Perché poi arriva sempre uno che fa ’sto commento del cazzo— di Marina Gellona

domitilla.pirro
il buco nel cervello
17 min readOct 6, 2016
Illustrazione di Nicoletta Ceccoli

C’è un problema. Di vocabolario.

Un problema? Un problema quale? (Chiedo e prendo tempo. Intanto rileggo.)

Ma si facesse i fatti suoi? Ma se li facesse, porca puttana, gli stramaledetti, fottuti, dannatissimi fatti suoi. Che minchia è venuto a fare, qui, in riva al mare, dove io non stavo dando fastidio a nessuno.

Sto qui soprattutto per non dare fastidio a nessuno, perché io le cose le capisco al volo, prima ancora di averle sentite, prima che le pronuncino: e quello che ho capito è che oggi, ma anche ieri e se proprio proprio anche domani, è questo: non dovevo dare troppo fastidio a nessuno.

A nessuno. E soprattutto a loro due. A lei, la mia mamma. A lui, mio padre.

E allora me ne stavo qui, avevo pure freddo, mi sentivo perfino il colore delle labbra da quanto avevo freddo: avevo un freddo viola.

Avrò sicuramente le labbra viola. Praticamente l’anticamera del congelamento, dell’assideramento, a sentire mia madre che quando mi vede, quando mi guarda, me lo dice: hai le labbra viola, esci dall’acqua. Ma ora non mi guarda e io posso confondermi. Mi mimetizzo con il mare, tanto sono viola e blu dal freddo. La labbra viola. I piedi blu.

I piedi a mollo hanno la temperatura dell’acqua, fredda, le caviglie fredde, i polpacci freddi, le ginocchia fredde, le cosce? Sì, fino al culo. Freddo, ancora più freddo, perché avere addosso un costume bagnato aumenta il freddo di un numero imprecisato di gradi. E quando hai freddo dai piedi al culo va da sé che hai freddo dappertutto.

E c’ho pure fame, tanta, ma, per non dare fastidio a nessuno ho imparato a ignorarla, la fame. Come? Giocando. Cercando le cose.

Come adesso. Cercando le cose che so che ci sono, ma che sono nascoste per bene sotto il mare.

Così oltre alle labbra viola e ai piedi blu e al culo tremante di freddo c’ho pure le mani “cotte”. I polpastrelli a righine dure e ondulate. I polpastrelli che rivoltano senza sosta da ore la sabbia e i sassolini del mare bianco di schiuma. I polpastrelli delle dita come fossero di velluto, ma un velluto duro, gelato. A costine. Ma le costine di pelle sono ruvide.

Ecco, vi pare che stessi dando fastidio a qualcuno? No. Mi stavo ampiamente facendo i cazzi miei, tutti, anche se ho solo sei anni, però ho già capito cosa vuol dire farsi i fatti propri.

E lui, trac, arriva.

Già mi stava sul cazzo prima, figurati ora. Arriva. Eccolo. Si pianta lì, a coprire quel poco di sole che mi stava salutando prima di finire dietro al promontorio, e si impegna per tirar fuori la minchiata. La puttanata. ’Sto commento di merda, il panciuto quarantenne rincoglionito, frustrato, lobotomizzato. Lo fa. E lo fa di nuovo.

E io non mi scompongo. No. Manco per il cazzo. Lo sai io cosa gli dico? Lo sai cosa gli dico, dopo che si è fatto il suo commento minchiuto, non una ma due volte, perché quelli come lui sono così: le puttanate amano ripeterle, scolpirle bene nel marmo della loro idiozia. Io lo lascio finire, venire allo scoperto fino in fondo, nella sua ignoranza aggressiva e merdosa e poi gli dico così.

