Un pezzo sul femminismo — di flora ciccarelli

domitilla.pirro
il buco nel cervello
6 min readOct 18, 2016

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C’è questa mia amica, la chiameremo Michela, che non riesce a scrivere un pezzo sul femminismo.
Perché Michela del femminismo conosce solo la teoria. E manco in maniera troppo approfondita: voi non la conoscete, Michela, ma lei è una donna pratica, poco studio e buttarsi di testa nelle cose, tipo il contrario di quello che faccio io.
Io, dal canto mio, non perdo occasione per farle notare le sue lacune in materia.
Cioè, d’accordo che siamo nel 2016 e che Beyoncé e che il femminismo distrugge l’auctoritas e che comunque non si dice IL femminismo ma I femminismi. Il che vuol dire liber* tutt* con gli asterischi e ognuna fa il cazzo che le pare basta che siano cazzi autodeterminati.

Però. Però.

A tutto c’è un limite: un pochino bisogna studiare, un pochino bisogna riflettere, se si vuole scrivere un pezzo sul femminismo. Che fai, mi parli della Casa delle Donne e mi sbagli i riferimenti storici e filosofici? Guarda che poi si vede che non hai letto Carla Lonzi e Luce Irigaray.

Guarda che io te lo faccio pesare.

E poi, soprattutto: cosa vuoi scrivere tu di femminismo se ti fai aiutare da Coso per fare qualsiasi cosa tecnologicamente più difficile di un caffè con la moka?

Glielo dico, che stronza che sono.
Glielo dico, glielo ridico, m’incazzo.

Lei si offende, si piazza sulla difensiva, s’incazza pure lei.

Però poi mi chiede subito scusa perché non vuole litigare e si appunta le mie frasi da saccente sul file word su cui sta tentando di scrivere il suo pezzo.
A me questa cosa fa salire ancora più madonne, così continuo a caricarla di insulti e giudizi e insopportabili considerazioni alla “tu non sei femminista”.

Roba che mi sputerei in faccia da sola, roba che un po’ la penso e un po’ è provocazione e segreta speranza che lei smetta di chiedermi scusa e di dirmi grazie e di sentirsi in difetto. La segreta speranza che Michela si decida a prendermi a pugni, un giorno: quello si che sarebbe un grande saggio di femminismo applicato. Ma come mi permetto, no?

Eppure mi permetto, mi permetto alla grande: perché nel gioco di ruolo a cui giochiamo io e Michela, il patriarcato sono io. E lei non mi ha ancora sconfitta perché pensa, in fondo, che io sia nella ragione e lei nel torto.

Dall’altro lato, da brava patriarca, io adoro sentire che ho il controllo della situazione. Adoro sentirmi dare ragione, godo fisicamente nel sapere che lei sta male se io la tratto male. Ma dall’altro vorrei che un giorno si svegliasse e mi dicesse “sai che c’è, bella? vaffanculo te e il femminismo, che stai sotto a Cosa da due anni e la spii su Facebook e le scrivi poesie di merda, altro che donna indipendente”.

E avrebbe ragione: donna indipendente non lo sono stata mai.

Provarci, però, c’ho sempre provato.
Come quando mi sono rovinata l’Erasmus e l’unica relazione seria della mia vita leggendo Elena Ferrante e realizzando che no, non potevo stare con l’Ingegnere perché avrei finito col seguirlo nei suoi viaggi di lavoro e sarei sempre stata l’elemento non autosufficiente della coppia perché di certo non avrei trovato lavoro come scrittrice e quindi almeno stai a casa, pulisci cucina bada ai bambini, no?

No.
E allora mi sono straziata e l’ho straziato finché non è rimasto quasi più niente, di quella relazione. Un deserto emotivo che io, però, mi sono affrettata a colmare nel modo più femminista (o almeno questo era quello che credevo) che mi è venuto in mente.
Le donne.
Mi sembrava naturale, la mia attrazione per le donne. Mi sembrava, addirittura, la naturale prosecuzione di un percorso, una presa di coscienza: se vuoi essere libera dal patriarcato, basta uomini.
Solo che non va proprio così, direbbe Max Pezzali in Nessun rimpianto. Perché qualche rimpianto in effetti io ce l’ho. E no, non si tratta del fantomatico “bisogno di cazzo”, perché io del cazzo ne ho effettivamente pochissimo bisogno (orgasmo vaginale, questo sconosciuto).
Il rimpianto, quello vero, è che tutte le relazioni (nel senso più ampio del termine) che ho avuto con delle donne si sono basate sull’ossessività, sulla morbosità, sulla mancanza, sul bisogno, sulla paura della solitudine.

Proprio come con gli uomini, insomma.

Così dopo due anni di tentata emancipazione dal maschio patriarca mi sono trovata a fare i conti con la femmina patriarca, e il dolore mi ha investita in pieno perché mi ero fatta trovare con tutte le difese abbassate. Tanto sono donne no? Sorelle, sista, non possono farmi del male.

Mi sono scoperta vulnerabile, mio malgrado, molto più “femmina” di quanto mi aspettassi da me stessa, molto più aderente, per la precisione, a quello stereotipo di femmina sedotta e abbandonata. Sedotta e abbandonata da una Cosa, tra l’altro: chiamatela “voglia di cazzo”, se avete il coraggio.

Questa serie di sfortunati eventi, però, mi ha regalato una nuova prospettiva sulle relazioni sentimentali che non funzionano, quelle in cui c’è, solitamente, il Signor Coso che abbandona e la Michela che soffre.

Il problema, il vero problema di queste relazioni, potrebbe non essere il Signor Coso in sé.

Il problema potrebbe addirittura non essere la categoria “maschio” in generale, come le riviste femminili col campione di profumo allegato vorrebbero farci credere.

Perché se fossero stati gli uomini, il problema, io sarei stata una lesbica felice.

Invece non lo sono, perché ho lasciato il controllo dei miei sentimenti a quella che, in sostanza, era una sconosciuta.

È il controllo, il problema. Quello che a livello sociale quasi tutti gli uomini sanno di poter esercitare su quasi tutte le donne. Quello stesso controllo che Cosa esercita su di me e che io, ogni tanto, mi diverto a esercitare su Michela.

Ma la verità è che non è possibile esercitare il controllo su una persona che non è disposta a cedertelo, ecco perché alle donne succede di più che agli uomini di soffrire per amore. Perché noi donne non chiediamo altro. Perché ce l’hanno insegnato da bambine, ad aspettare il principe azzurro o la fata turchina. Ci hanno convinte, e noi siamo fermamente convinte, di non essere autosufficienti. Incomplete, l’altra metà del cielo, l’anima gemella.

Il problema, credo io, sta tutto in questa convinzione, sta nel rifiutarci di essere le uniche responsabili della nostra felicità, sta nell’idea che ci sia “qualcuno” per noi, nel mondo. E sta nell’isteria rabdomantica con cui quel qualcuno noi lo cerchiamo e pretendiamo di trovarlo in persone a caso.

Sta nell’incontrollabile istinto di essere controllate, di impazzire per amore, soffrire, gioire, dipendere fisicamente da un’altra persona. Una persona qualsiasi, s’intende, purché sia disposta a lasciarsi sbranare viva, purché ci lasci aggrappare a lei. E allora via di trasferimenti, rinunce, gelosia, possessività, voglio solo te, facciamo una famiglia, siamo una famiglia, se non mi ami io mi ammazzo, ho bisogno di te, solo di te, ho bisogno che mi ami, ho bisogno, sopra ogni cosa, di scaricare la responsabilità del mio dolore di essere umano su un altro essere umano perché così mi viene più facile stare al mondo.

Mi hanno insegnato che sono incompleta senza di Te. Un Te generico, in groppa ad un cavallo bianco, col compito di salvarmi.

E io c’ho creduto.

C’ha creduto anche Michela.

La sottile differenza è che a Michela, di essere una brava femminista, in fondo non interessa. Lei vuole essere felice. Lei non l’avrebbe lasciato, l’Ingegnere, solo perché doveva sfidare se stessa ad essere più autodeterminata possibile.

Ed è questo che mi fa incazzare, vorrei dirle: “Miche’, ma non lo vedi che ti fai trattare così pure da me che il cazzo non ce l’ho, ma non lo vedi che quando mi perdoni, che quando mi permetti di dirti queste cose, lo fai per una sovrastruttura patriarcale, che ti hanno imposto fin da bambina e così tu pensi di essere veramente tu quando sei materna, accogliente, accomodante, e invece tac, ti hanno fregata, te l’hanno insegnato loro a essere così assertiva. E che il punto non è Carla Lonzi, il punto è che tu devi imparare ad amarti, a stare da sola, a farti rispett… oddio.”

“Che è successo?”

“Oddio non ci credo.”

“Che?”

“…”

“Flo stai bene?”

“Cosa. Cosa m’ha mandato un messaggio.”

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