le opportunità di commercio dei prodotti trasformati.

E la PAC?

In Italia ed Europa da più parti si richiede una revisione della Politica Agricola Comunitaria, che a partire dagli anni Cinquanta ha condizionato e indirizzato il sistema agricolo europeo. Ormai da decenni i paesi europei si erano orientati verso una politica che mirava alla riduzione delle rese produttive, all’estensivazione e alla riduzione degli input, anche con un progressivo passaggio a produzioni più sostenibili dal punto di vista ambientale. La pandemia prima, e la guerra in Ucraina poi, hanno spinto a ripensare questo percorso, che di fatto aveva sostituito il tema della sicurezza alimentare con quello della sostenibilità, incrementando la dipendenza dal mercato globale. Per la prima volta da che mi occupo di questi temi, ho sentito diversi operatori e decisori chiedere una sospensione del Green Deal relativo all’agricoltura e un ritorno all’intensificazione.

Peraltro è recentissima la notizia che la Commissione Europea ha messo a disposizione la riserva di crisi da cinquecento milioni di euro prevista dalla PAC, nonché il cofinanziamento di misure di emergenza extra da un miliardo di euro; contemporaneamente è stata introdotta una deroga agli obblighi PAC e al blocco dell’utilizzo di fitofarmaci sui terreni “a riposo”. In Italia potrebbero essere così recuperati alla coltivazione duecentomila ettari di terreno per una produzione aggiuntiva di circa quindici milioni di quintali di mais per gli allevamenti, di grano duro per la pasta e tenero per la panificazione, necessari per ridurre la dipendenza dall’estero.

Ovviamente non dobbiamo dimenticare il ruolo della Cina in tutto ciò: il paese asiatico, come le dicevo poco fa Direttore, da anni sta cercando di ridurre la sua dipendenza dal mercato globale, e ciò diminuisce anche la disponibilità di materie prime.

Dal punto di vista alimentare quanto è vulnerabile l’Europa, rispetto ad altre grandi aree del mondo?

L’Europa è un sistema nel suo complesso abbastanza robusto e resiliente, mentre purtroppo a livello globale le cose vanno molto peggio. Non dimentichiamo infatti che la spesa alimentare media in Italia è inferiore al 20% (18,1% nel 2019 pre-pandemia), quindi anche un incremento importante del costo di alcuni prodotti non dovrebbe incidere in modo così sostanziale, a patto ovviamente che l’inflazione nel suo complesso non diventi insostenibile. Ovviamente ciò non vale per le fasce di popolazione più a basso reddito, già gravemente colpite dalle conseguenze della pandemia: loro si troveranno probabilmente in grande difficoltà.

I paesi del Medio Oriente e Nordafrica (la cd MENA region), così come diversi paesi dell’Africa subsahariana, acquistano molto grano da Ucraina e Russia. Nel 2020, ad esempio, l’Egitto (il paese più popoloso del Nordafrica) ha importato oltre 12,5 milioni di tonnellate di grano da Russia e Ucraina, rifornendo a sua volta paesi come la Somalia, oggi in preda alla carestia. Dunque, quanto è concreto il rischio di un peggioramento della situazione alimentare per l’Africa e per alcune aree dell’Asia occidentale?

Ricollegandomi a quanto le stavo dicendo prima, nei paesi del Nordafrica e del Medio Oriente la quota di spesa alimentare è ben più elevata (ad esempio è circa pari al 38% in Egitto) e la percentuale di popolazione a rischio di insicurezza alimentare è vicina al 20%; pertanto un incremento del prezzo di alcuni prodotti, ad esempio il grano, potrebbe avere conseguenze drammatiche sulla popolazione e sulla stabilità.

Del resto, la maggior parte degli analisti specializzati nella MENA region concorda sul fatto che tali paesi sono quelli che rischiano di più a causa della guerra. Come ha accennato anche lei, l’Egitto per esempio ha una sostanziale dipendenza dall’import di grano dalla Russia e dall’Ucraina. E non dimentichiamo che le Primavere arabe, esplose tra il 2010 e il 2011 in molti paesi del Medio Oriente e Nordafrica, hanno avuto tra le loro principali cause proprio l’aumento dei prezzi al consumo dei principali prodotti alimentari, per poi allargarsi a temi come la democrazia e la lotta alla corruzione. Tra i risultati delle Primavere arabe ci fu la destabilizzazione di diversi paesi dell’area, incluso l’Egitto, nonché la gravissima crisi siriana, che da oltre dieci anni miete vittime in un territorio a noi vicino. Né è necessario ricordare come la destabilizzazione del Medio Oriente e Nordafrica abbia generato flussi di profughi e migranti economici verso l’Europa e quanto ciò abbia pesato sul rafforzamento di partiti e movimenti euroscettici almeno in parte vicini alla Russia di Putin.

Abbiamo prima accennato all’Africa subsahariana. Perché così tanta vulnerabilità alimentare lì? In fondo grazie alla Rivoluzione verde, l’Asia è riuscita a raggiungere, nel complesso, la sicurezza alimentare… Perché l’Africa no?

Oggi si colgono soprattutto le ricadute negative della Rivoluzione verde, rispetto ai vantaggi derivanti dalla trasformazione del sistema agricolo. Il tema richiederebbe un lungo spazio specifico, ma per riassumere in poche parole il problema della vulnerabilità alimentare della maggior parte dei paesi africani, direi che la debolezza del sistema è tale che la Rivoluzione verde non ha avuto, e non ha, neanche le basi per poter esplodere nel continente. Mancano gli elementi fondamentali. In Africa, per esempio, la struttura della proprietà è frammentata, con una netta maggioranza di micro-agricoltori orientati alla produzione per autoconsumo, che non sono in grado di affrontare i necessari investimenti per fare il salto di qualità. Manca una fornitura costante e capillare dei mezzi di produzione.

Qualche anno fa abbiamo intervistato diversi imprenditori agroalimentari italiani che hanno investito, o che commerciano abitualmente in Africa, ed è emersa ad esempio l’impossibilità di approvvigionarsi di trattori e pezzi di ricambio, tanto che molti operatori dichiarano che, pur di non rischiare di rimanere con le macchine ferme senza la possibilità di ripararle, sono disposti a cambiare un trattore con una frequenza maggiore, oppure di acquistarne mezzi in più da “cannibalizzare”. Questo comporta un grado di rischio e di fragilità molto elevato, che riduce l’efficienza e la competitività del sistema produttivo. È inoltre difficile trovare concimi e agrofarmaci a prezzi ragionevoli, perché mancano gli accordi commerciali. In molti casi poi non vi è nemmeno una produzione zootecnica stabile che fornisca concimi di origine animale.

Aggiungiamo la totale carenza di infrastrutture sia di trasporto che di comunicazione, che di fatto limitano gli scambi all’interno dei paesi, creando così tanti piccoli mercati locali; sistemi di regolamentazione della proprietà complessi e arcaici, caratterizzati dalla sovrapposizione di diritti legalmente definiti ad abitudini e usi tradizionali e comunitari; una certa difficoltà nell’istituire forme di organizzazione e di cooperazione stabili; un settore industriale mai realmente sviluppato; alti livelli di corruzione. Ciò porta ad un sistema fortemente dipendente dalle importazioni anche di prodotti alimentari di base. Per esempio la Sierra Leone, uno dei paesi più poveri al mondo, dove io e dei colleghi abbiamo lavorato per anni, ha come prima voce di import il riso, l’alimento principale per la sicurezza alimentare della popolazione, fonte di carboidrati e calorie; tuttavia vengono importate anche uova e altri prodotti alimentari fondamentali. Ecco perché la Rivoluzione verde, alla base dello sviluppo dell’Occidente prima e dell’Asia più di recente, non riesce ad affermarsi in Africa: mancano le condizioni necessarie di innesco.

Torniamo all’Europa. Quali sono i rischi per l’agroalimentare italiano, e in particolare per i territori del nordest?

A subire le maggiori ricadute saranno proprio le filiere agroalimentari dell’Italia del nord, perché molto più dipendenti dall’import di mangimi e più vocate all’export. Mi viene da pensare a due filiere fondamentali per il nordest: quella avicola e quella vinicola. Il Veneto, e in particolare la provincia di Verona, sono il centro della produzione avicola italiana, tra le più importanti ed efficienti in Europa, in buona parte autosufficiente, ma che in compenso deve sempre confrontarsi con prezzi al consumo assai bassi. Quindi se da un lato essa è un’eccellenza del panorama nordestino, dall’altro i rischi legati agli aumenti dei costi di produzione — su tutti l’energia — potrebbero avere un impatto rilevante su un settore che conta migliaia di operatori concentrati per il 40% in Veneto.

E il settore vitivinicolo?

Esso ha visto una crescita sorprendente nell’ultimo periodo, soprattutto dei vini spumanti, di cui il nordest è uno dei principali player grazie alla produzione di prosecco. Se dovessero ridursi le esportazioni, a fronte di costi di produzione crescenti, i produttori veneti e friulani si troverebbero in grande difficoltà, perdendo la capacità competitiva che ha fatto del prosecco uno dei casi di maggiore successo dell’agroalimentare mondiale. Senza dubbio vi è un impatto trasversale su tutto il sistema agroalimentare italiano, ma alcune filiere strategiche, come quelle che le ho citato, potrebbero subire i contraccolpi maggiori, e con loro i territori in cui sono radicate.

L’Ucraina è famosa per le sue fertili “terre nere”, storicamente uno dei grandi granai d’Europa, e per secoli preda ambita di molte potenze (inclusa la Germania durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale). In un mondo dove il cosiddetto land grabbing, la contesa per le terre fertili, infuria, quanto può essere appetibile la buona terra ucraina?

L’Ucraina, con i suoi sessanta milioni di ettari, di cui il 55% di terra agricola (cioè la più alta percentuale in Europa) è effettivamente considerata da secoli il granaio d’Europa, e dopo il periodo sovietico (che negli ultimi anni aveva portato a una condizione di deficit produttivo) l’Ucraina è diventata, al pari della Russia, una grande esportatrice di commodities agricole. Per evitare l’accaparramento di terreni da parte di pochi grandi operatori, nel 1992 il governo ucraino lanciò una moratoria che limitò l’acquisto di terre agricole favorendo la nascita di piccole aziende (intorno ai quattro ettari). Ciò non impedì l’accentramento della proprietà sotto forme diverse; in tre diverse ondate furono infatti sviluppati contratti di acquisizione di numerosi piccoli appezzamenti, a costituire grandi proprietà fondiarie, quasi tutte con finalità produttive alimentari. La moratoria è stata abolita nel 2020, e dal 2021 si è aperta la possibilità di vendita e acquisto di terreni anche per gli investitori esteri, che a oggi restano ancora molto limitati per numero e quantità rispetto a quanto accade in paesi simili; molti investitori sono società con sede a Cipro e in Lussemburgo, stati che com’è noto applicano politiche di tassazione favorevole e una certa opacità nel trattamento dei dati.

Al momento è chiaro che l’Ucraina resterà fuori dalla contesa internazionale di terre fertili, contesa che a mio parere sarà una delle grandi sfide del prossimo futuro per controllare le risorse alimentari ed esercitare potere. Sulla base di quanto detto sopra, il cambio di traiettorie dei mercati internazionali delle commodities agricole porterà anche a un mutamento delle opportunità di investimento in grandi proprietà fondiarie verso nazioni considerate più stabili. Va però sottolineato che questi contratti di acquisizione comportano tempi di transazione abbastanza lunghi e hanno una portata temporale di decenni. Quindi non avranno effetti immediati, ma porteranno a nuovi equilibri internazionali. I grandi investitori, infatti, cercano un buon compromesso tra le condizioni favorevoli di investimento e la stabilità politica del paese, che è difficile da prevedere in un arco temporale esteso. Per questi motivi fino ad oggi i paesi dell’Europa orientale rappresentavano un ottimo target, così come quelli del sudest asiatico.

Infine, vorrei ricordare che il bene-terra è tipicamente anticiclico, cioè oggetto di investimento soprattutto nei periodi di crisi. Ci si può aspettare che in un periodo di minore globalizzazione dei mercati, che corrisponde a politiche protezionistiche e una maggiore concentrazione sul mercato interno, le terre fertili possano essere oggetto di crescente interesse da parte di grandi investitori istituzionali, intenzionati a garantirsi un asset stabile per la produzione e fornitura di prodotti alimentari. Questo fenomeno è già avvenuto in forme e modi diversi nella storia, sempre per rispondere a modifiche sostanziali del sistema demografico e produttivo. Negli ultimi anni sembrava che il problema della sicurezza alimentare fosse scomparso o relegato a qualche remoto e ininfluente paese del Sahel, invece di fronte alla crisi bellica in Ucraina, l’Europa e il mondo devono fare i conti con un tema mai risolto e che oggi è aggravato dalle necessità sempre maggiori di una popolazione che ormai supera i sette miliardi, e che ha crescente accesso a informazioni e modelli di consumo che fino a pochi anni fa erano appannaggio di una piccola porzione di popoli occidentali.

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