Gli dico: ma fatti i cazzi tuoi, va’, stronzo… tornate affanculo da dove sei venuto, e fatti almeno una domanda in croce, stronzo quarantenne sovrappeso disilluso e già morto dentro. Fattela sul tuo suv nero come la notte che hai nella testa, fattela, ’sta domanda della minchia, mentre guardi il culo delle tredicenni tu che a tredici anni già non sapevi più cosa volesse dire giocare, saltare, fare una domanda curiosa, essere puro. Fatti ’sta domanda, una sola merdosissima domanda, mentre ordini l’aragosta al ristorante, nel tavolo con vista su un mare che sei così miope da non vedere, immenso che è, e tu pensi sia grande come il biglietto da cinquanta euro in più per avere quel tavolo vistamare invece che un altro e poi non alzare mai gli occhi dal piatto o farlo coincidere solo con quanto lo violenta questo o quel motoscafo o yatch o altra imbarcazione milionaria, bianca come la morte, senza lo straccio di una vela, senza nemmeno un po’ di coscienza di cosa è un vento di cosa vuol dire spegnere il motore e accettare le regole del mare.

Fatti la domanda, mentre ti chiudi dietro ai vetri scuri della tua macchina da stronzo e te ne vai dritto affanculo dove ti sto mandando, con la pagella dei tuoi figli dimenticata sul sedile posteriore, la pagella della scuola privata dove i numeri dei voti li decidono gli assegni che stacchi e quanto è leccaculo il preside della scuola quell’anno.

Fatti questa domanda prima di scoparti tua moglie come se non l’avessi mai vista prima, come se non la volessi rivedere mai più (che poi, a maggior ragione, non varrebbe la pena di farle bene, le cose? Ma questo è un pensiero troppo raffinato per te), e mentre hai quella brutta smorfia sulla faccia, che se potessi avere uno specchio davanti, mentre la prendi da dietro, e lei ha gli occhi chiusi e conta i secondi che mancano ad andarsi a fare una doccia bollente e vomitare nella vasca da bagno e veder vorticare tutto nello scarico… se solo tu ti vedessi, in quello specchio, sono sicura che prenderesti la pistola che tieni nel cassetto del comodino accanto al letto, che hai preso per fargliela pagare un giorno a tutti quei bastardi negri di merda che girano per le nostre città, o quegli zingari stupratori e ladri, prenderesti quella pistola e spareresti tu stesso, a quello stupratore che sta lì, nel culo di sua moglie, della sua sposa, di quella che a vent’anni ha aspettato all’altare di una chiesa che ora hanno sconsacrato, vestita di bianco, quella sposa che hai preso dalla mano di suo padre quando lei c’aveva già quell’aria indefinita, quella di chi ha messo un abito di una parte che deve essere la sua ma che sta già recitando, e già le sta stretta, e già lo aveva sentito allora il vomito che arriva, ma quel giorno pensa: sono solo la solita deficiente emozionata, sì, ma quando sarò sua moglie… E il vomito non le è mai passato, anzi. Gli spareresti tu, di tua mano, a quello stronzo che sta lì, sudato e grasso, sul vostro letto. E faresti una cosa buona, nella vita, una, tu, contro di te, toglieresti la tua faccia di culo dal mondo e da questa spiaggia in cui almeno non romperai più il cazzo a nessuno che già sta cercando di appigliarsi a qualcosa e non sa cosa.

Ma lo specchio non c’è, la pistola resta rabbiosa nel cassetto e tu le vieni sulla schiena, e tutto ti fa già schifo, come una cosa inutile, brutta e inevitabile, ma quello che non riesci a provare è lo schifo per te stesso, te che hai riempito di così tanti rumori la tua vita che il senso di schifo, o di dispiacere, o di disumanità, il dolore, non lo senti, come non senti il rumore del suv, perché dentro la tua macchina c’è un perfetto silenzio di pelle fredda e liscia, come non senti il fischio dell’aragosta che muore per sentirsi scrocchiare le chele succose sotto i tuoi denti, come non senti il rumore che fa tuo figlio tirandosi nel naso la sua settimanale (o bisettimanale? Che importa, tanto tu non senti) striscia di coca, come non senti il rumore del vomito di tua moglie, perché senti solo il rumore della doccia (ma quanta acqua spreca, quella) dietro la parete di cristallo che quella (troia di tua moglie? Sì?) ha voluto per Natale. Infrangibile. Trasparente. Verde come l’acqua di un mare di vetro, che tu, ancora una volta, non vedi perché già dormi occupando tutto il letto e lei andrà a dormire sul divano, ché è pure più contenta, vedi che avete trovato un equilibrio?

Ma il punto vero è questo: è che tu la domanda non te la fai. La domanda importante no, il commento del cazzo sì. E perché?

Sì, la domanda. Quella domanda. Dai, provaci. Codardo. No, non la pistola, la domanda: ma invece no, e lo sai perché? Perché sarebbe pure peggio che spararsi un colpo in fronte. Sarebbe peggio perché ti lascerebbe ferito, nudo, sanguinante, in lacrime, allo scoperto totale, piccolo come una nullità, la nullità che sei diventato. Una nullità, ma vivo. Non morto come sei morto ora.

La domanda, eccola lì, fattela dai, prima che sia lei a fotterti, quando meno te lo aspetti:

ma io che cazzo ho costruito nella mia vita?

***

Vedi? Ecco. C’è un problema.

Quale? (Chiedo di nuovo)

C’è un problema narrativo. Di personaggio. Di punto di vista.

Ah-ah, faccio, ditemi.

Tutto questo un bambino di sei anni non lo penserebbe nemmeno. Non lo direbbe così. Non è il suo punto di vista. Ti è perfino scappato qualche femminile qua e là.

Già, dico io. Perfettamente d’accordo.

Ecco, allora non funziona, devi trovare un altro attacco.

No, dico io, una volta tanto senza dubbi su una cosa che sto scrivendo. È perfetto invece. Perché il punto è proprio questo.

Potessi mai esserci in un’altra sua infanzia, in un altro momento cruciale come quello, un momento-bivio, una situazione così, una sfida, una battaglia, un’aggressione, vorrei regalargliele le parole. Quando da grande si sentirà come un bambino, solo, indifeso, con un ciccione di merda che pretende di dire la verità — deve averle, le parole, per allontanarlo e non lasciarsi ferire. Per proteggersi. Perché non è giusto che non ci sia nessuno lì, a suggerirgli la cosa giusta da dire e da fare (mandarlo a cagare, il tipo) proprio mentre ti sta rovinando la vita. Perché il tipo ha seminato dentro un’erbaccia che poi, con mille altri equivoci, continueranno a chiamare: giardino, occchebelgiardino.

Certo che non le direbbe, queste cose. Lo so benissimo. E l’ho scritto apposta.

Certo che non lo riesce a pensare. Che non lo può pensare. Che tutte queste cose non le vede. E non le sa. E non le immagina neppure. Che è ingenuo. E puro. E solo. E spaesatissimo anche se sembra concentratissimo e autonomo.

Non lo è.

Sono troppi giorni e troppe ore che è concentratissimo e autonomo. Ah, come è indipendente, dicono di lui.

No, non è indipendente, è spaventato e abbandonato. Nel silenzio glaciale di una famiglia di… no, la famiglia dopo. Restiamo sulle parole. Il problema è di vocabolario. E quante scuole ci vorranno per rimetterlo a posto? Ci sono le scuole che rimettono a posto i vocabolari? È come se gli avessero insegnato le parole sbagliate per le emozioni. Autonomo e indipendente, dicono. Solo e abbandonato è la realtà. Solo e abbandonato, però almeno aveva un sogno, piccolo, colorato, suo, preciso, una specie di cordata con il mare, un modo per non perdersi, per avere una radice, un tempo a cui aggrapparsi: stava costruendo il suo sentiero, comunque. E invece.

Invece arriva il coglione. Dimmi tu.

Ma hai ragione. C’è un problema. Andiamo con ordine e diciamo come sono andate veramente le cose.

***

È lì sulla riva del mare. Ha trovato una cosa da fare. Si sta impegnando. Ci sta mettendo tempo. Cura. Metodo. Passione. Ha avuto il culo di trovare una regola. Sta cercando le cose più piccole e più luminose. Ha deciso che sono le più belle. Per lui sono le più belle. Ci mette pazienza e cura. Nonostante i brividi e la fame. Ma sta in apnea, anche se la testa (bagnata) è fuori dall’acqua e i suoi occhi pure, cerca con le mani. Poi ci mette gli occhi. Per trovare le cose piccole gli occhi a volte non servono, bastano le mani. Poi gli occhi ce li metti dopo. Che tenerezza. Ha già trovato un metodo. Un modo. Sta diventando grande. A modo suo, ancora non va a scuola, è l’ultima estate prima della scuola e già fa i suoi piccoli ragionamenti, le deduzioni, i piccoli delicati progetti cocciuti.

Prima metto le mani, cerco tastando il fondo del mare (il culo a bagno, attaccato alle caviglie come per scaldarsi anche se è impossibile), poi le tiro fuori e guardo, prima la destra che è la più sfigata e di solito ne trova meno, poi la sinistra, che è la mano fortunata e ne trova di più. Infatti: nella destra ce n’è due. Nella sinistra quattro. Sono piccoli come… mezza delle sue unghie, che sono piccole. Nella destra ce n’è uno verde chiaro e uno verde scuro. Nella sinistra uno colore del miele, uno rosa chiaro, uno trasparente e una d’un blu bellissimo. Cavoli, che pesca meravigliosa.

Il resto dei sassolini li scarta tutti. La maggior parte sono grigi, neri, forse quelli bianchi potrebbe tenerli? Ma no, sono grossi, più di una delle sue unghie, sono grossi e inutili, tutti uguali, mentre lui cerca quei colori lì, quelle trasparenze.

Poi torna sulla sabbia asciutta e li mette tutti e sei insieme agli altri, in quel minuscolo sacchettino trasparente (l’involucro di un pacchetto di sigarette) che ha trovato tra i pezzi di legno e le conchiglie portate dal mare. Lo vuole riempire tutto. Ci metterà tutta la settimana? Va bene. Ha un obiettivo, per lui è un gioco, è il suo gioco. È il suo sentiero, serissimo, piccolo, importante.

E poi lo regalo alla mamma? Forse. Forse però no.

Alza gli occhi e la guarda, la mamma, che è seduta lontana da lui, anche lei sulla riva del mare, anche lei con il culo a bagno nell’acqua fredda della sera, mentre il sole non riesce a tramontare bene nel mare ma solo a ingarbugliare raggi ancora molto luminosi tra le troppe nuvole; e la fronte della mamma, come al solito, è corrucciata e seria seria, come un sole disturbato dalle nubi che non lo lasciano cadere come un’arancia nel mare.

Ma la mamma non lo guarda.

La mamma che di solito, quando lo aspettava (racconta, mentre incide la buccia con il coltello, di solito a Natale o quando è il suo compleanno, il primo di marzo), “mangiava moltissime arance”… Dove sono ora tutte quelle arance? Dov’è tutto quel sole? Perché la mamma non riesce a ripescarlo dal fondo della propria pancia e riportarlo a galla, negli occhi, e illuminare del suo calore il bambino infreddolito nella bianca schiuma del mare? Perché? Forse lo sta chiedendo al tramonto, ma il tramonto non risponde o lei non ne capisce la lingua.

E mentre la mamma si rotola nelle parole che non trova, lontana da lui, è l’altro a raggiungerlo.

Il coglione, dico io.

Ma Luca non lo sa, quanto è coglione il tipo. E, soprattutto, ha anche bisogno di qualcuno che gli dia due dritte, sulla riva di quel mare immenso della vita, per discernere una cosa dall’altra. Ciò che ha valore e ciò che no. Ciò che vale la pena prendere e ciò che è meglio lasciare. Che gli dica: ti ho visto, sì, no, bello. O brutto.

Perché è vero che c’ha il suo piccolo progetto, ma è pur sempre un bambino. E un bambino ha bisogno di sole per il suo progetto. Non quello del cielo. Non solo.

Lì arriva l’altro. A fare il suo fottuto commento del cazzo.

Ma che sia un fottuto commento del cazzo. Inopportuno. Una mappa sbagliata. Un errore totale. Ecco, tutto questo Luca non lo saprà mettere a fuoco. Perché nessuno gli ha dato un’altra mappa. Tutti troppo distanti da lui, in quello e in troppi altri momenti, ognuno perso a contrariarsi per come il sole tramonta o non tramonta o a fare altro, altro che è sicuramente più urgente ma non più importante di questo: fare il commento giusto alla collezione di sassolini trasparenti e colorati di Luca.

E il commento, uno a caso, e sbagliato, arriva.

È l’unico che arriva.

È il commento che Luca aspettava.

L’unico occhio che si posa sul suo gesto.

Era ciò di cui aveva bisogno.

Un occhio che si posasse sul suo gesto.

Sui suoi polpastrelli a righine fredde, cotti dall’acqua salata, cotti e già gelati, che rovistano sul fondo di pietruzze ciottoli conchiglie e sabbia della riva del mare in cerca di tesori.

Su questo si posa, quel commento del cazzo.

Come una notte: che non basterà il giro del sole a cancellarla dal cielo. E dopo, per molti anni, non vedi più niente.

“Ohhh, fammi vedere, che cosa hai raccolto di bello?”

“Sassolini del mare”

“Sassolini del mare?!”

“…”

“E cos’hanno di speciale i sassolini del maaaare?”

“Eh… sono belli, questi, sono i più colorati”

“Ma come colorati? I sassi non sono colorati”

A Luca batte forte il cuore, raddrizza la schiena, sente di avere un tesoro bellissimo, e di poter essere importante e speciale e dice: “Questi sì. Questi sono colorati, e lucenti”; e tiene il sacchetto ancora chiuso nella mano sinistra, quella che porta fortuna, quella che sa cercare le cose.

“E non me li fai vedere, questi sassolini speciaaali?”

“Eh… è che sono ancora pochi… devo raccoglierne ancora”

“Ma come, pochi, è tutta la sera che ti guardo e che sei lì con il culo, voglio dire: seduto nell’acqua” e ridacchia, ma Luca non si accorge che quella risata non promette niente di buono.

“…”

“Dai, apri la manina”

Luca fa quello che non dovrebbe fare (Luca non è pronto a reggere il peso di tutta quella notte che gli sta per arrivare addosso, con quel commento come una serpe cattiva e silenziosa che ti punge e tu sei già morto, muori per la prima volta nella vita e poi deve succedere qualcosa di speciale davvero perché tu rinasca davvero): e piano piano, piano anche perché sono tutte intirizzite dal freddo e anche dall’emozione di mostrare per la prima volta a qualcuno il suo tesoro, apre le dita.

Dentro c’è il sacchettino di plastica che fa un rumore di cucciolo che si sveglia, un frssshhh, e dentro ci sono i piccoli occhietti colorati del mare che Luca ha raccolto nelle ultime ore, e lo riempiono per metà. Un piccolo tesoro. Proprio piccolo. Prezioso e stupendo. Fatica di minuti e minuti a drenare la sabbia del mare e tutti quegli inutili sassi grigi e neri. Che se solo lo vedesse la sua mamma potrebbero chiacchierarci su almeno mezz’ora, decidere in che cofanetto metterli, come, quando, se lasciarli nell’acqua, che così restano lucenti, oppure no. Ma la mamma è lontana, oddio, lontana, è a venti metri, ma sembra a ventimila chilometri, nel continente alla deriva dei pensieri troppi nuvolosi che le oscurano il sole che ha dentro. E lì c’è solo l’altro. Il grassone.

Il ciccione si sporge oltre la propria pancia e porge la mano con le dita gialle di nicotina, i rotoli di grasso che fanno assomigliare la sua mano a una zampa incapace di concavità, tesa e flaccida, arrogante e aggressiva: e fa due occhi come per dire, avanti, rovesciameli nel palmo.

E Luca fa la cazzata.

Rovescia.

Tutto. Tutto il tesoro.

E quei piccoli occhi di colori pastello e trasparenze stanno lì, indifesi e spauriti tra le pieghe del grasso, e vengono investiti dalla risata sputacchiosa del ciccione.

E Luca resta di sasso. Pietrificato. E si fa piccolo nelle spalle ma con due occhi grandi che adesso è il mare a farsi piccolo dietro di lui, e a guardarli tutti e due ti rendi conto che il mare negli occhi di Luca è più profondo e lui ci annega dentro. Lì non sa nuotare.

E il commento della minchia arriva, quando quel coglione smette di ridere. E io non posso fare nulla da qui, per Luca. Per scaldargli il freddo che congela una parte di lui che ci metterà anni a ritrovare.

E il commento del cazzo, accompagnato da un becero scuotimento del capo rasato, è questo:

“Ma questi non sono sassi… sono solo pezzi di vetro. Non valgono proprio niente, non valgono”.

E dicendo così li lascia cadere nell’onda più grossa della sera che in quel momento, con un tempismo da film dell’orrore, se li porta via avida e feroce, e insieme a loro si porta via l’unica cosa sensata a cui Luca si stava aggrappando per crescere con una speranza: collezionare piccole cose belle, luminose, tenui, colorate, delicate. Sue. Piccole e preziose. Come tutto ciò che fa l’infanzia. Che hai il diritto di vivere come cazzo ti pare a te.

Ad avere i tuoi tesori. E ad avere persone che ne gioiscono con te.

A crederci.

E Luca è uno di quei bambini che ha disperatamente bisogno che qualcuno, con lui, ci creda.

Io non so se ci siano bambini che non ne hanno bisogno. Ma Luca è uno che ne ha bisogno. È la cosa di cui ha più bisogno. È la cosa di cui hai bisogno sempre. Ciclicamente. Nella vita. Credere che stai trovando un tesoro. Impegnarti. Avere pazienza. Il tuo. Bello. Scandagliando il mare.

Anche se poi, anni dopo, sorriderai e dirai: “Sono vetri”. È vero, non sono sassolini, ma che importa? Il punto è che a te piacciono, per te sono belli, sono tuoi, sono la tua ricerca. Tanto è così per tutto: dopo che le hai fatte, le cose, gli dai sempre anche un altro nome.

Ma poi cos’è importante? Che siano state vere, autentiche, belle, vive, che non abbiano fatto male a nessuno, che siano state piccoli passi fragili per arrivare ad altro.

Che qualcuno ne sia stato felice con te.

Che quel gesto lì, quella collezione, quella successione di azioni, quel cercare ti abbiano messo luce negli occhi, sensazioni nelle mani, sapore di salsedine in bocca, una stanchezza bella. Colori.

Dopo, quando passi ad altro, quando cresci, quando ti si rivoluzionano le parole nella testa, quando dici questo è amore, l’altro forse era solo vetro, questo è un lavoro, quello precedente era solo vetro, quando dici questo è un racconto scritto bene, l’altro era solo vetro… Certo: tutto vero. Anzi, tutto vetro. Però dopo. Adesso no. Adesso è il lavoro, l’amore, il racconto scritto bene.

Ma in quel momento non sono lì, io, vicino a Luca. Io sono qui solo adesso, e adesso chissà Luca dove si trova. E cosa sta facendo, nella sua vita da grande.

Quella sera, nel suo lettino, dove la mamma gli ha rimboccato le lenzuola con tanta stanchezza e il solito bacio sbrigativo, e un “Ora dormi, Luca, sogni d’oro”, a Luca viene la febbre.

E nella febbre, che sale subito altissima (allora la mamma sì che torna e resta e improvvisamente c’è tutta, è tornata dal suo continente dall’altra parte del mondo, freddo, senza sole), Luca guarda la sua mamma con gli occhi lucidi di febbre e vorrebbe dirle tutto ma non riesce a dire niente e la mamma non li sa leggere, quegli occhi, perché dicono la stessa cosa che lei cerca di leggere dentro di sé, ma è come se anche lei avesse avuto in dono dalla vita lo stesso vocabolario sbagliato in cui le cose e le parole non corrispondono.

E tutto viene chiuso lì dentro, nel calore della febbre, sciolto come un metallo prezioso che non sappiamo lavorare, lasciato scivolare nel nulla delle cose che poi ci si mette una vita a capire che cosa è successo e a ripartire da lì, a tornare in riva al mare, che poi magari non è mare ma è una grande città, e cercare, cercare cercare…

Poi certo che ci si riesce, prima o poi, eccome, fortuna che ci si riesce, perché insieme al dolore hai lasciato scivolare via la purezza, e così l’hai messa forse più al riparo ancora e lei è stata lì, come in un letargo immenso e atavico, da cui piano piano, con scossoni, giochi, drammi, rotture ci si sveglia; ma la memoria dell’inizio di quel letargo, ecco, quella si sveglia solo quando qualcuno, per esempio un tuo amico, un giorno ti manda un messaggio speciale dentro un’estate speciale, e ti accorgi che sei già sveglio da mesi ed è arrivato il momento di ricordarti di quando ti eri addormentato.

E ti viene da piangere. Piangeresti fino alla fine dell’estate, ma è un pianto bello, in fondo, quello di chi è già da un po’ che ha ricominciato a raccogliere i suoi piccoli occhi di vetro lavorati dal mare, per lui la cosa più bella che c’è; e aveva solo bisogno che qualcuno, questa volta non un ciccione bastardo, ma una persona buona, forse stanca, forse in quel momento un po’ smarrita, ma buona e con gli occhi aperti, passasse di lì e scrivesse:

“Io sto studiando tanto, ho paura che l’estate mi scivoli sotto i piedi, come fa il mare quando cerchi i sassolini colorati… che poi son vetri, ma questo i bambini non lo sanno”.

È bene che continuino a non saperlo. Potrebbero anche saperlo, non è questo il punto: il punto è che non solo abbiano il permesso di raccoglierli, ma che si sorrida loro e si dica Che bello!, è proprio bello quello che fai, anzi ti aiuto se vuoi. Allora al bambino resterà solo la paura del mare, che certo a volte ti porta via le cose, a volte è più forte di te, gioca a nasconderti i vetri colorati, i sassolini, ma è generoso, onesto, leale. Non ti giudica, non ti disprezza, non ti annulla. Ti contrasta, ti sfida, ma poi cede, tra le tue dita che rigano il fondo sabbioso, e ti regala tesori.

Sono i ciccioni cattivi quelli da cui devi difenderti. Quelli che possono portarti via i sogni. Quelli che devi imparare a mandare a cagare. A costo di essere maleducato. Ma mandali via, vattene, scappa lontano, non mostrargli il tesoro.

E viviamo felici la nostra infanzia, quella di noi grandi, dico. Ogni cosa nuova che iniziamo è una nuova, piccola, fragile, unica, infanzia. Tutta da proteggere.

Con o senza problemi di vocabolario.

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