If the shoe fits: il genere della questione

domitilla.pirro
il buco nel cervello
10 min readAug 25, 2016

[Questo pezzo è uscito il 17/9/15 su minima&moralia.]

The Mindy Project, s01e01

“Il problema con il genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo”. Nella celeberrima TED Talk We should all be feminists (trascritta a suo tempo da Internazionale e riproposta da Einaudi qualche mese fa), Chimamanda Ngozi Adichie alterna aneddoti efficaci e one liner a doppio taglio. Racconta ad esempio: “Conosco una donna che ha sempre odiato le faccende domestiche, ma faceva finta di amarle perché le è stato insegnato che la donna da sposare dev’essere anche — per usare una parola nigeriana — una donna di casa. Poi si è sposata. E la famiglia del marito ha cominciato a lamentarsi di lei dicendo che era cambiata. In realtà non era cambiata. Si era solo stancata di fingere di essere ciò che non era”. Qui (e ogni volta in cui Adichie parla di “donne che si trattengono. Che non sanno dire quello che pensano davvero. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte”) la scrittrice igbo mi ricorda inevitabilmente la gemma nascosta dentro Gone Girl di Gillian Flynn: la confessione di una Strafiga (in originale, Cool Girl) che tale non è affatto, ma finge — finge di amare la birra, le gare di rutti e il sesso anale col solo scopo di irretire il pollo che ce casca.

Rispetto allo status quo nigeriano che denuncia Adichie, laddove i camerieri sono addestrati a salutare solo i clienti di sesso maschile, l’accostamento può sembrare paradossale. Culturalmente il processo è analogo: si tratta di imitare un modello comportamentale poco o affatto compatibile col proprio nucleo (Martha Stewart o Sasha Grey, una geisha o una cameriera di Hooters) col solo scopo di… non morire sole, probabilmente. E questa farsa ridicola, dice Adichie, è il genere che la prescrive e la impone. Giusto?

Sbagliato.

“E adesso mi mette i like. Capito? Che cazzo mi metti i like, coglione”. L’accento di Chiara CognomeRandom potrebbe essere il mio. In questo caso non lo è. Lei è padana e io no, lei è fregna io manco de striscio. Ma il tono è lo stesso che so di aver adottato io stessa n volte, nel corso della vita adulta: non del tutto isterico, non ancora disperato. Lagnoso, via. Un tono dovuto al genere? No. Il tono che è un’eco: l’eco che tradisce un buco.

Come scriveva Camilleri, ché a quindici anni ce stavo chiusa, “vegno e mi spieco”. (Un richiamo ai quindici anni è fondamentale, portate pazienza: è a quindici anni che avrebbe avuto senso, per chi scrive e per chi legge, ricevere uno spiegotto come questo.) Il problema è il buco, appunto.

Ce n’è un sacco di pezzi così: quelli che trattano l’argomento a cuor contento e fica meno (o più, dipende dai casi). Quelli che basta che se ride, e affrontano il problema con una buona dose d’ironia pecoreccia; le riviste che dedicano al tema uno speciale e allegano all’inserto il pratico calco in gesso (“Misuralo mentre dorme e scopri se va bene per te!”). Più raramente, credo, si racconta seriamente delle fimosi da supercazzo(la), cioè dei tagli a carne viva nella parte inferiore della vagina dovuti alla taglia sbagliata; o al contrario dello straniante, indisponente senso di vuoto di un grissino infilato nel tonno. Emptiness inside, proprio. Dicevamo: l’eco.

Ma insomma mi frega il giusto che se ne parli e quanto. Mi frega di più capirne le cause. Non quelle della disparità: tot capita tot cazzi, la varietà fa bene al mondo eccetera. Le cause — alert: flame ahead — dell’attaccamento della femmina etero al maschio con la dotazione sbagliata. E la causa secondo me è il vuoto. Il vuoto a partire dal buco. Il buco nel cervello.

È inutile che ti incazzi, neoveteropostfemminista del 2015 con la montatura larga e la bubbola rockabilly in fronte: quasi ogni tuo pensiero, parola, opera e omissione ha il primum movens nel fottutissimo buco da colmare. Non sei d’accordo? Ascolta. La foto profilo hipsterica col capello colorato a tempo e la Brompton appoggiata sul marciapiede acchiappalike: è il buco. La fast diet del digiuno per tre giorni e un weekend che daje de Negroni Sbagliato: è il buco. Stare fedelmente da quattro anni con uno che non (ti) scopa mai: è il buco. La collega che prima di andare a convivere si fa prendere dai cold feet e si leva lo sfizio di una scopata ancora da incignare (ancora Camilleri, pardonnez) per essere sicura di rinunciare ai cazzi sbagliati: il buco più che mai. Chiara CognomeRandom, infine, che dice che s’è messa con uno che non le piace, non stima e non ama (in quest’ordine, eh, in quest’ordine) perché spera di trarne vantaggi, un lavoro, il trasloco, e adesso che lui l’ha lasciata — adesso, ecco — soffre: lei ha il buco più anacronistico evah, ma sempre buco è. Con buonissima pace di Chimamanda Ngozi Adichie.

Partiamo da… Adamo ed Eva. No. Quasi. C’è una bella lezione di Roberto Calasso (riproposta in forma di saggio come La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi 2005) che comincia così: “Il primo essere a cui Apollo parlò sulla terra fu una Ninfa. Si chiamava Telfusa e subito ingannò il dio”. Good morning, gender issues!

Immaginiamoci il dio che, bello e spaccone, si è fatto la Beozia di corsa: a me personalmente piace figurarmelo a piedi, glorioso e dorato, à la Hercules disneyano if you know what I mean. Sta cercando un luogo adatto a piantare le tende (metaforiche e non) del proprio culto. Scartate una serie di possibili location, forse prive di wi-fi, finalmente Apollo si ferma nell’unico posto che gli pare sicuro, illeso dalle umane sfighe, intatto. Intatto. La parola è fondamentale, perché prima di Calasso è l’inno di Omero a usarla: choros apemon, dice. Quando la trova, Apollo ci parla: tra una riga e l’altra, questo luogo intatto diventa una lei. Una Ninfa. Telfusa, appunto. Ninfa che, essendo intatta, percepisce lui come una delle suddette sfighe, un invasore: e come darle torto. (Non abbiamo pensato la stessa cosa anche noi, in gita di classe, infrattate in fondo al pulman insieme a Bono Matonto del IV F?) Invece di scacciarlo claris verbis o manifestare la sua scrosciante potenza di fonte sorgiva, però, la Ninfa prova sfacciatamente a percularlo.

“Qua ci sono i miei cavalli, le mie mule”, dice Telfusa: “fanno un gran casino, ti rovinano l’atmosfera del tempio. Cércati un bel dirupo, una gola: so che dalle parti del Parnaso ce n’è una che è la fine del mondo”, suggerisce, o qualcosa del genere. Uno spreco di parole non indifferente: e tutto per non aver avuto il coraggio di dire con franchezza al pollo Apollo di tornarsene da dove era venuto. Al Parnaso il dio ci arriva, e trova Delfi, l’ideale per lui: ma la zona è infestata da una creatura che a lui tocca scannare, la draghessa Pitone. Femmina pure questa, manco a dirlo. All’esistenza di Pito Telfusa non aveva fatto cenno, chissà perché.

Tonto non è, Apollo: scanna la belva, edifica il tempio, torna indietro. Insudicia la corrente di Telfusa con una frana rovinosa — umilia la Ninfa, come specifica Omero, seppellendola sotto i macigni — e per buona misura tira su un secondo altare pure qui. Poi, scrive Calasso, “ruba a Telfusa anche il suo nome, facendosi chiamare Apollo Telfusio”. Can’t mess with Apollo.

L’ottimo Calasso richiama ora la nostra attenzione su un dettaglio preciso delle divine scorribande: sia con Pito che con Telfusa, oggetto della contesa è “una fonte che sgorga. E nell’uno e nell’altro caso si tratta della storia di un potere che viene spodestato. La Ninfa e la Draghessa sono guardiane e depositarie di una conoscenza oracolare che Apollo viene ora a sottrargli. In tutti i rapporti fra Apollo e le Ninfe, rapporti tortuosi, di attrazione, persecuzione e fuga […], rimarrà questo sottinteso: che Apollo è stato il primo invasore e usurpatore di un sapere che non gli apparteneva, un sapere liquido, fluido, al quale il dio imporrà il suo metro”.

In effetti è sempre dalle Ninfe che Apollo ha appreso l’arte del tiro con l’arco e quella della divinazione, ma il rozzo divetto non s’è mai fermato a ringraziare: se continuassimo a stalkerarlo nelle sue epiche (è il caso di dirlo!) avventure terrestri, scopriremmo infatti che, quando incontra le svolazzanti veggenti mangia-miele chiamate Trie, Apollo non è da meno. Ancora lui, Calasso, ce lo dipinge “impaziente di sbarazzarsi di loro. Voleva cancellare ogni richiamo alle origini del suo potere sovrano. Così le donò a Hermes, dono avvelenato, con parole che le umiliavano, come se le Trie rappresentassero le basse opere della divinazione e dovessero rimanere per sempre, con i loro dadi e le loro pietruzze, in un recinto infantile della conoscenza”. Ci siamo? Attenzione, adesso: “verso Telfusa come verso le Trie, Apollo seguì lo stesso impulso: deprezzare, umiliare esseri femminili portatori di un sapere a lui precedente”.

‘Azz. Geneticamente inqualificabile lui? Storicamente fessa lei, fesse loro, perché natural born victims? Rifiutiamoci, insieme, di crederlo. È un insulto all’intelligenza collettiva. Passiamo dall’epica primigenia alla fumettologica contemporanea e cercherò di dimostrare cosa intendo.

Quasi trent’anni fa, nella leggendaria raccolta Warrior, sarebbe dovuto comparire il primo episodio di Nightjar (La nottola), una storia di Alan Moore mai interamente realizzata. Una decina d’anni fa, nel settembre 2003 per la precisione (rielaborata e ristampata nel 2007 e nel 2014, quando è approdata anche in Italia grazie a Panini Comics), Nightjar è stata illustrata da Bryan Talbot e ha finalmente visto la luce nell’antologia lovecraftiana Funghi di Yuggoth e altre colture. La nerdissima copertina racchiude una serie di short stories fuori catalogo o inedite, tutte di Alan Moore, e una congerie di interviste, saggi, articoli e note che definiremmo impunemente chicche. Una delle più interessanti tra queste è la lettera di trattamento che accompagna Nightjar: è ben più preziosa del raccontino in sé. Scritta da Moore e indirizzata al disegnatore, illustra infatti l’enorme apparato di paranoie e voli pindarici che accompagna l’autore — qualunque autore, in realtà — nella costruzione di narrazioni future: dalle minuzie legate alla trama a più generiche dissertazioni sul target, che per Moore non è una parolaccia. Nel dettaglio, qui ci si interroga sulla protagonista del fumetto, sulle qualità che l’autore vorrebbe che avesse… E qui Moore parla del buco, in certo modo. Vediamo perché.

“Per prima cosa, dev’essere un personaggio femminile molto forte… e con questo non intendo il classico personaggio femminista della Marvel in bikini d’acciaio […]. Potrebbe educare quella frangia di misogini preadolescenti che c’è nel nostro pubblico, su come sono le donne, rispetto a come il 90% dei ragazzini tredicenni in preda alla masturbazione vorrebbe che fossero”. Il grassetto è nel testo di Moore, che veneriamo con rinnovata stima. Non dev’essere facile rivolgersi ai tredicenni masturbatori, right? Né ammettere che parte della fortuna di un autore — o di un intero filone di entertainment — trovi in loro la vacca da mungere. Quanto sia difficile, di preciso, ce lo chiarisce sempre Moore: “Il problema, qui, è che non riesco a vedere un modo realistico e fattibile di realizzare questa cosa senza fare almeno una sorta di concessione alla grande tradizione della mentalità Tette e Culi. Forse potremmo cercare di rendere queste concessioni il più possibile a doppio taglio […] Nel migliore di tutti i mondi possibili, sarebbe fantastico realizzare un personaggio femminile che avesse un aspetto nella media”. Chiaro? Nella media. Alan knows, e lotta insieme a noi.

Prosegue, l’ottimista bardo di Northampton, suggerendo a Talbot “una di quelle forme di bellezza strane ed estreme, pericolosamente al limite con la bruttezza […]. Quel tipo di bellezza potrebbe educare un po’ le persone ad apprezzare qualcosa che non sia per forza l’ideale di donna con la pelle lattea e il nasino all’insù”. Quanto al vestiario, “non voglio un costume da supereroe, perché questo non è quel genere di personaggio. Non voglio neanche la classica casacca lunga da mago […]. Ciò che più si avvicina alla mia idea è un personaggio che si vesta normalmente… che indossi gonne, cappotti, sciarpe, guanti, pantaloni, stivali, scarpe o qualunque altra cosa, e che si cambi d’abito proprio come farebbe chiunque altro”, purché con “uno stile distintivo ed esotico”. Daje, Alan.

Pensiamo adesso a quanto sia costato a Moore, in termini autoriali, il corsetto tettuto che di fatto poi arriva sulle pagine di Nightfall e sul corpo della protagonista. Protagonista dalle fattezze preraffaellite, peraltro — difficili da incontrare per strada, difficili da considerare nella media. Nice try, Bryan.

Se immaginassimo l’ingrediente mancante nella pur lodevole spremuta di meningi degli autori, dov’è che potremmo individuarlo? Nella consulenza in materia, forse: perché, per sapere come si veste normalmente una protagonista, basta chiederlo a una. Protagonista lo siamo tutte. Lo siamo tutti.

Il buco è il nostro gorgo e la nostra maledizione. Lo colmiamo con cazzi, strap-on, dita, biglie vibranti telecomandate, blandizie altrui, abbella. Ha pareti spesse e porose. È fatto della demenza d’avere il culo grosso e un QI più grosso, e preoccuparsi esclusivamente del primo. Si scava e si slabbra sempre più a fondo a causa di ogni autosabotaggio ponderato, in piena coscienza e volontà: tipo la decisione d’accollarsi una zavorra pur di — oh noes! — non imparare l’autoanalisi, non sia mai. Si fodera dell’incapacità cronica di comunicare in modo chiaro le proprie necessità alla persona che abita all’altro capo di Whatsapp. È la sistematica e costante strategia di difesa che adottiamo quando, per viltà o pigrizia, accettiamo di sottovalutare noi e i nostri interlocutori. E non cicatrizza, non si colma. Mai.

Il primo passo per risolvere un problema è ammettere di averlo: si fotta, il buco. (Se possibile, letteralmente.) Ripetiamo insieme e diciamo, in piedi e a voce molto alta: sono femmina e portatrice di buco. True story. E, sì, il buco nel mio cranio fa corrente con la fica quanto il tuo (e il tuo, e il tuo). Ma ne sono cosciente e voglio imparare a gestirlo. Servono tappi spessi fatti di A.M.Homes e autoaffermazione. Serve la volontà di dialogo con chi ha un altro buco e non lo sa, non lo accetta; oppure con l’altra cazzutissima metà del cielo. Che al posto del buco ha la sindrome da caprarolo, una mazza in fronte da pastore agropontino e la stessa sensibilità — anche se spesso ce lo dipingiamo unicorno, poor thing, e invece è solo testa-di. Da chi andremo a piangere quando la mazza ci finirà in un orecchio o nel naso? Che vaselina useremo? Quanti e quali clisteri servono per svuotare, lubrificare e ripulire il cervello togliendo la merda nostra e riempiendoci di fluidi altrui?

Ho una proposta ecumenica. Accettiamoci, buchi e appendici, e mostriamoci come tali: facciamo come Mindy Kaling. Un buco ce l’ha anche lei, chiaro? Altroché. Vera Mindy Chokalingam, questo il nome intero, è una Lena Dunham mezza hindu, meno hipster e più fucsia. Autrice, interprete e exec della comedy The Mindy Project (tre stagioni con Fox e la prossima con Hulu), usa uno pseudonimo perché quando andava a far ribaltare di risate i newyorchesi coi primi esperimenti di stand-up comedy, dopo l’università, le storpiavano sistematicamente il cognome. Nei panni dell’egocentrica protagonista della serie, quest’illuminatissima guru a un certo punto ha la spensieratezza di dichiarare: “Questo non posso proprio farmelo scappare. Finalmente ho beccato un ragazzo col pisello perfettamente proporzionato. Hai idea di che merce rara sia, a Manhattan? Mi ci aggrappo finché non mi trascina via un medico legale”. So do I, sis. So do I.

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