BASTAVA UN GRILLO PER FARCI SOGNARE di Raoul Casadei

IL COLOPHON
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[Piemme]

“L’Italia sembrava al centro del mondo. E la Romagna, con le sue spiagge e il suo mare, con le sue campagne e le sue colline, con il suo cibo e i suoi vini, e con lo spirito dei suoi abitanti, sembrava il centro del centro. Bastava respirare per sentirsi vivi, parte di un fenomeno travolgente. Il liscio era la colonna sonora perfetta.” A suonarla, per la sua gente, Raoul Casadei. Proprio “quel” Raoul Casadei. Appunto il “re del liscio”. L’inventore di quel genere che è in sé sinonimo di spirito romagnolo, che qui si racconta.
Bastava un grillo (per farci sognare), a quattro mani con Paolo Gambi ed edito da Piemme nel 2013. Un libro ben scritto, a partire dall’incipit sull’odiato mezzobusto di Mussolini e sull’essere suzalesta, sino all’epilogo del protagonista che, oramai più di trent’anni fa, ha lasciato la direzione dell’orchestra per non diventare “patetico. Anacronistico. Parassita. Tutto il contrario del liscio” e riavvicinarsi alla vita, per “mettere l’orecchio a terra e ascoltare ciò che il mondo aveva da raccontarmi”.
Ciò che il mondo aveva da raccontare a Raoul Casadei in tutti questi anni, lui lo riporta proprio qui. In questo volume che è insieme narrazione autobiografica, ma anche inno all’inclinazione più sana che può accogliere un termine come “provincialismo”. Così da un lato si può leggere “la favola di Raoul”. La viva cronistoria di un romagnolo, classe 1937, che affronta lo sfollamento e la guerra; è maestro elementare, prima nel foggiano e poi in zona; ama la sua Pina per una vita intera e con lei mette su famiglia; diviene “Orchestra Spettacolo Secondo & Raoul Casadei” e poi s’invola “in solitaria” nelle varie formazioni del suo gruppo; il contesto del Sessantotto e gli anni Settanta; il “vai col liscio!”; le radioline portatili e i juke box; Arbore, Zavoli e la Sampò; il debutto televisivo e la fama nazionale; TV Sorrisi e Canzoni, il Festivalbar e Sanremo; i discografici e le balere; la fama e anche i dispiaceri; Romagna mia, Io cerco la morosa, Ciao mare, Mazurka di periferia… e tanti altri successi consegnati in staffetta al figlio Mirko, l’erede.
Ma d’altro canto, si può dire, tutto questo sa farsi anche saggio di quella “antropologia della romagnolità” che è alla base della sua stessa musica. È ineludibile la capacità che il testo ha di involarsi ad un livello altro di lettura, alla continua descrizione di questo mondo che Raoul (come lo zio Secondo) fa nel suo intento di “dare al suo popolo, i romagnoli, un vero e proprio genere: la canzone dialettale”. Così che quegli stessi che ne fruiscono siano gli ispiratori e i narrati. E, in pista, scenda l’essenza stessa dell’essere romagnoli. “Milioni di persone ascoltavano la nostra musica. E, facendolo, ascoltavano la nostra terra. Le nostre storie. Il nostro spirito, nonostante tutto, positivo”.
Perché “la musica, per esistere, doveva muoversi in accordo con il mondo che la circondava, doveva respirare con lui”. E il mondo di Raul Casadei, la sua Romagna, è quella ampiamente descritta in queste pagine da “uno del popolo”. Ritrovateli nel testo, è ben tratteggiata ogni cosa. Ricorsiva e cadenzata la traccia. “La romagnolissima passione per la caccia alle anatre”, perché la caccia “per un romagnolo è qualcosa in più che un divertimento o uno sport. È una passione che ha radici antiche. È un modo per restare legato alla terra”. “E poi, su tutto, c’era lei, la bicicletta. Qui in Romagna è una cosa sacra”. “Il motore, come diciamo noi, è una passione molto radicata in Romagna, l’evoluzione tecnologica della nostra mania per le bici”. E ancora, “il gioco delle carte, in particolare il marafone o, come dicono i ravennati, il beccaccino, una sorta di sport nazionale. Era un bridge di periferia, una specie di tresette con la briscola…”. Per non dire de’ “le tedesche. Io, senza falsa modestia, ne avevo cacciate un bel po’. Si sa, noi romagnoli, c’abbiamo il chiodo fisso, è più forte di noi.” E poi “da bravi romagnoli, mangiavamo le piadine di nonna Ernesta” che, a sua volta, “da brava romagnola, aveva la testa dura e andava dritta per la sua strada.” Perché “noi romagnoli dovevamo ringraziare la nostra zucca operosa e testarda”. Un popolo che è sempre stato un po’ birichino (tanto che il cognome dato ai bambini degli orfanotrofi “Casadei è molto comune in Romagna”). E Raoul si è “sempre affidato all’ottimismo, che è parte di noi e della nostra terra”. Così come alla “mutualità, solidarietà, democrazia. Tre valori che da romagnoli avevamo nel sangue e che volevamo trasportare nella gestione della nostra orchestra”. Lui come Fellini, raccontando “la stessa cosa, quell’enorme pentolone in cui ribolliva la follia dei romagnoli”.
La Romagna “terra rivoluzionaria e bastian contraria”. I suoi abitanti dal sangue caldo. Perché “noi romagnoli siamo dei grandi rompiscatole e le ingiustizie non riusciamo proprio a mandarle giù, c’abbiamo il collo stretto”. Così “tra romagnoli non è che si dicano tante cose, si bada all’essenziale.” E una donna coma mamma Adelina non può che essere “una vera azdora, una ‘reggitrice’, una vera donna di casa, di quelle che ti prendevano per la gola e dalle quali finivi per dipendere”, anche se, a causa dell’ictus, purtroppo “perse quella leggerezza che l’aveva sempre abitata. Quella tipica dei romagnoli”. In quelle case dove un ospite lo inviti “ad accomodarsi e da bravo romagnolo gli offri qualcosa da mangiare e un bicchierino” o dove “una discussione è accesa e colorita come solo può accadere in una casa di romagnoli”. E poi la “fitta rete di borghi antichi, ognuno con il suo campanile, la sua storia, il suo orgoglio” che porta a non esser troppo affascinati dalle metropoli. La Romagna “terra rossa, dove i bambini si addormentano cullati da Bandiera Rossa” e “ogni sera durante ogni partita a un certo punto veniva fuori lei, l’ospite indesiderato: la politica. In Romagna, in genere, funzionava un po’ così, c’erano i circoli e i bar dei comunisti e quelli dei repubblicani. Ognuno aveva il sapore del partito che rappresentava”. Ma “in Romagna siamo come dei cerini: ci infiammiamo ma dura poco. Alla rabbia preferiamo l’allegria”. “D’altra parte la nostra musica ha un segreto, che è poi quello della nostra gente. Ha i piedi ben piantati a terra. E quando il vento soffia forte può sbattere e inclinarsi. Ma rimane sempre salda. E soprattutto sa ridere del vento”.
…“Lo so, vi sembrerà una fissazione, ma io, la Romagna ce l’ho nel cuore.”

Sanzia Milesi

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE