Tra populismo e tecnocrazia: una conversazione sulla politica italiana (e sulla nazione che verrà) con Jacopo Tondelli

In un mondo in profonda e rapidissima trasformazione, la politica italiana sembra barcollare. E con essa anche la democrazia. Certo, gli ultimi trent’anni non sono stati facili per l’Italia: le stragi di mafia, il crollo dei partiti di massa (e l’ascesa del leaderismo populista, a destra ma non solo), crisi economiche che hanno decimato la classe media (e ridotto quasi un italiano su dieci in povertà assoluta), la rinascita rumorosa delle “piccole patrie” e dei regionalismi, la rivoluzione sostanzialmente mancata delle ICT, la pandemia…

Il “miracolo italiano” del secondo dopoguerra è ormai lontano. L’Italia fa ancora parte di quei dieci paesi che insieme generano due terzi del PIL mondiale, ma ormai è solo decima, mentre negli anni Sessanta appariva come una delle nazioni più innovative dell’Occidente, e negli anni Ottanta si profetizzava il sorpasso italiano della Francia, e la sfida con la Germania (Ovest).

E l’Italia è ancora una democrazia, tuttavia è una democrazia in forte affanno, come sembrano suggerire la costante crescita dell’astensionismo, il discorso politico impoverito e ridotto a slogan da talk-show, la fascinazione di una porzione cospicua dell’élite finanziaria e mediatica per il “governo tecnico”, la natura caduca, mutevolissima, degli accordi tra partiti (o persino tra fazioni e “correnti” all’interno delle singole forze politiche).

Negli ultimi dieci anni sembra che tutti i nodi siano venuti al pettine. Il governo tecnico di Mario Monti ha segnato la fine del primo populismo, quello sorridente e furbesco di Silvio Berlusconi; la stagione del nuovo populismo (massimamente trionfante con l’inedito governo gialloverde, o gialloblu a dir si voglia) è stata interrotta da un secondo governo tecnico, quello di Mario Draghi, a sua volta congedato dai vecchi e nuovi populisti; infine, la vittoria di Fratelli d’Italia alle elezioni del 2022, e l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni (una donna al comando, per la prima volta dal 1861), hanno senz’altro segnato una cesura, la cui profondità però è ancora tutta da misurare.

È stato un decennio sospeso tra populismo e tecnocrazia, quello iniziato con la fine dell’ultimo governo Berlusconi. Un decennio vissuto pericolosamente, come ben ricordano i giornalisti Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli nel loro saggio “Dopo la democrazia”. Un decennio segnato, sempre per citare i due autori, da «un avvelenamento della democrazia italiana» (avvelenamento che in altri paesi dell’Occidente è già sfociato nel coma della democratura).

“Dopo la democrazia”, pubblicato per i tipi di Zolfo Editore, è una lettura necessaria. Serviva, a una classe dirigente incline alla smemoratezza di comodo, un saggio che ricostruisse, con lo stile sobrio e quasi scarno del giornalismo autentico (lontano dai barocchismi di certi retroscena effimeri, e dal manierismo addomesticato di tanta cronaca TV), le acrobazie e le incoerenze, i tormenti e le velleità di una classe politica nel suo complesso inadeguata. Molto inadeguata.

Direttore prima de Linkiesta e oggi de Gli Stati Generali, da anni Tondelli commenta e analizza, sulle pagine digitali della testata milanese, la politica nostrana, con impietosa perizia e icastica intelligenza. In questa conversazione per il blog di OGGNIL con il nostro direttore Gabriele Catania il veterano del giornalismo racconta il libro, e offre qualche lume sull’Italia di oggi e di domani. Silvia Civitella ha contribuito alla stesura del testo.

Ritratto di Jacopo Tondelli, direttore de Gli Stati Generali. Foto di Stefano Iannuso

Il governo Monti, nato nel novembre 2011, sotto la spada di Damocle dello spread, è definito da te e da Falci come “l’inizio di una nuova era”. Perché?

Perché ha sancito in maniera irreversibile la fine dell’esperienza diretta di governo di Silvio Berlusconi, prima di tutto. E perché ha, di fatto, aperto la strada alla fine del bipolarismo italiano per come l’avevamo conosciuto nel ventennio precedente, cioè a partire dal 1993 e dalla discesa in campo appunto di Berlusconi.

Tu pensi che sarà possibile tornare a un bipolarismo diciamo stabile in Italia?

Al momento non credo sinceramente, anche se di sicuro l’esperienza di governo di Giorgia Meloni va in questa direzione e può aiutare a ricostruire in questo senso un’alternanza di quel tipo. Però al momento non mi sembra una prospettiva realistica per molte ragioni.

Con Berlusconi si accentua il leaderismo della politica italiana. Tuttavia l’Italia è, a conti fatti, un tritacarne dei leader. Berlusconi ha dovuto lasciare nel 2011 tra le critiche, per non parlare di Renzi, dello stesso Draghi… Ogni volta questo o quell’uomo politico viene acclamato come il salvatore della patria, ma alla fine si brucia, o viene ricondotto a più miti ragioni. Perché?

Sì, però non è fenomeno solo italiano. È un fenomeno dei nostri tempi, almeno in Occidente. Detto questo, in Italia le ragioni di ciò si trovano sicuramente nella fine della centralità delle grandi famiglie politiche, le quali dovrebbero produrre e sostenere i leader, e supplire persino a eventuali défaillance dei leader stessi.

C’è un leader però che resiste al tempo. Un leader sui generis, dato che non siamo una repubblica presidenziale. È Sergio Mattarella, amatissimo da gran parte dei cittadini, di destra come di sinistra, dal Brennero a Siracusa. Tu come hai reinterpretato la sua rielezione?

Sicuramente come un fallimento della nostra classe politica, che non ha saputo esprimere una vera alternativa, e che ha finito per stabilizzare un’eccezione — diciamocelo — non troppo sana: rieleggere il presidente della Repubblica uscente non è sintomo di salute delle istituzioni, e del resto quel ruolo non era concepito così dai costituenti. Credo anche che se davvero il presidente Mattarella non avesse voluto essere rieletto… non sarebbe stato rieletto.

Uno dei protagonisti del vostro saggio è Giuseppe Conte. Un avvocato e professore che sino al 2018 nessuno conosceva, a parte il mondo giuridico di Roma e Firenze, e che ha guidato ben due governi. Oggi rimane uno dei leader più popolari. Qual è la tua opinione su di lui?

Penso che sia un uomo molto abile, con un buon intuito politico. Un uomo, aggiungo, anche molto ambizioso e che, in ragione di quest’ambizione, è abbastanza disponibile a indossare gli abiti che meglio stanno nel pezzo di società in cui trova posto in quel momento.

Nel libro definite Draghi mito impossibile. Cioè?

Quello di Draghi è stato a lungo il nome del vero salvatore, del salvatore invocato, del salvatore atteso, ma non c’era nessuna possibilità che questa anomalia si stabilizzasse. In questo senso era impossibile pensare davvero che quella esperienza fosse irreversibile, come invece analisti e commentatori hanno auspicato e immaginato all’inizio.

Quindi tu non ci hai mai creduto?

No, non ho mai pensato che potesse perdurare oltre un tempo molto ristretto.

Ricordo che qualcosa del genere accadde pure con Monti. Anche allora c’era chi diceva: “Monti ce lo teniamo per anni”.

Assolutamente, è così. Ma con una differenza non da poco: Draghi arrivava in un momento comunque di ripartenza, di ripresa (anche se poi è scoppiata la guerra in Ucraina, che in effetti ha cambiato lo scenario). Invece Monti arrivava in una fase molto depressa dell’economia, sia nazionale che globale.

Il vostro libro rende evidente una cosa: la politica italiana è molto volatile. Senz’altro è un segno dei tempi (pensiamo al Regno Unito, agli Stati Uniti, alla Francia), ma in Italia tutto ciò è particolarmente accentuato.

Sì, la politica è volatile perché la società è volubile. È la società a essere particolarmente volubile e quindi a generare il tipo di politica che conosciamo.

Che intendi con società volubile?

Beh, è la società che investe leader a cui dà il massimo del credito per poi rigettarli nella polvere in pochi mesi o al massimo in qualche anno. È la società che si lascia convincere da propagande improbabili che per esempio il problema principale di questo paese siano una volta i migranti, una volta la criminalità di strada, mentre i problemi storici e strutturali del tempo che viviamo e soprattutto in quello che vivremo sono ben altri.

E perché questo accade?

Perché è una società in gran parte vecchia. E provinciale. Questi due elementi, insieme, rendono difficile reggere la complessità.

È una società con il fiato corto?

Sì, può anche darsi che abbia il fiato corto. Senz’altro è una società che ha lo sguardo corto.

Ora a Palazzo Chigi c’è Giorgia Meloni. Qual è il tuo giudizio sul suo governo?

Beh, si tratta di un governo che prova a galleggiare senza avere una visione di lungo periodo e strategica: un po’ perché la situazione internazionale è quella che è, un po’ perché non è nelle sue corde, oggettivamente, uno sguardo troppo ampio di futuro. È un governo che, come capita con certe aree politiche, tende a guardare di più all’Italia che c’era. Del resto a votare in Italia sono soprattutto gli over40, gli over50, che sono anche numericamente di più, e quindi questo è il naturale portato di una situazione che, ancora una volta, è prima sociale e soltanto poi politica.

Nel vostro libro si parla anche di Sicilia. Che per anni è stata definita un laboratorio della politica italiana che verrà. È ancora così?

Di sicuro lo è stata per decenni, no? E per ragioni: sociali, culturali, e anche di natura — diciamo così — criminale, se pensiamo al radicamento di Cosa Nostra… Oggi lo è ancora e domani continuerà ad esserlo? Mah, è difficile a dirlo, no? In un tempo in cui sempre di più le realtà locali, territoriali, tendono a seguire traiettorie proprie, è difficile dire o immaginare che sarà ancora così.

Nel vostro libro compaiono nomi che sono degli immortali della politica, per esempio Bruno Tabacci. Perché personaggi come Tabacci danno prova di una simile resilienza?

Perché, diciamo, nella terra dei ciechi anche Polifemo ci vede bene; e quindi chi sapeva fare politica, chi sapeva organizzare gruppi parlamentari, chi sapeva muoversi tra le file del potere economico e del potere politico (questo è il caso di Tabacci ad esempio) spicca. Ci sono persone resilienti anche se magari non hanno i voti, non hanno forza sul territorio; una politica così scalcagnata ha un disperato bisogno di professionisti del genere.

Sul finire del libro elencate molte delle grandi sfide che l’Italia deve affrontare. Qual è quella che ti preoccupa di più?

Quella demografica, perché da quella dipende tutto. Ad esempio la sostenibilità del debito pensionistico, l’evoluzione dei modelli di sviluppo, la capacità di avere lavoro di qualità e quindi di aumentare la produttività, la capacità di riorganizzare un sistema industriale: senza persone che lavorano e senza le competenze giuste non si può fare. Quindi quella demografica è la madre di tutte le sfide del futuro per definizione.

Qui nel nordest c’è molta sfiducia nei confronti della politica. Che cosa diresti tu, che conosci bene i meccanismi della politica italiana, a un piccolo imprenditore di Pordenone o a un professionista di Treviso? Cosa devono aspettarsi le piccole partite IVA, le PMI, i laboratori nordestini dalla nostra politica?

Guarda, cosa devono aspettarsi esattamente non lo so. Quello che mi sentirei di consigliare è di provare a costruire legami stabili con la politica: non per infilare emendamenti o per trovare qualcuno sensibile a modifiche normative che vanno in questa o quella direzione, ma a trovare nella politica persone, e ce ne sono, capaci di capire cosa succede nel tessuto produttivo di questo paese, di recepirlo, di comprendere la società che cambia. E anche, in questo modo, di assorbirlo e di costruire percorsi virtuosi dal punto di vista delle politiche messe in atto.

Scegliere una politica in grado di ascoltare.

Scegliere di parlare con la politica, ma di parlare raccontando ciò che succede nelle aziende, nei piccoli territori, nelle città, nei paesi. Trovare soggetti che ascoltino, sì.

Questa conversazione è disponibile sotto la licenza: Creative Commons Attribuzione — Non commerciale — Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale CC BY-NC-SA 4.0

La foto di Mario Draghi in cover è stata scattata a Davos da Remy Steigger (CC BY-SA 2.0, come indicato da Wikipedia); la foto di Matteo Salvini in cover è stata scattata dal Dipartimento di Stato USA.

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Il Blog dell’Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro

Attivo c/o Bericus, l'Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l'Impresa e il Lavoro elabora scenari geopolitici e geoeconomici.