CINA E GIAPPONE NEGLI ANNI TRENTA CON GLI OCCHI DI UN MARINAIO ITALIANO

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Il viaggio in Estremo Oriente dell’incrociatore Montecuccoli. Di Carla Casazza

Industrializzazione avanzata e tradizioni ataviche, fascino coloniale e nazionalismi: l’Estremo Oriente degli anni Trenta è un coacervo di contraddizioni e mistero, magia e seduzione, soprattutto per un osservatore occidentale. Somma povertà e alcune delle metropoli più moderne dell’epoca, scontro di culture e di ideologie politiche, desiderio di rivalsa sulle nazioni che hanno dominato per secoli ma anche volontà di imitazione dell’Europa.
In questo incredibile scenario l’equipaggio dell’Incrociatore della Marina Italiana Raimondo Montecuccoli si trovò a compiere una missione durata 16 mesi, tra il 1937 e il 1938, periodo in cui percorse 50.000 miglia, toccando 31 porti diversi. Ho avuto la fortuna di ascoltare il racconto del viaggio da uno dei membri dell’equipaggio, mio nonno, il Capo Elettricista di terza classe Aroldo Sabbadin.
Così ho deciso di scrivere un libro, Montecuccoli 1938–38. Viaggio in Estremo Oriente, pubblicato nel 2006 da Bacchilega Editore. Il lavoro ha richiesto anni di ricerche, ho raccolto testimonianze di altri marinai e ho potuto attingere alle cronache dei numerosi giornali locali inglesi, francesi e giapponesi dell’epoca che mio nonno aveva conservato. È stato come compiere un emozionante viaggio nel tempo.

Quando nel 1937 i giapponesi invasero la Cina, si concretizzò il rischio che dalla loro concessione di Shanghai essi si muovessero per occupare le vicine concessioni Internazionale e Francese. Per evitare che ciò avvenisse le potenze occidentali, che già avevano nella zona piccole unità da guerra e navi fluviali, inviarono a ulteriore rinforzo unità più importanti, come gli incrociatori.
Per questo venne mandato in missione il Montecuccoli che, assieme alle altre forze militari occidentali, si sarebbe limitato a salvaguardare gli italiani presenti nella concessione di Shanghai, ma soprattutto gli interessi economici che erano anche uno dei principali motivi del conflitto: forte della sconfitta della Russia nel 1905, il Giappone era da decenni impegnato in una massiccia politica espansionistica in buona parte dell’Asia, fino ai confini con l’India, che non si era arrestata nemmeno con la crisi mondiale del ’29. Il centro dell’economia asiatica in quegli anni era la Cina, oggetto di investimenti e grandi interessi anche da parte di USA e Gran Bretagna, mentre la stella della Francia, che aveva tenuto l’Indocina col pugno di ferro, stava tramontando e quella dei Paesi Bassi era ormai bruciata.
La posizione dell’equipaggio italiano — in questa missione — era assai delicata perché, benché il patto tripartito tra Germania Giappone e Italia venisse sottoscritto solo nel 1940, il governo fascista aveva dato al comandante della nave Da Zara indicazioni precise di nippofilia a oltranza. Questo significava entrare nella Shanghai assediata e bombardata dai giapponesi come alleati dei “nemici” e allo stesso tempo presidiare la concessione Internazionale anche a difesa degli stessi Giapponesi. Di fatto l’intervento italiano, come quello di altre nazioni europee e degli USA, salvò tanti occidentali ma anche tanti cinesi.
Quando il Montecuccoli giunse a Shanghai, nonostante la guerra avesse già coinvolto la città, la vita mondana, sociale, economica di europei e cinesi benestanti proseguiva indifferente con l’aggiunta del “brivido” di qualche bombardamento e combattimento, poiché la zona internazionale e la concessione francese sembravano un’isola felice in confronto al resto della città dove la violenza della guerra si stava lasciando alle spalle rovine e macerie.
Nel 1937 Shanghai era la sesta città più grande del mondo dopo Londra, Berlino, New York, Chicago e Tokyo con 3.350.570 abitanti Una città meravigliosa e sconvolgente, fatta di missioni, ospedali e bordelli, vitale, vibrante, vivace; stridente, turbolenta, risplendente.
Era la più cosmopolita città del mondo dove vivevano persone di 48 nazionalità diverse.
A Shanghai si poteva trovare merce di tutti i tipi, legale e non: anatre laccate e uova salate, preziose sete e giade, lingerie e argento, auto moderne e potenti.
La prostituzione maschile e femminile proliferava. Era il più grande mercato di schiave bambine, il più grande centro di smercio di armi e droghe dell’Asia.
Si poteva scegliere tra qualsiasi tipo di svago: corse di cavalli e cani, lo Jai alai (sorta di pelota basca) e cabaret, tè e cene danzanti, il cosmopolita e sofisticato French Club, il dignitoso e formale Country Club, scommesse, teatro, cinema. Attrazioni di ogni tipo e provenienza: hula awaiana, mazurka russa, apache parigini, musicisti neri, acrobati siberiani, balletti londinesi, jazz americano, i carioca, il tango, le compiacenti dancing hostess cinesi, giapponesi e russe.
Aveva i più grandi grattacieli del mondo dopo gli USA e i vigili del fuoco più moderni e attrezzati del pianeta. Era detta la “Parigi dell’Est” ma anche la “puttana dell’Asia”. Era il meglio e il peggio di qualsiasi cosa.
Grazie ai lavori di ampliamento e ristrutturazione svolti tra il 1906 e il 1910, il porto della città era divenuto uno dei più avanzati al mondo. Nella concessione Internazionale era stata introdotta l’erogazione dell’acqua corrente tra il 1882 e il 1883, nello stesso anno fu inaugurata l’illuminazione elettrica.
Nel periodo di maggiore splendore, tra il 1919 e il 1937, Shanghai come la prima “Zona Economica Speciale” della Cina, fu il centro nevralgico degli interessi inglesi, giapponesi, francesi e americani in Asia.
Questa grande mescolanza di interessi, razze e culture implicava barriere culturali e chiusure tra le varie comunità, ma non solo nel caso degli stranieri poiché nei quartieri cinesi convivevano gruppi provenienti da tutte le regioni del paese, divisi da abitudini e dialetti diversi.
La convivenza non era sempre facile ma sicuramente questo cosmopolitismo contribuì ad alimentare una cultura ricca e assolutamente unica.
Vennero coniati nuovi termini per indicare gli abitanti occidentali della città, i cosiddetti shanghailanders, o le nuove mode che nascevano continuamente influenzando non solo l’abbigliamento ma anche le abitudini, l’arte, la società: era modeng tutto ciò che di più moderno e innovativo proveniva da Shanghai.
Vi era un termine anche per indicare i residenti cinesi che avevano assimilato abitudini, abiti e la lingua straniera combinandoli con la cultura e le tradizioni orientali: si chiamavano Yangjingbang i cinesi di Shanghai che parlavano, pensavano e si vestivano in un modo singolarissimo che mescolava Occidente e Oriente. Il termine prendeva il nome dal ruscello che separava la concessione internazionale da quella francese, divenuto poi Avenue Edward VII e successivamente Yan’an Lu. Proprio qui nacque il cinema cinese con la realizzazione del primo cortometraggio The Difficult Couple; negli anni Trenta Shanghai era la patria dell’industria cinematografica nazionale che poi confluì nel cinema di Hong Kong.
La zona più ricca e bella del Settlement — la concessione Internazionale — era il Bund, la più famosa e spettacolare strada dell’Asia. Passeggiando lungo il Bund in questi anni si potevano incontrare auto lussuose con cinesi arricchiti accompagnati dai loro autisti sikh, giovani donne dal fascino esotico avvolte nei loro cheongsam — la versione occidentalizzata del classico abito cinese — che nelle terrazze degli hotel fumavano sigarette verdi e bevevano crème de menthe, frettolosi uomini d’affari occidentali che non lasciavano mai la concessione Internazionale o quella Francese per zone meno sicure e non protette dal diritto all’extraterritorialità. Sui marciapiedi del Bund sostavano sciami di mendicanti, rannicchiati negli androni in attesa di qualche moneta, mentre un odore singolare aleggiava su questo miscuglio di civiltà: pesce, rifiuti, fumo di carbone, mescolato alle essenze profumate di belle signore e uomini azzimati.

Il Montecuccoli si trattenne a Shanghai fino all’inizio di gennaio del 1938: in quel periodo il fronte iniziò a spostarsi verso l’interno del paese poiché, in seguito alla presa di Nanchino e Shanghai, il governo cinese e le rappresentanze diplomatiche si erano trasferiti ad Hankow, sul medio corso dello Yangtze. Spostandosi l’azione nell’entroterra, l’incrociatore aveva assolto il proprio compito, quindi l’unità salpò alla volta di Sydney con l’ordine di presenziare alla celebrazione del 150° anniversario della fondazione dello stato del Nuovo Galles del Sud.
Poi il Montecuccoli rientrò a Shanghai — via Giacarta e Saigon — per effettuare i consueti rifornimenti; quindi proseguì la navigazione verso Yokoama e Aomori, con sosta a Nagasaki, Beppu e Kobe: in queste città l’accoglienza fu calorosa; a Yokohama venne organizzato un grande ricevimento danzante per ufficiali e sottufficiali; mentre le famiglie più rispettabili della città ospitarono ciascuna a casa propria un graduato offrendo un tradizionale pasto giapponese.
Lo “shock culturale” che ebbe l’equipaggio del Montecuccoli all’arrivo in Giappone fu molto più grande dello stupore sperimentato in Cina o nei porti di Giacata e Saigon. Se a Shanghai assaporarono la vita della metropoli tentacolare, nel laborioso Giappone si scontrarono con una cultura completamente diversa dalla propria. Benché in questi anni l’influsso europeo avesse già occidentalizzato molto il paese del Sol Levante, non si respirava la decadenza post coloniale di altre nazioni orientali, inoltre le classi della borghesia media e alta in generale erano ancorate al passato ed estremamente conservatrici.
Così, se le fanciulle di buona famiglia che furono assegnate a ufficiali e sottufficiali dell’equipaggio come dame al ballo di Yokohama, sorridono nelle foto alcune impeccabili nei loro kimono tradizionali, altre disinvolte in abiti da sera occidentali, durante tutte le cerimonie ufficiali gli italiani vennero accolti da giapponesi in abiti tradizionali, persino quando si trattò di una dimostrazione militare. Dopo settanta anni, gli ex marinai di cui ho raccolto le testimonianze, si ricordavano ancora nel dettaglio del pasto consumato ciascuno in una famiglia giapponese: strano menù, strani accessori sulla tavola (i vari “all you can eat” dovevano ancora fare scuola) e soprattutto strane abitudini che agli occhi di un italiano apparivano assurde o addirittura maleducate. Inoltre mentre a Shanghai praticamente tutti parlavano inglese o masticavano una qualche lingua europea, risultò complicatissimo comunicare con i giapponesi, a parte in qualche caso e nelle occasioni in cui era presente un interprete.
Ma il ricordo di ciò che videro e vissero quei giovani (erano quasi tutti poco più che ventenni) divenne indelebile perché furono testimoni di un Giappone che qualche anno dopo scomparve per sempre: Yokohama verrà completamente ricostruita in seguito ai gravissimi danni provocati dai bombardamenti americani nel 1945; Nagasaki, sede di fabbriche di armi e delle acciaierie della Mitsubishi, fu scelta come bersaglio della seconda bomba atomica, il 9 agosto 1945, tre giorni dopo Hiroshima.

L’incrociatore Montecuccoli, tornato in Cina, avrebbe dovuto rientrare in Italia passando per l’America e il canale di Panama circumnavigando il globo, ma la situazione politica internazionale impose di ripercorrere la rotta seguita nel viaggio di andata.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE