ATÉLIER BAUDELAIRE: UN TABLEAU VIVANT

IL COLOPHON
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19 min readDec 11, 2017

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Galleria di personaggi intorno all’autore dei Fiori del Male di Gino Cervi

Il modo che mi atterrisce di meno per scrivere di Charles Baudelaire è quello di ritrarlo attraverso i personaggi che lo hanno accompagnato, nel bene e nel male, nella sua breve vita, tormentata e precaria (1821–1867). Così come nel celebre quadro di Gustave Courbet, L’atélier de l’artiste (1854–55), quadro in cui in primo piano, nell’angolo destro in basso, Baudelaire appare assorto nella lettura, si è scelto quindi di raccontare il poeta dei Fiori del male in un tableau vivant, quasi un casting del film della sua vita.

Caroline Archambaut-Dufays, vedova Baudelaire, risposata Aupick: la madre

Caroline Archambaut-Dufays, la madre di Baudelaire, è di 34 anni più giovane del padre. Caroline e Charles rimangono presto vedova e orfano. Il piccolo si legherà alla madre in un rapporto quasi morboso che sta all’origine del suo sfrenato feticismo: inebriato da fruscii di sottane, sete e profumi, ritroverà negli afrori delle donne che amerà l’odore della pelliccia della madre. Non deve essere stato bello sentirsi così poco ripagato da tanta passione. Solo un anno dopo la morte di Charles, la madre scrive una lettera a un amico del figlio: “Il patrigno aveva fatto per lui sogni dorati di un brillante avvenire […] voleva vederlo salire a un’alta posizione sociale. Ma quale stupore per tutti noi quando Charles si e rifiutato di accettare quanto volevamo fare per lui e ha deciso di volare con le proprie ali, di diventare scrittore! Che delusione nella nostra vita sino ad allora tanto felice! Che dolore!”.
Se Charles Baudelaire avesse assecondato gli auspici e i progetti della famiglia, cosa sarebbe successo? Da chi avrebbero preso le mosse simbolisti e surrealisti, su quali radici si sarebbe fondata la grande prosa — Proust, Gide, Mann — e la grande lirica — Rilke, Eliot, Valery — del Novecento; e come avrebbero dipinto Picasso e Matisse, come avrebbero suonato Mahler e Debussy; e quale “buon esempio” avrebbero preso i maledetti come Rimbaud e Antonin Artaud, Van Gogh e Jackson Pollock, quegli strafatti della Lost Generation, fino a Lou Reed e a Patti Smith? Meglio non pensarci. E meglio non dar sempre retta alle mamme.

Joseph-François Baudelaire, il padre

Joseph-François Baudelaire era nato nel 1759 e aveva attraversato la Rivoluzione: da giovane era stato precettore dei duchi Choiseul-Praslin, a cui rimase fedele anche negli anni del grande sovvertimento. Fece carriera sotto Napoleone, arrivando alla carica di capo degli uffici amministrativi del Senato. Nel 1815 rassegnò le dimissioni e si ritirò a vita privata. Quando nel 1821 gli nacque, da un secondo matrimonio, Charles, il secondo figlio, ha 63 anni. Morirà sei anni dopo. Difficile dunque che il piccolo Charles possa avere avuto di lui un ricordo nitido; di quel bozzolo chiuso al mondo, ne percepì a mala pena solo la lontananza anagrafica e affettiva. Colto, elegante, Joseph-François era un sopravvissuto del secolo dei Lumi — da giovane, aveva frequentato Condorcet e Cabanis — nei suoi modi di fare e nel richiuso contesto casalingo in cui amava rifugiarsi — i libri, i mobili e gli arredi d’antiquariato — una cultura che non era più quella del suo tempo. Era anche un mediocre pittore dilettante. Nel 1857 Baudelaire acquistò un quadro del padre da un rigattiere e scrisse poi alla madre: “Mio padre era un artista detestabile, ma per me quelle anticaglie hanno un valore morale”.

Charles Aupick, l’odiatissimo patrigno

Il generale Charles Aupick, che nel 1829 risposa la vedova Baudelaire, è il cattivo patrigno che Charles odierà tutta la vita, non perdendo mai occasione di rappresentarlo come un tiranno senza cuore. Aupick è un benpensante e per di più un militare di carriera: da tenente-colonnello scala le gerarchie fino a diventare capo di Stato maggiore. Il povero Aupick persegue tutto sommato onestamente l’ottusa convinzione di fare il bene del figliastro con l’inculcargli, volente o nolente, i suoi semplici, incontestabili principi di buon borghese. Ma il giovane Baudelaire è di tutt’altra pasta: irrequieto e irriducibile a ogni costrizione imposta con l’autorità e nel 1848, ventinovenne, sale sulle barricate della rivoluzione quasi soltanto per urlare: “Andiamo a impiccare il generale Aupick!”.

Il notaio Narcisse-Desiré Ancelle, tutore giudiziario

I debiti perseguiteranno Baudelaire sino alla fine dei suoi giorni. Compiuti nell’aprile 1842 i ventun’anni, Baudelaire esce dalla minore età ed entra in possesso dell’eredità paterna. Baudelaire prende in affitto un appartamento in quai de Bethune, sull’Île Saint-Louis: è il primo di un’infinita serie di alloggi, perennemente in fuga dai locatari che richiedono il pagamento della pigione. In poco tempo l’eredità paterna, che ammontava alla cospicua cifra di 75.000 franchi, viene dilapidata di quasi la metà: spese folli in abiti, mobili di lusso, quadri, pranzi fastosi alla Tour d’Argent. Proprio l’antiquario Arundel, che abita all’Hôtel Pimodon, lo stesso lussuoso palazzo in quai d’Anjou in cui Baudelaire è andato ad abitare, diventa il suo principale creditore. Il 21 settembre 1844, dopo due anni di vita dissoluta, la famiglia interviene e ottiene dal tribunale civile l’interdizione del figlio: viene nominato suo tutore giudiziario Narcisse-Desiré Ancelle, notaio in Neuilly. Per il resto della sua vita, Baudelaire dovrà “fare i conti” con l’onesta inflessibilità del notaio Ancelle che fino alla fine rispetterà il mandato di difendere quel che resta del patrimonio familiare. La tutela giudiziaria viene vissuta da Baudelaire come un marchio d’infamia, la causa di tutti i suoi mali. Scriverà alla madre, anni dopo: “Il consiglio giudiziario mi consuma da diciassette anni. Non sapresti credere né capire il male che mi ha fatto… Mi sembra di portare su di me una piaga vergognosa e che tutti la vedano. […] Il consiglio giudiziario è uno spaventoso errore che ha rovinato la mia vita, oscurato tutte le mie giornate, dato a tutti i miei pensieri i colori dell’odio e della disperazione”.

Jeanne Duval, la mulatta

Poco più che ventenne Baudelaire conosce una donna. Per oltre vent’anni le resterà legato “Come il forzato alla catena, / al gioco il giocatore incarognito, / l’alcolizzato alla bottiglia, / la carogna ai suoi vermi” (Il vampiro). La donna si fa chiamare Jeanne Duval, al secolo Jeanne Lemer, ed è una mulatta di origini haitiane, alta, dalla folta capigliatura crespa e dall’incedere tra il maestoso e il selvaggio. Le testimonianze dell’epoca concordano nel riconoscerle un fascino perverso, una forza di attrazione quasi sovrannaturale che contrasta con la sua riconosciuta volgarità. Ufficialmente fa la comparsa teatrale, ma di fatto Jeanne la mulatta fa la prostituta. Il rapporto con Baudelaire è un’inestinguibile lotta di corpi e di sentimenti: per il poeta è qualcosa di divino e di animalesco, fonte di esaltazione e di tristezza, belva crudele ed esperienza estatica. Nonostante i ripetuti propositi di abbandono, Baudelaire non si distaccherà mai dalla “regina di piaceri” e la assisterà fino al 1862, quando, poco più che quarantenne, morirà deturpata dalla malattia, quasi completamente cieca. È di quest’ultimo periodo un ritratto di Edouard Manet, intitolato L’amante di Baudelaire, anche se la critica ne ha messo in dubbio l’identificazione. La Duval era comparsa già a fianco dello stesso Baudelaire, raffigurato in primo piano a destra e intento nella lettura. in precedente dipinto, L’atelier del pittore, realizzato nel 1855 da Gustave Courbet. Ma per volere del poeta, la figura di Jeanne venne in seguito cancellata da Courbet, benché sia rimasta ancora visibile in chiaroscuro.

Victor Hugo, e il suo ombelico

Tra i pochi libri da cui lo studente Baudelaire dice di non essere stato sopraffatto dalla noia ci sono i drammi e le poesie di Victor Hugo. Al “padre della Patria” in esilio — Hugo, membro dell’Assemblea costituente, costretto a riparare sull’isola di Guernesey, nel canale della Manica, dopo il colpo di Stato del 1851 di Napoleone Bonaparte che prelude alla trasformazione della Seconda repubblica in Secondo impero — Baudelaire dedica nel 1859 la poesia Il cigno — che entrerà nella seconda edizione dei Fiori del male — accompagnandola con le seguenti parole: «Ecco dei versi fatti per voi e pensando a voi». Hugo risponderà in modo un po’ vago: «Come tutto ciò che voi fate, signore, il vostro Cigno è un’idea. Come tutte le vere idee, ha in sé cose profonde…». Dopo il processo ai Fiori del male, Baudelaire riceverà la solidarietà di Hugo: “Caro Baudelaire, i vostri Fiori del Male brillano e affascinano come stelle. Continuate! Grido bravo! Con tutte le mie forze al vostro spirito vigoroso”. Ma in seguito Baudelaire non risparmiò l’autore dei Miserabili di sarcastiche sortite, mettendone alla berlina l’irrefrenabile narcisismo: «Hugo-Sacerdozio ha sempre la fronte troppo china; troppo china per vedere alcunché, eccetto il suo ombelico».

Honoré de Balzac, di debiti e romanzi

Intorno al 1843 Baudelaire aveva conosciuto Honoré de Balzac (1799–1850) frequentando i party di fumatori di oppio del Club des Haschischins, che si riuniva presso la casa del pittore Fernand Boissard de Boisdenier. Balzac pare che se ne stesse in disparte a osservare la varia umanità di artisti o aspiranti tali in preda alle allucinazioni dell’hascisc. Baudelaire era stato già prima un avido lettore dei romanzi di Balzac, dentro i quali si era immerso, senza quasi mai salire in coperta, nel corso dell’interminabile viaggio in nave dell’estate del 1841, quando i genitori pensarono di imbarcarlo sul Paquebot-des-Mers-du-Sud in rotta da Bordeaux verso Calcutta. Nel 1845 pubblicò sul “Corsaire-Satan”, un curioso bozzetto ispirato alla vita dell’autore de La Comédie Humaine, a cui l’accomunava l’affannosa sorte di essere perseguitato dai creditori: Come si pagano i debiti quando si ha del genio.

Eugène Delacroix, lago di sangue

Fino alla pubblicazione della prima edizione de I fiori del male (1857), più volte annunciata come imminente nei dieci anni precedenti, il “poeta” Baudelaire è conosciuto al pubblico delle lettere solo come critico d’arte. Il suo esordio di scrittore avviene infatti con la pubblicazione con Salon del 1845, il saggio dedicato alla descrizione dell’esposizione di pittura e scultura di quello stesso anno. L’anno successivo, il 1846, Baudelaire scrive il celebre saggio su Eugène Delacroix. Su Delacroix Baudelaire ritornerà a più riprese, nel saggio sull’Esposizione universale del 1855, dedicandogli un passaggio della poesia I fari — “Delacroix, lago di sangue che maligni angeli sfiorano/ e un sempre verde bosco di abeti corona” — e scrivendo nel 1863 la monografia L’opera e la vita di Eugène Delacroix; ma è proprio nei passi del saggio del 1846 che mette in luce un’intima corrispondenza tra una qualità di quella pittura e il sentimento di spleen che innerverà buona parte della produzione poetica baudelairiana. Si legge infatti che le qualità di Delacroix: “la più notabile di tutte, e che fa di lui il vero pittore del XIX secolo, [è] la malinconia strana e persistente che esalano tutti i suoi lavori, e che si esprime con la scelta dei soggetti, con l’espressione delle figure, con il gesto, e con lo stile del colore.”

Eugène Delacroix (1798–1863) era il maestro riconosciuto della pittura romantica, prestigio che si era conquistato, non senza contrasti, con le prime opere degli anni Venti — La barca di Dante, 1822, Il massacro di Scio, 1824 — ma soprattutto con il suo capolavoro allegorico, La libertà che guida il popolo, ispirato alle tre giornate della Rivoluzione di luglio del 1830. Il suo stile si era affinato dopo un viaggio in Nordafrica e in Spagna e, pittore ormai affermato e ricercato, negli anni Cinquanta si era dedicato a grandi committenze per la decorazione di palazzi e chiese. Il 17 febbraio 1858, risponde così a Baudelaire che gli aveva inviato con dedica — “in testimonianza di un’eterna ammirazione” — una delle sei copie, in carta di lusso, della raccolta di poesie. “Mio caro signore, le scrivo in tutta fretta prima di uscire; le sono molto grato per I fiori del male: gliene ho già parlato di sfuggita, ma meritano ben altra cosa”. Una risposta un po’ frettolosa e quasi imbarazzata, con quella chiusa che lascia qualche dubbio su quello che il grande pittore pensava della prolungata devozione del giovane ed eccentrico poeta. Del resto, l’anno precedente, Delacroix, personaggio organico all’establishment politico-culturale della nazione — era figlio naturale del potentissimo politico e diplomatico Charles-Maurice de Talleyrand, e intimo del duca di Morny, influentissimo uomo politico della Seconda Repubblica e poi del Secondo Impero — , non aveva mosso un dito per prendere le parti di Baudelaire nel corso del processo per immoralità subito da I fiori del male.

Constantin Guys, o del perfetto flâneur

Il pittore della vita moderna è una serie di tredici brevi saggi, pubblicati a puntate su “Le Figaro” nel 1863 e dedicati all’opera di un pittore minore, anzi un disegnatore, Constantin Guys (1805–1892). Guys faceva l’inviato di guerra per il “London News Illustrated”, cui mandava schizzi di cronaca che venivano trasformati in xilografie che avevano l’effimera durata di un’illustrazione di giornale. Per Baudelaire, con sublime gusto del paradosso e della polemica, il “pittore della vita moderna” non era né Ingres, né il venerato Delacroix, e neppure l’emergente Edouard Manet: era Constantin Guys, anzi C.G., come viene cripticamente chiamato nel saggio. In realtà il protagonista eponimo del saggio è lo stesso Baudelaire, e C.G. — che Baudelaire aveva davvero conosciuto e ammirato, arrivando non solo a comprare ma addirittura a commissionare alcuni suoi “superbi disegni” — non è altro che una sorta di suo alter ego. Parlando di C.G., Baudelaire parla della figura e della funzione dell’artista, dell’immaginazione, della bellezza, dell’universo femminino, del significato estetico della moda e di tutte quelle réveries morales che indagano sul senso della modernità. Tratteggiando l’essenza dell’artista contemporaneo, Baudelaire delinea se stesso: “uomo del mondo intero, che comprende il mondo e le ragioni misteriose e legittime di tutte le sue usanze”; “un cittadino spirituale dell’universo” mosso dalla “curiosità”, motore primo del suo genio; l’artista ha la capacità di interessarsi vivamente alle cose, anche le più banali, che è propria di un fanciullo, che s’inebria di fronte alla realtà vista come per la prima volta; o di un convalescente, che torna ad assaporare l’eccitazione della vita dopo lunga e intorpidente malattia. Ma l’identificazione si svela ancora di più quando parla dell’artista moderno sovrapponendolo al dandy, in una magistrale definizione che è, forse, il migliore autoritratto baudelariano: “Sposarsi alla folla è la sua passione e la sua professione. Per il perfetto flâneur, per l’osservatore appassionato, è una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito. Essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio; vedere il mondo, esserne al centro e restargli nascosto […]. Così l’innamorato della vita universale entra nella folla come in un’immensa centrale di elettricità. Lo si può magari paragonare a uno specchio immenso quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza, che, a ogni suo movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli elementi della vita. È un io insaziabile del non-io, il quale, a ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre instabile e fuggitiva”.

Edouard Manet, di cravatte e scarpe lucide

Negli anni in cui Baudelaire lavorava al Pittore della vita moderna, Edouard Manet dipingeva Musica alle Tuileries (1862). Per molti critici è la trasposizione su tela delle teorie estetiche di Baudelaire che, fin dal saggio sul Salon del 1845 aveva scritto: «Un pittore, un vero pittore sarà quello che […] ci farà vedere e sentire quanto siamo grandi e poetici nelle nostre cravatte e nelle nostre scarpe lucide». La tela di Manet, oggi conservata alla National Gallery di Londra, ritrae un ritrovo della borghesia parigina all’ombra degli alberi dei giardini delle Tuileries. Donne sedute, uomini in tuba che passeggiano e conversano, bambini che giocano tra sedie vuote e un parasole poggiato a terra. La scena è affollata di figure ferme ma l’impressione è di un intenso brulichio, che, anche nei momenti di svago, è il segno distintivo del borghese cittadino; una raffigurazione anti-retorica, che attinge dal repertorio iconografico delle riviste, di registro basso e antiretorico, in contrasto con le scelte auliche della pittura accademica. Anche l’indefinitezza della stesura pittorica, che addensa e sfuma i contorni e i volumi dei soggetti, è una precisa scelta stilistica: non sarà un caso, se tra i soggetti vi compaia, nella figura di profilo, in secondo piano tra il ritratto della dama senza velo e lo sfondo di un tronco, proprio Baudelaire, una silhouette poco più di una macchia di colore.

Ernest Pinard, il giudice

Nel febbraio del 1857 Gustave Flaubert viene messo sotto processo “per oltraggio alla morale pubblica e religiosa e al buon costume”: il motivo è stato la pubblicazione, a puntate, tra l’ottobre e il dicembre del 1856, sul periodico “La Revue de Paris”, del romanzo Madame Bovary. La requisitoria è affidata al pubblico ministero Ernest Pinard, che biasima l’autore “per il volgare realismo e la spesso scioccante descrizione dei personaggi”. Flaubert viene assolto e il romanzo, pubblicato in volume nelle settimane successive, avrà un notevole successo di lettori. Nel giugno dello stesso anno, vengono pubblicati I fiori del male di Baudelaire. Non è passato neppure un mese che anche questo libro finisce sul banco degli imputati del tribunale di Parigi. Il pubblico ministero è lo stesso, Ernest Pinard, e la stessa è l’accusa: immoralità. Ma l’esito del processo è diverso: Baudelaire, l’editore e lo stampatore sono condannati a pene pecuniarie per aver offeso il pubblico pudore; la sentenza decreta anche l’espunzione di sei poesie. Dopo l’instaurazione del Secondo Impero (1852), la censura ha dato un giro di vite. I magistrati, forse più lungimiranti degli stessi critici, intravedono nei Fiori del Male, più che nel romanzo di Flaubert, l’insidia del dissenso. E lo “scomunicano”. Il marchio d’infamia si abbatte su Baudelaire, già da quindici anni trattato come un minore, o un minorato, dalla tutela giuridica impostagli dalla famiglia, già emarginato — anche per sua stessa scelta — dal mondo della borghesia parigina, bollato come soggetto pericoloso, a rischio, da isolare. Baudelaire, che ha attraversato la Rivoluzione del 1848 come un Forrest Gump in redingote, ha scelto la rivolta metafisica attraverso le armi della poesia. La censura di Napoleone III, la prima dittatura della borghesia nella storia dell’Occidente, cerca di spuntargli anche quelle.

Théophile Gautier, il dedicatario

Allo scrittore e critico letterario Théophile Gautier (1811–1872), per un buona parte della sua vita Baudelaire fu legato da particolare congenialità d’animo e pensiero. Gautier fu imprescindibile punto di riferimento per molti autori nel turbinio dei movimenti artistici che si avvicendarono e intrecciarono nel XIX secolo, dal Romanticismo, al Simbolismo, dal Decadentismo al Modernismo, passando per la corrente del Parnassianesimo, di cui fu Gautier stesso il teorizzatore attraverso la celeberrima formula de “l’arte per l’arte”, che svincolava l’immaginario e la pratica creativa da null’altro che fosse il perseguimento della bellezza. La scintillante figura di Gautier, dandy di successo, felice anticipatore di istanze poetiche, non poteva non affascinare Baudelaire che infatti lo fece nientemeno che dedicatario dei suoi Fiori del male, così rivolgendosi: “Al poeta impeccabile / al perfetto mago delle lettere francesi / al mio carissimo e veneratissimo / Maestro e amico / Théophile Gautier / Con i sentimenti di più profonda umiltà / Io dedico / Questi fiori malsani.”
Nel 1859, gli dedicò un saggio monografico, pubblicato dapprima in rivista e quindi in una plaquette. Ma neanche Gautier si salvò in seguito dal sarcasmo dell’amico, che secondo Baudelaire aveva sacrificato il suo spirito brillante alla mercificazione del mestiere di scrittore, che lo costringeva a una compulsiva e compiacente attività di pubblicista organico al potere. Al punto che, Baudelaire, a proposito di un giudizio espresso dallo stesso Gautier sul pittore Hyppolite Delaroche ne lodò la severità riservandogli però una coda velenosa: “Come ha detto, credo, Théophile Gautier, in una crisi d’indipendenza”.

Richard Wagner, una questione di “corrispondenze”

La sera del 13 marzo 1861 all’Opéra di Parigi si tenne la prima del Tannhäuser di Richard Wagner. Il compositore tedesco tentava la fortuna nella capitale francese dopo la fredda accoglienza, l’anno prima, riservata alla versione concertata dell’Olandese volante. Ma se nel 1860 era stato un insuccesso, il Tannhäuser del 1861 fu un vero scandalo. Il pubblico, abituato a tutt’altro genere melodrammatico, si ribellò; la stessa orchestra entrò, dopo estenuanti prove, in rotta di collisione col dispotico compositore che fu costretto a ritirare l’opera dopo la terza recita. Unico a difendere Wagner dalla marea montante di feroci critiche che lo dipingevano come il più impopolare e inascoltabile dei musicisti, fu proprio Baudelaire, presente alla prima. In difesa di quell’inaudita partitura musicale, dopo aver indirizzato una lettera al compositore, scrive quello stesso anno un saggio, Richard Wagner e il Tannhäuser a Parigi. Alle accuse di sterile e artefatto intellettualismo che vengono mosse a Wagner, risponde che al genio artistico non basta la spontaneità del solo intuito, ma che nel processo creativo l’immaginazione necessita di un’organizzazione razionale, che si ritrova, potente e originale quasi come in una tensione cosmogonica nel concetto di “opera d’arte totale” wagneriana. E quasi a supporto teorico di questa visione, Baudelaire cita se stesso, rimandando alle prime due quartine delle Corrispondenze, il sonetto-manifesto dei Fiori del male.

Edgar Allan Poe, lo scrittore dei nervi

Baudelaire inizia a leggere l’opera di Edgar Allan Poe tra il 1846 e il 1847, quando i racconti dello scrittore americano iniziano a essere pubblicati su riviste francesi. Non si incontreranno mai: Poe morirà a Baltimora nel 1849, a soli quarant’anni e col fisico minato dall’alcolismo, in circostanze rimaste alquanto misteriose. Ma sarà grazie all’assidua e fervida opera di traduzione e divulgazione di Baudelaire — un “monumento artistico” la definì uno scrittore contemporaneo, Barbey d’Aurevilly — che Poe divenne autore di culto in Europa. Baudelaire confessa il perché di una così appassionata dedizione in una lettera del 1864: “Sapete perché ho così pazientemente tradotto Poe? Perché mi assomigliava. La prima volta che ho aperto un suo libro, ho visto, con paura e rapimento, non soltanto delle cose che avevo sognato, ma addirittura delle frasi che avevo pensato, e che lui aveva scritto vent’anni prima”.
Dei settanta racconti scritti da Poe, Baudelaire ne traduce ben quarantaquattro, dal 1848 al 1865. All’opera di traduzione Baudelaire si dedicò con uno straordinario puntiglio, conquistando a fatica la conoscenza della lingua inglese e approfittando delle conoscenze anglofone residenti a Parigi per risolvere i frequenti dubbi. Una fortissima tensione emotiva lo faceva lavorare quasi come se dovesse rendere conto del risultato del suo lavoro a Poe stesso, piuttosto che ai lettori francesi. Tra il marzo e l’aprile del 1852 compare in due puntate su “La Revue de Paris” il primo saggio monografico, Edgar Allan Poe, la sua vita e le sue opere. L’intima consonanza estetica tra i due scrittori la si ritrova anche nella traduzione dei saggi teorici di Poe. Il tema della folla, l’opposizione all’idea ottimistica di progresso, tipica della democrazia americana, il disprezzo per le opinioni e i luoghi comuni, presenti nell’opera di Poe risuonavano in accordo con la visione del mondo di Baudelaire. Oltre a questo c’era una evidente affinità biografica: per entrambi il rifiuto, doloroso, delle convenzioni li aveva spinti in una condizione di esiliati, di outcast sociali. E per entrambi il rifugio era stato l’accesso ad altri mondi, ad altre realtà attraverso l’alcool e le droghe: il dandy antiborghese parigino trovava il suo alter-ego nell’arrogante, snob, alcolista e fumatore di oppio che perse i suoi giorni in un sobborgo di Baltimora.

Nadar, il fotografo degli artisti

Sono molti i pittori ad aver ritratto Baudelaire: Gustave Courbet, Édouard Manet. Da giovane, nel 1844, compare in un ritratto di Émile Deroy, in un’affettatissima posa da dandy. Erano gli anni in cui passeggiava tra le vie fangose di Parigi saltellando e facendo attenzione a non insozzare le scarpette di vernice: indossava un abito nero che si era fatto tagliare su suo disegno e un paio di strabilianti guanti rosa fucsia. Ma ancora di più sono le fotografie che lo hanno immortalato. La fotografia era agli albori e lo stesso Baudelaire era piuttosto dubbioso del suo valore artistico: in occasione dei Salon del 1859 scrisse, ironicamente: “Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie d’esattezza che si possono desiderare (credono questo, gli insensati!) l’arte è la fotografia”.
Ma alla fotografia dobbiamo la testimonianza fisiognomica dell’autore dei Fiori del Male. Celebre lo scatto — ma non fu l’unico — che gli fece, nel 1855, l’amico Nadar: preso di tre quarti, la mano destra infilata nel soprabito, lo sguardo inquieto, duro. Nadar era lo pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon (1820–1910), uno dei più importanti pionieri della fotografia. Inizia come giornalista, poi diventa vignettista e caricaturista. Ma dagli anni Cinquanta la sua passione è quasi totalmente assorbita dalla fotografia, che in quel periodo muove i suoi primi passi tecnologici e artistici. Si dedica a un’ampia serie di ritratti, immortalando letterati, artisti e intellettuali della sua epoca: Jean-Baptiste Camille Corot, Gustave Courbet, Victor Hugo, Édouard Manet, Guy de Maupassant, Gerard de Nerval, Jules Verne e appunto Baudelaire. Sette anni dopo il ritratto di Nadar, nel 1862, sarà un altro fotografo, Étienne Carjat, a ritrarre il poeta, precocemente invecchiato, la stempiatura allargata, i tratti del volto appesantiti, le labbra sottili e strette, e con una grande cravatta svolazzante.

Charles-Augustin de Sainte-Beuve

Charles Augustin de Sainte-Beuve era negli anni di Baudelaire colui il quale, grazie alla sua incontrastata autorità di critico letterario, con una lode e una stroncatura in poche righe poteva decidere il destino di uno scrittore. Maestro nell’arte del dire e del non dire, nei giorni del processo ai Fiori del male, aveva scritto in privato a Baudelaire, chiamandolo paternamente “caro figlio” e suggerendogli una linea di difesa abbastanza curiosa. Come poteva essere colpevole di immoralità, Baudelaire? La sua, nel mondo della poesia, era una condizione di necessità dal momento che “Tutto era preso nel campo della poesia. Lamartine aveva preso i cieli; Victor Hugo la terra e piu ancora della terra […]; de Musset la passione e l’orgia scintillante. Altri il focolare, la via morale eccetera… Theophile Gautier la Spagna e i suoi vividi colori. Cosa restava? Quello che Baudelaire ha preso. Vi e stato come costretto!”
Una difesa mascherata che, come quasi sempre nel venerato e temutissimo critico parigino, si prestava malignamente a essere letta nei modi più ambigui, ma che indica una profonda verità. A Baudelaire spetta il primato di aver fatto entrare in letteratura tutto quello che fino ad allora ne era rimasto quasi sempre escluso. Di aver reso poeticamente dicibile quello che prima di lui non era stato contemplato per divenire poesia.
Baudelaire e dunque poeta di “quel che resta del mondo”. Anzi, del mondo rifiutato, rimosso, censurato. Se i romantici avevano per primi intercettato la dualità dell’uomo, diviso tra anima e corpo, tra mondo naturale e mondo soprannaturale, e avevano affidato ai poeti, con le loro facoltà di “veggenti”, il tentativo di ricomporre quella dicotomia, il mondo di Baudelaire e invece tutto racchiuso nella concreta realtà naturale, che è abominevole proprio in quanto naturale, universo finito, decaduto, trafitto dalla malattia e dalla morte. Il bello e il bene non sono di questo mondo. Il poeta che ne ricerca le tracce sulla terra ha in sorte la derisa goffaggine dell’albatro strappato alla libertà del suo cielo e costretto a camminare sul ponte di una nave.
La straordinaria modernità di Baudelaire sta dunque proprio in questo: essere il poeta del negativo, del male contro il bene, dell’atroce contro il bello. Unica via di scampo e cantare il reale, anzi le sue scorie imperfette — la città, la folla, i corpi che si amano e che si decompongono, le voci delle strade, l’orrore della morte –, e fare risuonare quella musica di corrispondenze tra colori, suoni, profumi, odori, luci, tenebre. Come un alchimista, dal finito, dal transitorio, dal contingente Baudelaire prova a estrarre l’eterno.

Felicien Rop, l’amico pittore dell’ultimo viaggio

Nei primi mesi del 1866 Baudelaire si trova in Belgio. Si è illuso di trovare lì il riconoscimento artistico che Parigi gli nega. Ma si è sbagliato anche stavolta: ai belgi Baudelaire farà in tempo a dedicare un feroce pamphlet in cui li descrive come scimmie che imitano maldestramente i francesi. Ma il 15 marzo del 1866 sul sagrato della chiesa barocca dei gesuiti di Saint-Loup, a Namur, Baudelaire cade privo di sensi. L’amico pittore, Felicien Rop, lo chiama per nome, lo scuote: “Charles, Charles!”. Ma Charles non risponde. A neppure 45 anni, anche se è così provato nel fisico che ne dimostra venti di più, Baudelaire viene colpito da emiplegia e perde l’uso della parola. Proprio la parola. La parola, grazie alla quale Baudelaire aveva saputo dare una forma letteraria, inaudita, al mondo: alla bellezza e all’orrore, al sublime e all’immondo, al dicibile e all’indicibile, alla musica, all’arte, all’amore più puro così come al rumore, al fango, allo scandalo dell’uomo alla deriva. La parola dentro la quale aveva saputo far convergere e risuonare corrispondenze di senso tra realtà materiali e segrete, che aveva saputo trasformare in uno scrigno ricolmo di simboli. Pochi giorni prima a proposito della chiesa di Saint-Loup, Baudelaire aveva scritto nel quaderno degli appunti di viaggio: “Sinistra e galante meraviglia. Un catafalco ricamato di nero, rosa e argento […]. Terribile e delizioso catafalco.” Da quel catafalco barocco, Baudelaire non si rialzerà mai più.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE