ANTONIO TABUCCHI: UN ITALIANO D’ALTROMARE

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di Giacomo Revelli

Se dobbiamo parlare d’Italiani d’oltremare, forse potremmo anche parlare, con un semplice cambio di vocale, anche di “Italiani d’altromare”. Chiedo il permesso.
Con ciò non vorrei invadere il ramo di un’altra famosa pubblicazione di enigmistica (che, si sa, già vanta numerosi tentativi d’imitazione), ma semplicemente introdurre l’argomento che vorrei trattare nel mio articolo.
Lo scrittore italiano d’altromare di cui vorrei parlare, è Antonio Tabucchi, scomparso a Lisbona il 25 marzo 2012, di cui ricorre il terzo anniversario della morte.
L’argomento scrittori italiani fuori d’Italia (d’oltremare o d’altromare che siano) è molteplice e sfaccettato e rientra nel tema, più esteso, forse infinito, dell’influenza dall’ambiente esterno su chi scrive un’opera letteraria.
Di certo, uno scrittore non può fare a meno di ciò che ha registrato durante l’infanzia e nel proprio percorso di vita, forse nemmeno dei fatti accaduti l’altro ieri. Si sa, esistono scrittori che non s’allontanano mai dai luoghi natii e altri che hanno dato il meglio di sé lontano dai luoghi di nascita; ma, sicuro, anche chi ha cercato in territori esotici l’ispirazione per riempire la propria pagina, ha portato con sé qualcosa dei posti in cui ha vissuto. Possiamo indicare questo con un termine: “eredità biografica”.
Le peregrinazioni letterarie, i circuiti, i percorsi degli scrittori si attivano per processi storici e culturali che possono essere più o meno noti (guerre, correnti, rivoluzioni, confini, esilii…), oppure seguono direzioni tutte personali e private (fedi, religioni, amori, politiche o semplici tornaconti). Queste ovviamente lasciano segni nella vita di un autore e in qualche modo si ritroveranno nelle loro opere sotto forma di eredità biografiche. Spesso ciò è dichiarato, quasi come in un libro di memorie. Oppure, nei casi migliori, tutto avviene sotto mentite spoglie, senza, si capisce, una reale volontà dell’autore: è come se una vicenda, una sensazione, un personaggio realmente vissuto s’impossessino dalla penna e si scrivano da soli.
A volte è facile isolare le eredità biografiche nella scrittura, in altre solo voci esperte sono in grado di farlo. Spesso, invece, sono aneddoti come quello che sto per raccontare, a permetterci di isolare quanto di un luogo uno scrittore abbia portato con sé.
Abbozzare confronti tra autori ci può essere utile per parlare delle eredità biografiche.
Antonio Tabucchi era italiano, toscano, molto legato alla sua terra, ma di lì partì per approdare altrove, in Portogallo. Per questo lo si può definire scrittore “d’altromare”: non è il Mediterraneo il suo mare di elezione, ma l’Oceano Atlantico. Non è l’Italia la terra dove scelse di vivere, ma la Lusitania.
A lui possiamo avvicinare un altro grande che, maturato in Italia, scelse poi Parigi come sede intellettuale della sua ultima produzione: Italo Calvino. Calvino diceva che esistono due tipi di liguri: quelli che restano e non partono mai e quelli che vanno via, ma tornano, prima o poi tornano sempre. Beh, questo, forse, è vero anche per i toscani, perché Antonio Tabucchi, pur essendosi spostato a Lisbona, rimase sempre molto legato a Vecchiano, il piccolo borgo nei pressi di Pisa dove crebbe nella casa dei nonni.
Le analogie con Calvino potrebbero continuare: seppur di generazioni diverse, erano entrambi comunisti, ma di quelli critici, capaci di allontanarsi da ogni dogmatismo al momento giusto, pur restando sempre, profondamente, antifascisti. E se uno, Calvino, era l’Eremita a Parigi o il flaneur di Palomar, l’altro, Tabucchi, era il viaggatore di Notturno Indiano, curioso d’incontri ma alla ricerca di sé stesso.
Calvino, portò sempre con sé il ponente ligure e, anche nelle opere parigine, nascosti, anche nelle sequenze più astratte di Ti con zero, si riconoscono i panorami vetrosi delle serre di Sanremo e quell’idea di giardino perfetto, opposto alla speculazione edilizia dell’uomo.
Tabucchi, portò con sé il suo italiano pulito e limpido, ricco di invenzioni, come la sua più famosa, quel reiterato “Sostiene” che troviamo in Sostiene Pereira. Fino a Requiem, romanzo sulla sua Lisbona, scritto in portoghese, che suona come un commiato a un autore di cui Tabucchi ha contribuito non poco alla fama: Fernando Pessoa.

Una traccia evidente dell’eredità biografica di Tabucchi, la troviamo nel suo romanzo più importante: Sostiene Pereira. La vicenda narrata nel libro è quella di Pereira, un giornalista che, vedovo, abbandonata ogni velleità e ambizione politica in una Lisbona attraversata dai salazaristi al potere nel 1938, trova il suo riscatto esistenziale grazie alla frequentazione con un giovane praticante, un collaboratore assunto senza molta convinzione e dalle idee piuttosto rischiose, laureatosi con una tesi sulla morte in un momento in cui la città «puzza di morte, tutta l’Europa puzza di morte», e che Pereira non riesce a licenziare per un motivo che non sa nemmeno lui. Il giovane, Monteiro Rossi, italiano d’origine, assieme alla sua fidanzata Marta, bellissima e rivoluzionaria, condurranno Pereira a una decisione irreversibile e storica, un riscatto che gli attribuisce la dignità di un eroe.
Ci si potrebbe aspettare che proprio in Monteiro Rossi Tabucchi riversasse la sua eredità biografica. Invece no: seppur giovane, bello, italiano e ribelle, non è in Monteiro Rossi che troviamo il dettaglio importante utile alla nostra tesi.
In rua Rodrigo da Fonseca, sede della redazione culturale (composta da lui solo) del giornale per cui lavora, il Lisboa, c’è una portinaia, Celeste. Celeste svolge puntualmente i suoi doveri: recapita la posta, risponde al telefono, recapita messaggi. È anche una brava moglie, che tutti i giorni prepara il pranzo, perché, dice «ho quattro bocche da sfamare, io, e a parte i figli, che si contentano, ho un marito molto esigente, quando torna dalla questura, alle quattordici, ha una fame da lupo e è molto esigente».
Celeste ha però un grande difetto: è impicciona e, probabilmente, è un’informatrice della polizia.
Non è un personaggio di contorno: sarà importante nel meccanismo narrativo del romanzo.

Celeste l’incontrai all’improvviso, anni fa, durante un convegno in cui Tabucchi descrisse il suo rapporto con Genova. La biografia genovese di Tabucchi è lunga e importante. Dal 1977 al 1990, infatti, insegnò Lingua e Letteratura Portoghese all’Università di Genova e questa città lasciò in lui un segno profondo, tanto da ambientarvi un romanzo, Il filo dell’orizzonte. Quando raccontò della portinaia di via Cairoli, dove aveva sede il “Dipartimento di Romanistica”, in cui Tabucchi teneva lezione, mi fu tutto chiaro: era Celeste. Dell’aneddoto è a conoscenza anche Laura Guglielmi, la “direttora” di www.mentelocale.it, un web magazine molto seguito a Genova: Tabucchi glielo raccontò nel 1992 a un’intervista per Radio Rai. In quell’occasione Tabucchi disse espressamente che la sintassi portoghese si mescolava all’odore del minestrone della portinaia, formando un amalgama unico.

Coincide tutto: erano i primi anni Novanta, e forse Tabucchi lavorava già a Sostiene Pereira, che uscì nel 1994. Per saperne di più ho chiesto a un’amica allora studentessa e ora insegnante di spagnolo che la ricorda bene la “Celeste” genovese: «Era una sorta di casalinga sui sessanta, sempre impegnata a cucinare. La sua specialità era il minestrone, che lei cucinava svolgendo il suo lavoro. Dal suo gabbiotto uscivano profumi che rendevano il Dipartimento di romanistica un luogo molto familiare, domestico e a suo modo accogliente».
Tabucchi avrebbe dunque sostituito semplicemente la ricetta: l’omelette al minestrone. Questo mi è apparso ancor più chiaro nel racconto della mia amica ex-studentessa: «Pur tenendo sempre sottocchio la pentola, la portinaia svolgeva perfettamente il suo lavoro: forniva informazioni e appuntava i cartelli scritti a pennarello alle porte delle aule se i vari professori erano assenti. Li giustificava per le ragioni più disparate: l’autostrada, “la moglie ha un brutto carattere” o una improvvisa malattia. Ma poi trascinava le ciabatte contrariata, come se anche i docenti fossero figli che le davano preoccupazioni. Allo stesso modo era comprensiva con chi si arrabbiava davanti a quei cartelli, con gli studenti, e consolava in modo molto materno chi non superava qualche esame, chi piangeva per un voto basso e perdeva una borsa di studio. Ma urlava se si entrava con l’ombrello sgocciolante o ci si ammassava davanti a un’aula, se si spostavano le sedie da una parte all’altra in modo sgarbato. Arrivava minacciosa con il bastone del mocio. Era un po’ come avere una mamma a capo di un dipartimento…»

La storia di Rosa (non ho cambiato colore, ho solo dato un nome ipotetico alla Celeste genovese) s’interruppe nei primi anni 2000, quando, con l’aumentare delle lezioni e degli alunni, romanistica venne unificata a lingue e s’aprì una nuova sede con una nuova portineria. Al suo posto venne messo un ragazzo indiano: perfetto, preciso, in giacca e cravatta. Destino volle, però, che anche lui avesse la famiglia appresso: cartelli “torno subito”, bambini che andavano e venivano da scuola.
Alla cucina genovese, si sostituì quella moghul. All’odore di minestrone, quello di curcuma o curry e, se friggeva, erano samosa e pakora.
Il vecchio dipartimento aveva assunto una dimensione globale.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE