CICCIO SULTANO AL GRAND HOTEL

IL COLOPHON
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6 min readAug 3, 2018

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Quando mi chiesero come trasformare il luogo più felliniano del mondo. Di Antonio Tombolini

Un po’ di anni fa, diciamo circa quindici anni fa, sarà stato il 2003 o giù di lì, il Grand Hotel di Rimini, che stava progressivamente perdendo il suo smalto, sia dal punto di vista strutturale che commerciale, venne comprato da una coppia di imprenditori, due albergatori: uno di Rimini, l’altro di Cremona o dintorni.

L’albergatore riminese mi conosceva, e mi chiamò per un incontro con i due soci e con il direttore generale dell’hotel che avevano appena assunto, un signore tedesco proveniente da non mi ricordo più quale catena alberghiera.

Al primo incontro io ascoltai soltanto. Volevano che gli proponessi un piano strategico di rilancio del Grand Hotel, con suggerimenti su quali cose privilegiare, su cosa investire, quanto, cosa fare online, cosa fare del ristorante, che immagine ri-disegnare per l’hotel, avendo in mente quale tipo di clientela eccetera, eccetera.

La cosa mi entusiasmò subito. Per procedere nel lavoro chiesi di poter soggiornare presso l’hotel per due settimane, in periodo di bassa stagione, nella loro suite più bella e più cara, e di poter avere accesso anche agli archivi, agli sgabuzzini, ai luoghi di deposito, ovunque… per andare a vedere cosa c’era “dentro”, nel cuore del Grand Hotel.

Per la suite, quando arrivai, si scusarono perché non era ancora stata rinnovata, come invece lo erano altre camere che mi avrebbero dato perché migliori, ma io avevo insistito per quella, che però era vecchia, malandata e “scusaci ma devi immaginartela un po’ come verrà dando un’occhiata alle camere appena rinnovate”.
Diedi quell’occhiata e rabbrividii: stanze assolutamente anonime, che avrebbero potuto essere camere di un qualsiasi albergo 4 stelle di qualsiasi città del mondo (il Grand Hotel era e credo sia ancora ufficialmente classificato 5 stelle Lusso): nuovissime, “patinate”, tutte sui toni del bianco e del grigio, in nome di quella “eleganza minimalista” di cui (nota personale, sorry) siamo rimasti tutti inspiegabilmente catturati e ipnotizzati da almeno trent’anni.
Entrai nella mia suite. Certo, gli ottoni degli accessori del bagno erano da lucidare. Certo, un bel po’ delle meravigliose piastrelle giallo oro opaco e verde acqua che vi si alternavano a formare improbabili e meravigliosi motivi da “antica Roma” erano incrinate, o rotte addirittura. Certo, gli specchi non riflettevano più granché. Certo, la cinghia con cui tirar su la serranda in legno massiccio era lisa e sul punto di cedere, e certo, i listelli di quella serranda non serravano più granché, sbilenchi com’erano. Certo, la testiera in pelle lavorazione capitonné aveva visto troppe storie senza che nessuno la consolasse un po’ per conservare la brillantezza del bianco che si vorrebbe. Certo, il pavimento in quadrotti di granito multicolore avrebbero avuto bisogno di un bel trattamento per ricordare gli anni belli. Certo, la ringhiera liberty del balconcino aveva ampie aree colpite dalla ruggine…

MA CAZZO, lì tutto SAPEVA DI GRAND HOTEL! Era meraviglioso. Quella notte dormii con Fellini, in pratica, lo sentii lì con me.

Visitai poi tutti gli altri ambienti, e il ristorante che stava andando in malora, ormai trasformato in un freddo ambiente di pasti a buffet su vassoi raggelanti in acciaio che avresti senza stupore notato tali e quali nella sala operatoria dell’ospedale.

Cominciai a frugare negli archivi e negli sgabuzzini: mobili accatastati, suppellettili, tutto rigorosamente in uno stile così snobisticamente spurio, tra il liberty e l’art déco ma tutto con quell’inconfondibile tocco di provincia che li rendeva meno seriosi, ironici nella loro materialità esagerata.
E soprattutto scovai quello che a me parve il Sacro Graal, da cui trassi ispirazione definitiva per la mia proposta ai proprietari: un set di cancelleria da camera, con cartellina, carta e busta da lettera, dépliant pubblicitario. E anche un set di confezioni per accessori da bagno: le scatoline della minisaponetta e della cuffia per signora, quella per lo shampoo e quella per il bagnoschiuma, e la scatolina per lo spazzolino col minidentifricio.
Embè?, vi starete chiedendo. Embè: su tutte queste cose, fatte in cartoncino bianco, la decorazione era costituita da *disegni originali fatti da Federico Fellini per il Grand Hotel*, probabilmente in cambio di parecchie notti passate lì a scrocco e in compagnia.

Tornai a casa, avevo l’ispirazione giusta, e misi in fila per iscritto le mie proposte. All’incontro di presentazione ero eccitatissimo, avevo le idee chiare su tutto.
Il Grand Hotel di Rimini doveva SUDARE FELLINI da ogni poro. Quel Fellini ormai diventato mito per ogni Americano. Quel Fellini ormai divento mito e archetipo anche per chi non ne ha mai visto un film. Quel Fellini che si è portato dietro Rimini e la sua Riminesità in ogni sua opera. Di cos’altro parlare al Grand Hotel di Rimini?

La hall andava ripensata, a partire dal percorso esterno che vi conduceva, perché l’ospite in arrivo percorresse il suo Red Carpet, ed entrando si sentisse su un set, anzi no: sul set di Fellini, grazie agli arredi alle immagini alle foto. Le divise del personale ad ogni livello sarebbero state ispirate nel taglio e nei colori a Fellini e ai suoi disegni. Perfino il linguaggio sarebbe stato cinematografico. E le camere avrebbero dovuto essere “camerini”, per ospitare l’artista nel momento della sua privacy. Mentre negli spazi comuni tutto sarebbe stato uno spettacolo esagerato. Il ristorante sarebbe dovuto diventare un luogo di culto del piacere, della ricchezza, dell’abbondanza. Avevo perfino individuato lo chef che avrebbero dovuto assumere: un cuoco mio amico che oggi è riconosciuto tra i migliori d’Italia e del mondo, all’epoca giovanissimo, che io stimavo molto per le sue qualità di cuoco, ma che aveva un nome, un nome vero, non un nome d’arte, che più felliniano di così non avrebbe saputo inventarlo neanche Fellini: Ciccio Sultano! E il ristorante si sarebbe chiamato “La Gradisca”: Ciccio Sultano chef alla Gradisca. Chi non avrebbe sognato di cenare lì almeno una volta nella vita?

Tre ore durò la mia presentazione, tra racconti spiegazioni immagini bozzetti. Tutti erano col fiato sospeso nella sala. Al termine attaccarono a guardarsi tra di loro. Il socio mio amico, riminese, era visibilmente commosso. L’altro, il socio cremonese dal nome assai felliniano anche lui, Casto, un po’ spaesato vagava con gli occhi a destra e a manca per capire se quel che aveva ascoltato era una cosa meravigliosa o una stronzata.

Fu il nuovo direttore generale appena “strappato” alla catena alberghiera multinazionale a rompere il ghiaccio: “CreTo che qVeste Kose Vanno Pene a Las Vegaz, noi qVi doPPiamo proTure fatturato e ci Konviene ristrutturare tutto Hotel per funzionalità KonKressi e KranTi Kruppi, con prezzi più Passi, altro che Cinema!”.

Non aveva rotto il ghiaccio: con le sue parole ne aveva prodotto tanto da riempire la stanza. Casto, il socio cremasco, guardava interrogativo il socio riminese mio amico, il socio mio amico guardava interrogativo e un po’ terrorizzato me.
Presi a parlare dopo un buon minuto di silenzio: “Le cose camminano con le gambe delle persone. Se la mia proposta vi piace, il primo intervento da fare è licenziare subito il vostro direttore generale.” E me ne andai.

Non si fecero più vivi, neanche il mio amico che credo si sentirebbe un po’ in imbarazzo nell’incontrarmi. E io, ogni volta che passo di lì, ogni volta che vedo il Grand Hotel da lontano, ogni volta che ne sento parlare, mi immagino quella suite, rimessa a nuovo, come il camerino di lusso della primadonna più viziata del mondo del cinema, e mi vedo con Fellini al tavolo del Gradisca, con Ciccio Sultano che ci serve le sue ghiottissime preparazioni, mentre noi ridacchiamo un po’ di nascosto di tutto quel lusso meravigliosamente esagerato, di quello che è possibile immaginare solo in un film.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE