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La letteratura di viaggio da Chatwin ai travel blogger di Massimo Lazzari

“Quelli di noi che presumono di scrivere libri si dividono, si direbbe, in due categorie: gli stanziali e gli itineranti”.
Questa citazione tratta da Anatomia dell’irrequietezza di Bruce Chatwin demarca una linea piuttosto netta tra quelli che lui definisce “scrittori che funzionano soltanto a domicilio”, categoria in cui include Flaubert, Tolstoj, Zola, Poe, Proust, e “gli itineranti”, ovvero Hemingway, Gogol’, Dostoevskij. Ma se è vero che uno scrittore “stanziale” farà molta fatica a scrivere un libro annoverabile nel genere della letteratura di viaggio, è anche vero, e questo lo dico io, che non è sufficiente essere un “itinerante” per aspirare a questo riconoscimento.
Eppure, oggi sembra che basti fare il giro del mondo, scrivere su un blog, e fare poi di questo blog un testo, per poter occupare gli scaffali delle librerie (fisiche e virtuali) accanto a mostri sacri come lo stesso Chatwin o Tiziano Terzani.
Ma andiamo con ordine. Per capire meglio il concetto che vorrei esprimere, è opportuno chiedersi innanzitutto che cosa si intenda con il termine “letteratura di viaggio”.
Secondo Wikipedia “è un genere letterario che si occupa del viaggio, delle motivazioni e dei processi del viaggiare. Generalmente si riferisce all’atto di spostarsi da un luogo all’altro compiendo un certo percorso. […] I prodotti estremamente eterogenei di tale genere letterario consistono sostanzialmente in testi o narrazioni dotati di aspirazioni, dignità e spessore artistico e narrativo, e che hanno per oggetto una o più esperienze di viaggio realmente vissute dall’autore, e variamente motivate: dalla ricerca del puro piacere di viaggio, all’esperienza dello spirito di esplorazione, o ricerca scientifica, fino a scopi e utilità del tipo più diverso, incluse le finalità più pratiche”.
In questa definizione sono contenuti diversi elementi interessanti, tra cui quello che mi ha colpito di più è il riferimento alle “aspirazioni, dignità e spessore artistico e narrativo” che dovrebbe possedere un libro per poter essere catalogato in questo genere letterario. Ed è proprio qui che credo si concentri il problema della letteratura di viaggio contemporanea. Per esaminarlo a fondo partirò proprio da colui che, almeno per me, può essere considerato il modello di riferimento per tutto il genere.
Chatwin era un viaggiatore fuori dal comune, certo. Ma prima di questo era uno scrittore, seppur non nel modo convenzionale del termine. Dopo la laurea in archeologia, aveva iniziato a lavorare per una casa d’aste come consulente artistico. Quindi era diventato corrispondente per il Sunday Times Magazine, professione che gli aveva consentito di fare lunghi viaggi e di sviluppare le sue doti narrative. Nel 1972, mentre lavorava per il Sunday Times Magazine, incontrò l’architetto e designer Eileen Gray, nel salotto della quale era appesa una mappa della Patagonia. «Ho sempre desiderato andarci» disse Chatwin. «Anch’io» gli rispose la Gray. «Ci vada lei per me». Due anni più tardi ci andò. E, una volta arrivato, scrisse alla redazione il celebre telegramma di licenziamento: «Sono andato in Patagonia».
Da quel momento si può dire che inizi la sua seconda vita, che lo porterà a viaggiare fino alla Terra del Fuoco alla ricerca delle tracce di un suo antenato marinaio, in Africa insieme alle tribù nomadi del deserto, in Australia per ripercorrere le Vie dei Canti degli Aborigeni. Viaggi spinti innanzitutto dalla ricerca di una risposta alla domanda che lo ha reso celebre e amato da intere generazioni di lettori: “Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, intrattabile dopo due?” Ma anche da una forte curiosità di approfondire le origini dell’uomo e del nomadismo, con un notevole ardore scientifico, retaggio evidente degli studi archeologici e delle esperienze in campo artistico.
È in questa seconda fase della vita che nascono i suoi capolavori letterari, ben lontani dall’essere dei semplici reportage degli innumerevoli viaggi intorno al mondo. In Patagonia, Le Vie dei Canti, Anatomia dell’irrequietezza sono senza dubbio opere in grado di evocare nell’immaginario del lettore suggestioni fortissime dei luoghi esotici visitati, dei personaggi insoliti incontrati, delle storie straordinarie ascoltate. Ma sono anche libri “dotati di aspirazioni, dignità e spessore artistico e narrativo”, e quindi, in quanto tali, degni di essere annoverati a pieno titolo nel genere della letteratura di viaggio.
Lo stesso non credo si possa dire dei titoli che oggi condividono gli scaffali con le sue opere. Non sto parlando dei libri di Enrico Brizzi, ispirati ai suoi viaggi a piedi. Né di quelli divertentissimi di Bill Bryson. Questi due autori, insieme sicuramente a tanti altri, ne hanno tutto il diritto a mio avviso. Mi riferisco invece a quelli che negli ultimi anni, complice la maggior facilità sia di viaggiare sia di pubblicare un libro, stanno facendo uscire testi che balzano immancabilmente in testa a tutte le classifiche di genere e vendono migliaia di copie, pur non avendo alcuna velleità “letteraria”.
Prima di seguirmi in questa riflessione, lasciatemi però premettere che si basa esclusivamente sulle mie personali esperienze di lettura, e non vuole in nessun modo assumere carattere generale. Per quanto ho avuto modo di capire, si tratta, nella maggior parte dei casi, di ragazzi e ragazze giovani, a volte con storie difficili alle spalle, altre volte semplicemente posseduti dalla stessa irrequietezza di Chatwin. A un certo punto della loro vita mollano tutto e si mettono in viaggio, zaino in spalla e pochi soldi in tasca. Mentre sono in viaggio aggiornano i loro blog e le pagine social, seguiti da una moltitudine crescente di follower che sognano, prima o poi, di riuscire a fare la stessa scelta radicale. Al rientro dal viaggio, trasformano i loro blog in un testo, che spesso e volentieri assume la forma di un libro autopubblicato, e che altrettanto spesso e volentieri riscuote un grande successo tra il pubblico.
Lungi da me il tentativo di screditare o giudicare queste persone, che anzi ammiro e invidio tantissimo per il loro coraggio. Io sono uno di quelli che seguono le loro pagine social e acquistano e leggono questi testi. Le loro storie personali non sono meno interessanti di quelle di Chatwin, Terzani e compagnia. I loro viaggi, per il semplice fatto di essere realizzati nell’era della condivisione sociale, hanno la capacità di coinvolgere molte più persone. Di spingere tanti altri ragazzi e ragazze a seguire la loro strada, a mettersi in viaggio, a cambiare vita. Solo per questo, meritano tutto il rispetto possibile.
Però, a mio avviso, i loro testi non possono essere definiti libri. Non possiedono né la dignità, né lo spessore artistico e letterario necessari per ambire all’olimpo della “letteratura di viaggio”. Questo dipende principalmente da due fattori. Innanzitutto, questi ragazzi non sono scrittori che viaggiano, bensì viaggiatori che scrivono. Manca loro, insomma, il background narrativo che trasforma una serie di lettere digitate su una tastiera in un libro vero e proprio. Inoltre, la decisione di autopubblicare i loro testi, rinunciando così molto spesso al lavoro editoriale che potrebbe ovviare alle loro lacune, anziché rendergli onore, li penalizza.
È anche vero che non credo che questi viaggiatori ambiscano più di tanto a essere ricordati come i “nuovi Chatwin”. Il libro, per loro, è probabilmente solo uno dei tanti strumenti di personal branding a disposizione, che assume la stessa funzione delle foto, dei video e dei post che pubblicano. Ma a maggior ragione, allora, è opportuno identificarli nel modo corretto, per cercare di mitigare quel fenomeno di dequalificazione del prodotto letterario, che è ormai comune quasi a tutti i generi. Chiamiamoli viaggiatori, non scrittori. Acquistiamo e leggiamo i loro testi, ma non paragoniamoli a Chatwin o Terzani.
A questo proposito casca a pennello una cosa che mi è successa recentemente. Proprio in questi giorni mi sto cimentando con la scrittura di un libro che, nelle intenzioni, dovrebbe andare a finire proprio su quegli scaffali, quelli della “letteratura di viaggio”. Alla mia domanda, su come possa evitare che l’opera si configuri come un mero reportage di viaggio, il mio mentore letterario mi ha risposto (e spero che non se la prenda se lo cito testualmente), in modo ermetico ma efficace: “È la scrittura che fa il racconto, ricordatelo. Altro che mero reportage di viaggio”.
Più chiaro di così.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE