AMARCORD DI UNA CITTÀ CHE SI FA MUSA

IL COLOPHON
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9 min readAug 3, 2018

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Intervista allo scrittore Marco Missiroli. Di Sanzia Milesi

Luogo della memoria per antonomasia, la città in cui nasciamo e muoviamo i primi passi custodisce tra i più salienti racconti della nostra letteratura privata. Ricordi che si trasformano in schegge di letteratura aperte a un pubblico più vasto, molto più vasto, nell’estro (e nel metodo) di chi delle esperienze di vita sa farsi sapiente autore e narratore.

Così è per Marco Missiroli, scrittore riminese classe 1981, autore di romanzi come Senza Coda, che nel 2006 è stato Premio Campiello Opera Prima (2005, Fanucci); Il buio addosso (2007, Guanda); Bianco (2009, Guanda); Il senso dell’elefante (2012, Guanda) e Atti osceni in luogo privato (2015, Feltrinelli).
“Noi di Rimini cresciamo con un numero. Quello del bagnino dove i genitori ti portano d’estate che sei ancora nella culla, a me è toccato il cinque. Veramente era il quattro, una ruspa un giorno l’ha buttato giù con i suoi ombrelloni e ci ha fatto un Ventaclub e allora sono passato al cinque.” (Paesi e Città, raccolta a cura di Luigi Grazioli per Doppiozero, 2012)

Il tuo m’arcord. Qual è la Rimini della tua infanzia? I ricordi che mantieni più vividi, che affiorano con maggior facilità dalla tua memoria di bambino e di ragazzo cresciuto lì…

«Lego profondamente Rimini alla mia infanzia. Probabilmente Rimini è la mia infanzia, anche come codici che mi ha lasciato. Comunque sia il legame con Rimini di quando ero bambino, quando ero più ragazzino, è soprattutto con i miei nonni. Quindi, il quartiere dove sono cresciuto, che è l’INA Casa. In via Magellano c’era un cinema una volta, il Cinema Apollo. Quello è un primo simbolo della mia infanzia. E poi la piazzetta di Largo Bordoni, poco più avanti, con l’asilo “Il Glicine” e tutta questa zona un po’ periferica con le case popolari, ma anche con della gente che aveva fatto quartiere, che aveva fatto villaggio, in una Rimini che d’estate veniva un po’ depredata dal turismo e noi eravamo invece sempre i soliti, lì, fuori, “alla veglia” come si diceva, dalle case, la sera, intorno alle sette, sette e mezza, fino alle dieci e mezza, undici, a mangiare il cocomero, l’anguria, e a fare le chiacchiere. Quella è una prima immagine della mia infanzia che si associa anche alla biciclettata, alle biciclette con mia madre, mio padre e i miei nonni, verso il bagnino numero quattro. Era il quattro, il mio bagnino, poi l’hanno buttato giù per fare il Turquoise. Noi avevamo l’ombrellone in prima fila e tutti i giorni, il pomeriggio, e a volte anche la mattina con mia madre che è insegnante e quindi non aveva scuola, andavamo là e facevamo questo percorso. Prima sul seggiolino — me lo ricordo — poi sulla canna della bicicletta e infine con la mia bicicletta dietro a mia madre, e poi da solo. Ecco, il tragitto INA Casa e bagnino numero quattro è stato un po’ il mio percorso di formazione, su due ruote, anche esistenziale. E ovviamente lo stabilimento quattro è un “non luogo” per me che è diventato un po’ la mia infanzia».

“Adesso la mia città è meno romagnola”, scrivevi. Qual è la Rimini a cui ora torni da adulto? Cosa ti piace ritrovare e cosa invece senti di non trovare più…

«La mia Rimini è meno romagnola perché probabilmente il tempo è meno poetico, meno silenzioso, con la tecnologia, con tutto quello che è successo a livello di social network, con il turismo che è calato e anche cambiato. Una volta c’era un turismo regolare, iniziava da fine maggio e finiva a fine settembre. C’era veramente il pullulare di gente a Rimini, stranieri e non. Adesso un po’ meno e mi sembra un po’ che si sia persa quella sorta di “poesia romagnola” che c’era una volta, di ritmi lenti. Se vogliamo, anche di una grammatica più semplice. E si sono persi anche un po’ gli archetipi romagnoli e riminesi, quelli un po’ stereotipati, del dialetto, dei nonni fuori dalle case, della saraghina con la piada, tutte queste questioni qua sono un po’ state surclassate, come se la nuova generazione avesse respirato già una sorta di internazionalizzazione, di modernità, e non abbia trattenuto un po’ quello che è l’alfabeto riminese e romagnolo. Ecco, sento un po’ che Rimini è più moderna e questo ovviamente è un bene da una parte ed è un male, perché toglie quella “lentezza romagnola”, nel senso buono, a cui eravamo abituati nell’infanzia».

Portaci con te. Da mattina a sera, dove accompagneresti una persona “importante” (cara al tuo cuore) per scoprire la “tua” personalissima Rimini? Non solo quindi eventuali luoghi istituzionali, ma proprio anche scorci, negozietti, trattorie, persone e personaggi…

«Se dovessi accompagnare qualcuno nella mia Rimini, comincerei con l’INA Casa, che è il mio quartiere, e poi andrei assolutamente nel centro storico, passando dal Parco Marecchia, che è una risorsa fondamentale, risalendo dal Ponte di Tiberio. Berrei qualcosa da Vecchi, così gli faccio vedere direttamente anche il Borgo San Giuliano con le casette. Poi passerei il Ponte di Tiberio e farei un giro fino all’Arco d’Augusto, per quelle che sono le strade un po’ del centro storico che sono meravigliose. E poi scenderei giù al mare, ma per scendere giù al mare passerei dal Parco Cervi, andrei in Via Tripoli e poi da via Tripoli risalirei fino al Grand Hotel. Questa è un’altra tappa obbligata. E mi sono dimenticato di dire che gli farei vedere il Cinema Fulgor, soprattutto, nel centro storico. Una volta arrivati al Grand Hotel ovviamente farei un giro dentro, perché sembra quasi che non si possa mai varcare quell’hotel, e invece lo si può fare e stare un po’ lì nel giardino. Lì mi sono sposato, per cui ho dei ricordi molto belli. Infine, risalirei fino al bagnino numero cinque, che è un po’ al limitare del quattro. Farei la passeggiata e andrei fino alla lingua finale di porto, ad arrivare al faro giallo e al faro rosso, fino al Rock Island, che adesso è gestito da un mio amico, con cui sono cresciuto, e prenderei qualcosa da bere lì. E se mi rimane del tempo andrei nella Barafonda, quindi nella parte di San Giuliano e risalirei assolutamente fino alla Darsena. Poi, l’ultima parte, che è un po’ una parte a cui sono molto legato è Rivabella di Rimini, perché lì ho lavorato undici anni in edicola. Anche questa è una parte della mia infanzia che mi sono dimenticato di dire prima. È l’edicola di fronte agli acquascivoli e mi fermerei lì. In questa maniera abbiamo fatto un po’ uno scorcio. Altrimenti, se dovessimo continuare, prenderei la macchina e andrei ovviamente nella Valmarecchia, Santarcangelo e anche tanto altro, fino ad arrivare a Pennabilli».

Spettatore di almeno trenta fidanzamenti a stagione, intento a guardare le mattonelle al bar dello stabilimento balneare, lì sono nate le tue prime storie. Al sole di un lettino, lì è venuto di getto, in anni più recenti, Atti osceni in luogo pubblico, il tuo libro più spontaneo e meno razionale, come l’hai definito. Qual è la Rimini “nascosta” dei tuoi romanzi. Al di là della Rimini di Pietro ne’ Il senso dell’elefante, quella che ha dato spunto a eventi e personaggi, al racconto di sensazioni ed episodi, magari poi narrati come accaduti altrove. Le invisibili ispirazioni legale a Lei…

«Sì, di solito ho grandissime ispirazioni, epifanie, andando a Rimini il sabato e la domenica, sul lettino dello stabilimento balneare. Siccome lo faccio poco, mi metto nel lettino al mare, mi rilasso e viene sempre qualcosa. È vero, lì è nato Il senso dell’elefante e soprattutto lì è nato Atti osceni in luogo pubblico, un sabato improvviso e c’è qualcosa di molto particolare. Le storie di cui vorrei raccontare sono quelle legate anche al bagnino del Bar Laura, che è al confine tra il cinque e il quattro, perché lì ci vedevamo con la mia compagnia di amici, da quando avevamo dodici anni fino a quando ne abbiamo avuti ventitré-ventiquattro, spostandoci il sabato e il venerdì sera al Velvet di Sant’Aquilina. Quelli lì sono stati due poli fondamentali. Per cui lì ci sono delle storie importanti secondo me, che dovrò recuperare quando sarò pronto. Non adesso, perché mi sembrano ancora un po’ vicine. Però, giocare a briscola nel bar, aspettare, poi andare a giocare a pallavolo, andare a fare un bagno al mare, passare tutta la giornata dal levare del sole al calare del sole in quel bar e poco lontano, ai campi sulla sabbia. Ecco, quella è una grammatica di giornata che andrebbe raccontata».

La ricerca sulla lingua e sui personaggi del tuo nuovo lavoro, Fedeltà che pubblicherai l’anno venturo con Einaudi. Ci sarà un po’ di Rimini lì? Almeno un suo “colore”… Puoi anticiparci qualcosa…

«Sì, in Fedeltà ci sarà Rimini. Uno dei personaggi è riminese ed è ambientato all’INA Casa e alla ferramenta di via Largo Bordoni. Questa è proprio una delle piccole anticipazioni che posso fare. Quindi ci sarà una Rimini dell’INA Casa e anche una Rimini del mare».

In un’intervista accennasti, “L’identità riminese in fondo è un ossimoro: siamo scanzonati, ma anche malinconici. Ed è questo contrasto a fare di noi riminesi delle anime piene, autentiche, spontanee”. Come sarebbe la tua caratterizzazione per un riminese DOC, quali tratti avrebbe? Se puoi regalarci un personaggio…

«Il grande guaio è accostare Rimini solamente a essere scanzonati, ai vitelloni, a quegli stereotipi che un po’ l’hanno resa simpatica a tutti, ma mai senza fargli vedere davvero qual è la dimensione profonda del riminese che gioca tantissimi contrasti, dalla malinconia e all’allegria, improvvisamente alle ombre. E le ombre a Rimini hanno sempre creato poesie. Fellini, ma anche tanti altri, Tonino Guerra, Marco Pesaresi il grande fotografo… Chi riminese ha delle ombre, ha ombre di letteratura in qualche modo, di poesia, ha un codice letterario artistico molto profondo. Ed è per questo che è importante il centro storico e la Valmarecchia, perché ribilanciano la parte del mare, che d’estate è molto allegra, d’inverno invece è molto nostalgica. E l’entroterra e il centro storico aiutano molto a far capire anche le anime “oblique” riminesi e romagnole, che sono davvero profonde in qualche modo. Perché siamo gente semplice che è riuscita in qualche maniera ad ancorarsi anche a realtà molto molto poco semplici, come il turismo, come la guerra, come la ribellione, la Liberazione… C’è stato a Rimini un susseguirsi di sentimenti che il riminese ha assorbito. Quindi è veramente un delitto dire che è semplicemente gente allegra e scanzonata».

Un metodico felliniano. “Inizio sempre a scrivere in gennaio”, “mai più di una pagina al giorno”… Confessi un approccio sistematico allo scrivere, per una scrittura che è stata appunto definita anche “felliniana” nella sua capacità immaginifica. Ci parli meglio del tuo metodo (che ci incuriosisce) e provi ad autodefinire il tuo stile, insieme ai tuoi riferimenti letterari (e non solo)…

«Il metodo è fondamentale e viene anche da quella parte riminese, io credo, un po’ lavoratrice, operaia, un po’ che viene dai contadini, viene anche dal proletariato romagnolo dove sono cresciuto e che son le mie radici. Aspetto sempre di avere un’idea molto forte, che resista i mesi, tempi abbastanza lunghi. Una volta che resiste questi mesi, mi metto a scriverla, una pagina al giorno, tutti i giorni, con una pagina di Word, tagliata 14 x 21 centimetri, in lettering Garamond 13. La regola è farne una al giorno, quotidianamente, costi quel costi. Quindi significa che, se anche hai un blocco creativo, tu lo cerchi di superare scrivendo. E questo mi aiuta molto perché ti dà una regolarità e ti fa sfrigolare il libro nella testa. Quindi non lo abbandoni mai. Di questo sono molto orgoglioso, perché mi rende molto forte, sia il discorso della scrittura quotidiana, sia il discorso della scrittura all’interno anche delle difficoltà quotidiane. La resistenza alle fatiche è un po’ tratto romagnolo, io credo, questo mi piace».

Cinque libri. Da leggere quest’estate sotto l’ombrellone… al Bagno cinque…

«Cinque libri da leggere al bagnino numero cinque… L’estate del ’78 di Roberto Alajmo (Sellerio). Poi, visto anche che è morto da poco, consiglio Pastorale americana di Philip Roth (Einaudi), che è tra i miei preferiti assolutamente. Doveroso perché è straordinario questo libro e lo si legge ancora in pochi, Camere separate di Pier Vittorio Tondelli (Bompiani), scrittore che ha dato moltissimo a Rimini, è stato molto profondo. Poi consiglio Orrore di Pietro Grossi (Feltrinelli), che sta per uscire ed è un libro di uno dei miei scrittori contemporanei preferiti. E infine, L’educazione, che è un bellissimo libro, di Tara Westover (Feltrinelli)».

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE