ANDARE, CAMMINARE, LAVORARE

IL COLOPHON
IL COLOPHON
3 min readOct 5, 2016

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Editoriale di Michele Marziani

Come nasce un numero de Il Colophon? A volte come un incubo, un’ossessione, una ballata ascoltata una volta di troppo. Così, ospite da amici a Milano, ho ritrovato la bella canzone di Piero Ciampi che dà il titolo all’album Andare camminare lavorare e altri discorsi. L’ho ascoltata e riascoltata, come un mantra, una piccola mania, un ripetersi in un abisso, una voce che arrivava da lontano. Dentro a questa voce che raccontava di un altro tempo ho affastellato un magma di pensieri che attraversavano l’Italia, ammiccavano all’italianità, raccontavano del Sud, del Meridione, di vino, di debiti, di disperazione, di pompieri, di conventi, di anime, di banche, di casseforti, di automobili e autostrade, di lavoro e di provincia… Ho ripensato all’anno della canzone, il 1975. Alle foto di Pierpaolo Pasolini appena ucciso. Mi sono rammentato dei ragazzi della mia scuola, dei miei compagni di classe alle medie, che per prendersi in giro avevano sostituito l’epiteto Pasolini all’ormai troppo usato finocchio. Questa era l’Italia dell’altro ieri.
Ho ricordato lo sguardo altero e sorridente del poeta Valentino Zeichen che dentro a questa storia, a questo numero de Il Colophon, sarebbe stato perfetto ma che se ne è andato all’altro mondo, dove gli auguro di saziare quella fame infinita di tutto che lo accompagnava. I mondi della scrittura sono vasti e multiformi, variegati forse più di un continente: ogni scrittore che se ne va è la bandierina a mezz’asta in una delle Fortezze Bastiani che presidiamo il nulla letterario. Se ne vanno i poeti come Zeichen, i grandissimi del Novecento come Michel Butor, i “cannibali” mai pentiti come Tommaso Labranca. Passano attraverso l’età, la storia, lasciano un segno, dentro ai lettori, una virgola. Valentino Zeichen l’ho conosciuto a cena: di lui ricorderò il lampo dell’occhio nel piatto. Con Butor sono sceso dall’alta Savoia all’Italia e ho imparato che ogni scrittore parla bene una solo lingua: quella con la quale scrive. Non quella con la quale è nato. La lingua della narrazione è quella vera, la via maestra: «I speak very well only French» rispondeva a chi gli domandava «Do you speak English?». Non c’era grandeur in quest’uomo immenso che nascondeva la sua immensità in vestiti comodi sempre identici. Salopette con grandi tasche per i taccuini e le pelle: di jeans per tutti i giorni, nere di stoffa buona da indossare con la camicia bianca nelle grandi occasioni. Non era l’abito a fare la stoffa dello scrittore, ma il suo sterminato lavoro. A Lucinges, nella sua casa, aveva una stanza con tutti i libri da lui scritti, commentati, chiosati, impreziositi magari di un’indimenticabile didascalia alla riproduzione di un quadro o a una fotografia: «No, le traduzioni no, quelle sono opera dei traduttori».
Infine Tommaso Labranca, con cui ho spartito per breve tempo la partecipazione ad un blog. Labranca era scrittore che sapeva smascherare i furfanti delle idee, gli ideologi riciclati, orgoglioso delle periferie, dei margini, anche di quelli della parola. C’erano tutti e tre — Zeichen, Butor e Labranca — con età diversa ai tempi della canzone di Ciampi. Questo significa appartenere a un secolo. O semplicemente a un tempo. Questo ho pensato mentre li ricordavo. Così ho chiesto ad ognuno degli autori de Il Colophon di fare la stessa cosa: ascoltare la canzone e poi andare, camminare, lavorare. Di attraversare quel 1975 al centro di un passaggio che l’Italia ha in gran parte compiuto e in gran parte no. E del quale oggi è difficile capire cosa sia stato un bene e cosa un male. Letterariamente, probabilmente, nemmeno importa.
Di questo andare, lavorare, camminare è tornato Bobo Rondelli che oggi canta le canzoni di Piero Ciampi, è tornato un prete, una città, Fantozzi, Eugenio Montale nell’anno del Nobel, Francesco Biamonti, la vita quotidiana dei postini, il silenzio dei monasteri, alcuni libri da leggere, altre canzoni, altri musicisti e qualcuno che dice no, lavorare non è così bello. A volte neppure andare. Nemmeno camminare. Eppur bisogna. Lo si cantava durante la Resistenza, scarpe rotte e tutto il resto. Il premio doveva essere la primavera. Adesso è autunno. Crediamo di aver fatto un bel numero. Da leggere. Quindi buona lettura.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE