Sei più gattamorta o più cagna randagia? Chiedi alle altre, hanno tutte una risposta

Giuli Muscatelli
il buco nel cervello
6 min readDec 6, 2017
June Korea — junekorea.com

Mi chiamo Giulia, ho ventotto anni e se quando entro in un locale almeno la metà degli uomini presenti non si gira, mi innervosisco.
Mi chiamo Giulia, ho ventotto anni e ho passato gli ultimi cinque, tra le altre cose, a cercare quel look che ogni mattina (che poi ogni mattina non è mai) mi facesse uscire di casa pensando di essere una gran figa.
Mi chiamo Giulia, ho ventotto anni ed era una vita che avevo voglia di scrivere queste righe.

Le scuole medie sono state uno schifo. Il primo giorno pesavo 82 kg, l’ultimo 89. Consumavo il mio panino cotto e maio nascosta in bagno perché altrimenti le altre ragazze, vedendomi mangiare, mi chiamavano balena. In quei tre anni: mai sfiorato un culo, mai toccato ma manco per sbaglio un pisello, mai dato un bacio (se facciamo che non valgono i limoni al poster di Robbie Williams).
Mia madre era disperata: c’erano giorni in cui mi facevo male apposta pur di non andare a scuola. La mattina, spesso, mi chiudevo in camera e piangevo guardandomi allo specchio. Mia mamma mi comprava gli abiti di marca, perché più di ogni altra cosa desideravo assomigliare alle altre della mia età; ma doveva comprarmeli da maschio, perché quelli da femmina, a me che c’avevo la 50, non entravano.

Poi è arrivato il liceo. Conosco questa tipa davvero figa (che a oggi continua a essere la mia migliore amica) e in qualche modo, che sto ancora cercando di definire, lei diventa la molla per cambiare. In due anni perdo 25 kg. In terza inizio a girare per locali e mi faccio tutti gli ex fidanzati di quelle che alle medie mi prendevano in giro. Scopro che mi piacciono i maschi, ma davvero parecchio. Scopro che piaccio anche io ai maschi, ma davvero parecchio. Passo tutti i sabato sera, per almeno un anno buono, nei locali di Reggaeton, che un po’ me ne vergogno ma un po’: ehi, erano i Murazzi, baby! Poi i miei gusti cambiano, e comincio a frequentare il The Beach. I Subsonica, Samuel con il cappellino, Boosta con gli occhi tenebrosi, e tutte quelle cose che qualsiasi ragazza torinese che in quel periodo ha avuto tra i 16 e i 19 anni conosce bene. In entrambi i posti scopro che strusciare il culo sulle cerniere dei jeans dei ragazzi è davvero piacevole.
In quinta faccio una tesina su Carlo Lucarelli e decido che il mio uomo ideale è uno super colto, super misterioso, anche se non tanto bello (ma segretamente continuo a sbavare per Johnny Depp, e comunque oggi su Instagram metto cuori come non ci fosse un domani a gente tipo Ricki Hall).

Inizio l’università e ho la mia prima storia seria. Andiamo a convivere. Lui è meraviglioso: premuroso, attento, mi adora. Certo, è un po’ geloso. Dice che in particolare non gli piace quel mio modo di sbattere le ciglia quando mi trovo davanti a un uomo. Dice che a volte il mio abbigliamento è eccessivo. Mi convinco che forse ha ragione. Continuo a stare attenta al mio peso — perché quella parola, balena, non ha mai smesso di risuonare nella mia testa — ma meno al mio abbigliamento e alla mia cura in generale. Lo lascio una sera che lui mi urla che non ho ancora preparato la cena, che non faccio un cazzo oltre che studiare mentre lui lavora sodo.
Da lì in poi conosco molti uomini. Sono stata fortunata: tutti mi hanno rispettato, nessuno è mai stato violento. Chiamo stronzi solo quelli che mi mollano, perché dai, sono tutti stronzi quelli che non ci vogliono!

E arriviamo a oggi. Ci sono mesi in cui non riesco a pagare l’affitto per via di un golfino che proprio dovevo avere ma che costa quanto un posto in prima fila al concerto di Lady Gaga. Mi piace il mio viso e mi faccio moltissimi selfie. Ho centoquattordici paia di scarpe. Abbastanza cellulite per partecipare, almeno per cinque minuti, a una puntata di quei programmi di Real Time sulla chirurgia estetica. Le tette troppo piccole in proporzione al mio corpo. Un culo tondo. La vita stretta. Piaccio agli uomini. Ci provano in molti. Ne amo solo uno. E adoro flirtare, sbattere le ciglia, proprio come qualche anno fa quel ragazzo mi diceva che non dovevo fare. L’uomo con cui sto mi ama anche per questo, perché questa sono io, questo — quel piacere nel capire che sei attraente, quell’adrenalina — anche questa sono io.
Di lui mi piace, tra le altre cose, il modo che ha di prendersi cura di me. Mi è sempre piaciuto che gli uomini si sapessero prendere cura di me. E no, Battiato non c’entra niente. E non mi sento inferiore rispetto a loro per questo motivo, e so che loro non mi giudicano tale: il rispetto non passa da questo.
Tutte noi abbiamo una personale maniera di vivere la nostra sessualità — sessualità che si esprime dentro e fuori dal letto: Marco Ferradini hai toppato — e tutte noi abbiamo una personale maniera di atteggiarci in presenza di un uomo. Alcune trovano eccitante comportarsi come bambine indifese, altre preferiscono far prevalere un carattere forte, alcune mostrano direttamente le tette, altre ancora non sanno proprio come fare e semplicemente gestiscono o non gestiscono la situazione a seconda del contesto.

Ecco una lista di frasi che in questi anni mi sono sentita rivolgere:
Quei tacchi non sono troppo alti? Ma quanto ci metti tu la mattina a vestirti? Hai il trucco sempre perfetto! Non dovresti farti quelle foto se nella vita vuoi scrivere. Esageri con la tua ironia. Ma chi ti credi di essere? Ma tu dai corda proprio a chiunque, vero?
Sono state tutte pronunciate da donne. Da quelle che ogni mattina mi salutavano con il sorriso.
Di tutte loro penso che non siano tanto diverse da chi, quando avevo tredici anni, mi chiamava balena.

Eccolo, il problema. Il problema è questo pezzo. Il problema è che prima di dire che sono soddisfatta del mio aspetto e che mi piacciono gli uomini e che io piaccio a loro ho dovuto spiegare il perché.
Se non sei un cesso, se la tua faccia dice che ami flirtare (notizia straordinaria, la faccia lo dice!), se sei vanitosa, sovente vieni percepita come pericolo per le altre. E prima non c’è un dialogo, sono pochissime quelle che vengono da te prima e ti chiedono, come stai? Chi sei? Danno per scontato di sapere già tutto. La discriminazione arriva anche da noi. E arriva ogni volta che c’è mancanza d’interesse e curiosità verso l’altro. Da quell’abitudine che abbiamo di chiamare stronza una gran figa non appena entra nella stanza, ancora prima non dico di parlarle, ma anche solo di stringerle la mano.
E allora mi domando: ma non stavamo lottando per essere libere (da tutti, maschi e femmine, libere e basta)? Ma non stavamo dicendo che vogliamo raccontarci per quello che siamo?
La risposta penso sia sì. Ma credo anche che questo diritto, nella maggior parte dei casi, valga solo se la narrazione è posta al negativo. Solo se rivendichiamo, che so, il diritto di mostrarci con i peli, invece che quello di mostrare che corpo magnifico abbiamo.
Possiamo essere simpatiche, intelligenti, possiamo pure essere sfacciate, ma se un’altra donna (non tutte, ovvio) intuisce che ci sentiamo belle e che ci divertiamo a giocare con il potere che sappiamo di avere sugli uomini, ecco che veniamo giudicate.
La discriminazione delle donne verso le donne non si basa quasi mai su una questione riguardante esclusivamente l’aspetto fisico, quanto piuttosto su qualcosa che ha a che fare con l’atteggiamento. Se in una stanza ci sono prevalentemente donne, quella più estroversa, quella più appariscente, statene certi verrà definita dalle altre con un aggettivo sgradevole.
La mia opinione è che non esistono gattemorte così come non esistono troie, frigide, fighe di legno. Esistono ragazzine ciccione ed esistono donne che si guardano allo specchio e sorridono. A volte queste due convivono.

Vorrei chiudere questo pezzo raccontando che sono altro oltre a tutto questo, che lavoro sodo, che ho affrontato una marea di difficoltà, come tutti (maledizione, non sono una ragazzina speciale!).
Soprattutto vorrei chiuderlo specificando che non penso di essere una bona stratosferica, ma se lo facessi — se vi raccontassi di quanto dolore c’è stato in questo percorso tortuoso e complicato, di quanto ce ne sia ancora oggi — cadrei nella vostra trappola. E piuttosto che cadere nella vostra trappola, mi faccio un selfie e lo riguardo, e penso che sono davvero bellissima: è più utile per me e per tutti quelli che mi mettono like.

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