La morte dell’arcivescovo Tutu uno shock per i sudafricani; un altro duro colpo a un paese leader in Africa

La morte dell’arcivescovo anglicano e premio Nobel per la pace Desmond Tutu è uno shock per milioni di sudafricani. Lo sottolinea Gabriele Catania, direttore di OGGNIL (Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro) e conoscitore del Sudafrica (è anche autore dell’unico saggio in lingua italiana dedicato alla storia del paese africano, dalle origini al presidente Zuma).

“Al pari di Nelson Mandela, di Oliver Tambo o di Albert Luthuli l’arcivescovo Desmond Tutu è stato uno degli uomini che hanno cambiato, e direi salvato, il Sudafrica contemporaneo — rileva Catania –. Nonostante l’età avanzata, egli continuava a essere una guida spirituale per milioni di sudafricani di ogni età, etnia e cultura; la sua morte ha scosso un paese che, pur leader in Africa subsahariana, è messo a dura prova non soltanto dalla pandemia, ma dalla disoccupazione, dalle difficoltà economiche e dalle perduranti ansie sociali e politiche”.

“Al pari di Nelson Mandela, di Oliver Tambo o di Albert Luthuli l’arcivescovo Desmond Tutu è stato uno degli uomini che hanno cambiato, e direi salvato, il Sudafrica contemporaneo”.

Secondo Catania, “con il suo grande rigore morale, il suo genio politico e la sua straordinaria capacità dialettica, l’arcivescovo Tutu svolse il suo ruolo pastorale in modo eccezionale, in tempi di estrema difficoltà e pericolo, dando un contributo decisivo al crollo di uno dei regimi più brutali, razzisti e disumani della storia. Come presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, Tutu rese un servigio prezioso al nuovo Sudafrica democratico, e anche se la Commissione non centrò tutti gli obiettivi prefissati, fu una pietra miliare nella storia democratica del paese. Con la sua morte il Sudafrica perde un leader spirituale di enorme valore: un esempio per i giovani, uno sprone per i leader”.

Nato il 7 ottobre 1931 a Klerksdorp, nell’odierna North West Province (ma allora roccaforte degli afrikaner), Tutu era figlio di un insegnante, e volle seguire le orme paterne. Nonostante le difficoltà (studiava spesso a lume di candela, e fu colpito anche dalla tubercolosi) riuscì a conseguire il diploma e la laurea. Per tre anni insegnò in una scuola superiore, ma alla fine abbandonò la carriera di docente (al pari della moglie Nomalizo Leah) perché contrario al Bantu Education Act del 1953, che introduceva l’apartheid nelle scuole e mirava a favorire la “ritribalizzazione” degli scolari neri. Iniziò a studiare teologia. Ordinato sacerdote anglicano nel 1960, conseguì un master in teologia in Inghilterra, in un clima ben diverso da quello che si respirava nel suo paese natio.

Tra la seconda metà degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70 si divise tra il Sudafrica e l’Inghilterra, dove la sua intelligenza aveva l’opportunità di brillare, e nel 1975 fu nominato decano della Cattedrale di Saint Mary di Johannesburg: il primo nero a ricoprire tale carica. Popolarissimo grazie ai suoi sermoni, al suo carisma e alla sua coraggiosa critica al governo razzista, ebbe una carriera folgorante: nel 1976 fu nominato vescovo del Lesotho, e nel 1978 divenne il primo nero segretario generale del Consiglio Sudafricano delle Chiese (SACC).

Popolarissimo grazie ai suoi sermoni, al suo carisma e alla sua coraggiosa critica al governo razzista, Tutu ebbe una carriera folgorante.

Chiamato “la voce dei senza voce”, convinto sostenitore di una democrazia non-razziale, Tutu era apprezzato anche per il suo intelligente umorismo, e la sua forte empatia. Non aveva paura del governo, malgrado il potente primo ministro (e poi presidente) P. W. Botha negli anni ’80 cercasse in tutti i modi di ostacolarlo e metterlo a tacere. Tutu sfruttò la crescente notorietà per criticare il regime, e chiedere sanzioni contro il paese.

Nel 1984 ricevette il Nobel per la pace “per il suo ruolo di figura leader unificante nella campagna non-violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica”. La sua repulsione per ogni forma di violenza lo spinse a condannare con asprezza l’orrore dell’apartheid, ma non solo: nel 1985 ad es. un suo intervento salvò dal linciaggio un uomo accusato di fiancheggiare le forze di sicurezza.

Vescovo di Johannesburg, poi arcivescovo di Città del Capo e primate della Chiesa Anglicana dell’Africa Meridionale, promosse la causa femminile, ordinando due donne sacerdote. Nel 1995, in un Sudafrica finalmente democratico, fu nominato presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission). Anche se politici di primissimo livello (da Thabo Mbeki a F. W. de Klerk) ne contestarono l’operato, e nonostante tutte le sue imperfezioni, la Commissione fu un’occasione di riscatto, per le vittime così come per i carnefici, per “aprire le ferite e pulirle così da non farle incancrenire” e per gettare luce su molti terribili episodi che per anni il regime aveva celato ai sudafricani e al mondo.

La Commissione per la Verità e la Riconciliazione fu un’occasione di riscatto, per le vittime così come per i carnefici, e per “aprire le ferite e pulirle così da non farle incancrenire”.

Negli ultimi dieci anni, malato, Tutu si era progressivamente ritirato dalla vita pubblica, dedicandosi alla preghiera e alla contemplazione. L’epitaffio ideale potrebbe essere quello che egli stesso compose per sé: Rise, pianse, amò.

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