DISCORSO DEL BANCHETTO

IL COLOPHON
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11 min readDec 11, 2017

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Albert Camus narratore di dilemmi irrisolti. Un ritratto di Paolo Vachino

Correva l’anno 1957, sessant’anni fa quindi, quando un uomo non ancora quarantaquattrenne vinceva il premio Nobel per la Letteratura: Albert Camus. Troppo riduttivo definirlo écrivain (scrittore), come riportava il suo documento d’identità. Perché scriveva per il teatro, poco più che adolescente, nella sua terra d’origine, l’Algeria. Ma alla scrittura drammaturgica affiancava la passione per gli studi filosofici che lo porteranno a laurearsi proprio in questa disciplina. Amatore precoce si sposa ma ben presto conosce i tarli della vita matrimoniale divorziando, per risultare poi, come spesso accade, recidivo, risposandosi. Militante politico tra le fila del partito comunista algerino, più per fervore ancestrale antifascista che per adesione alle teorie marxiste, anche da questo divorzia per divergenze e contrasti interni, avvertendo una crescente faziosità, un essere radicalmente di parte e quindi non di tutti, paradosso inconciliabile alla sua idea di unità delle genti e dei popoli. Ritiene, pertanto, l’anarchismo un pensiero che si confà maggiormente alla sua personale filosofia dell’assurdo, trasfusa magistralmente nelle sue opere letterarie e nei suoi saggi. Conosce la paternità e allo stesso tempo una malattia incurabile all’epoca: la tubercolosi, che in qualche modo precocizza la sua vecchiaia. Ma non sarà questa malattia a condurlo alla morte, bensì un’uscita di strada di un’autovettura, condotta dal suo editore — Michel Gallimard -. La perfetta allegoria dell’impegno di tutta una vita: scrivere dell’assurdità e dell’alienazione del reale infetto proprio dall’insensatezza dell’uscita forzata di scena. Un’auto che, transitando in un tratto rettilineo e che per cause imprecisate, per l’assurdo incrociarsi della vita con l’ignoto e l’imprevisto, finisce contro un platano. L’editore muore sul colpo, mentre Camus perde coscienza a causa di molteplici ferite. Ma in qualche modo resiste ancora, rimane sino all’ultimo istante quell’uomo in rivolta soprattutto contro la morte. Erano i primi giorni dell’anno 1960. Faceva in tempo a vedere il Camerun proclamarsi indipendente dalla repubblica francese, ma non ad assistere alla proclamazione d’indipendenza dell’Algeria, avvenuta il 3 luglio del 1962. Ma cinque anni prima di questa proclamazione mancata, Camus veniva proclamato vincitore del prestigioso premio Nobel per la Letteratura e chiamato a tenere il famoso Discorso del banchetto, in cui è riuscito a condensare il senso di una vita intera. L’incipit di questa memorabile narrazione, su cosa sia stato per lui avvertire tutta la potenza e allo stesso tempo tutta la caducità di(dell’)essere, è simile a quello che sessant’anni dopo Bob Dylan rivolgerà alla medesima giuria rinnovata solo nei giurati: se il menestrello poeta ha scritto “se qualcuno mi avesse mai detto che potevo vincere il Premio Nobel, avrei pensato di avere le stesse probabilità di camminare sulla luna”, così Camus, allora: “nel ricevere la distinzione di cui la vostra libera Accademia ha voluto onorarmi, la mia gratitudine è stata tanto più profonda quanto più ho potuto misurare fino a che punto questo premio oltrepassi i miei meriti personali”. E la modestia espressa in questo attacco non è affatto uno strumento retorico per indurre una captatio benevolentiae negli uditori, ma un convincimento profondo e onesto riguardo se stesso: “non mi è stato possibile apprendere la vostra decisione senza compararne la risonanza a ciò che realmente sono. Un uomo che ancora può dirsi giovane, ricco solamente dei propri dubbi e di un’opera tuttora in cantiere, abituato a vivere nella solitudine del lavoro o nei ripari dell’amicizia”. Superbe due affermazioni. La prima. La ricchezza dei propri dubbi. Il magistero di porsi sempre nella condizione di chi onora la vita e il pensiero ponendo — incessantemente — domande. Camus è stato uno degli ultimi paladini dell’era della Domanda, prima che si entrasse a pieno titolo nell’epoca — oggi alla sua massima potenza ed espansione — della Risposta. Il combustibile del dubbio nel motore della ricerca perenne di un senso. La seconda. Il riparo dell’amicizia. Amicizia che è riparo, protezione; che è riparazione, medicamento, viatico alla guarigione. Infatti, il discorso esplicita ancora meglio questo sentimento: “non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai messa al di sopra di tutto. Se mi è necessaria è proprio perché non separa dalle persone e mi permette di vivere, tal quale sono, al livello di tutti”. Ecco affiorare la sua idea di unità delle genti, contro la radicalizzazione marxiana delle differenze di classe. Camus ritiene che l’arte non sia una gioia solitaria ma “un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini, offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie che ci accomunano”. La feroce consapevolezza che l’arte non è mai un fine ma soltanto un mezzo per com-muovere il maggior numero di uomini. Commuovere, che è non solo muovere insieme, ma farlo attraverso una scossa violenta al cervello e alle viscere. Attraverso un perturbamento. Quello che costringe l’artista “a non isolarsi: lo sottomette alla verità più umile e universale”. Trovo straordinario il richiamo a una verità allo stesso tempo umile e universale. Umile, che sta al suolo, in basso, che crea vita. Universale, participio passato di vertere: volgere lo sguardo dalla stessa parte (unus). La perturbazione di essere uno tra tanti, tra tutti, che causa un disorientamento: “l’artista si forgia in questo scambio perpetuo tra sé e gli altri, a metà strada tra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non può staccarsi”. Conciliare dentro ogni esistenza la lotta disequilibrante tra etica ed estetica. Antichi e irrisolti dilemmi filosofici. Ecco, una definizione della letteratura di Camus potrebbe proprio essere quella di narratore di dilemmi irrisolti. Dilemma è il doppio argomento, appunto. Bellezza e comunità. Individuo e società. Arte e vita. Vita e morte. Rifacendosi a Nietzsche, il partito da prendere in questo mondo “non può essere che quello di una società dove non regnerà più il giudice, ma il creatore, sia esso lavoratore o intellettuale”. L’anarchismo dell’assenza di un’istituzione giudicante e il comunismo equiparante della creatività, sia essa frutto di lavoro manuale o d’ingegno pensante. E in un discorso così altalenamente anelante a un’etica condivisa non poteva mancare il richiamo “ai difficili doveri” che dovrebbero ispirare chi aspira al ruolo di scrittore, il quale: “non può mettersi al servizio di quelli che fanno la storia: è al servizio di quelli che la subiscono”. E l’immagine proposta per incarnare questa dichiarazione netta di appartenenza è commovente: “il silenzio di un prigioniero sconosciuto, abbandonato alle umiliazioni all’altro capo del mondo, sarà sufficiente a fare uscire lo scrittore dal suo esilio, se non altro tutte le volte che, in mezzo ai privilegi della libertà, riuscirà a non dimenticare quel silenzio e saprà comunicarlo facendolo riecheggiare per tramite dell’arte”. Per tramite dell’arte. Arte come mezzo e mai come fine. Un ponte per dare voce a quelli che non ce l’hanno. A quelli che non fanno la storia ma la subiscono dimenticati da tutti. Secondo Camus lo scrittore vive un esilio. Esiliato dalla comunità quando s’incammina alla ricerca della bellezza; esiliato da quest’ultima quando cerca riparo nell’amicizia. “Nessuno di noi è abbastanza grande per una simile vocazione”. Il senso profondo del limite umano. Il limite di essere portavoce di una mancanza. Testimone di un’assenza. Essere scrittori significa portarsi sulle spalle due grandi oneri — senza i quali il mestiere di scrittore sarebbe disonorato — e, al contempo, due grandi onori: “il servizio della verità e della libertà”. L’ennesimo di-lemma. Doppio argomento. Verità e libertà. Due parole povere, svuotate continuamente di senso, per tracimazione, in quanto ogni essere umano ve ne versa dentro uno. Il proprio. Chi ha per vocazione di “riunire il maggior numero possibile di uomini, egli non può valersi della menzogna e della servitù che, laddove regnino, fanno proliferare le solitudini”. E la battaglia contro il proliferare delle solitudini può essere combattuta in un solo modo, per Camus: “quali che siano le nostre debolezze personali, la nobiltà del nostro mestiere affonderà sempre le radici in due impegni difficili da mantenere: il rifiuto di mentire su ciò che si sa, e la resistenza all’oppressione”. Altro dilemma, altro agone. Non mentire. Resistere. Proprio quello che Camus ha incarnato nella sua vita prima, e nelle sue opere, poi. Mentire è immaginarsi qualcosa di falso, non tanto rispetto all’oggettività del reale, ma alla coscienza di ciò che si crede di sapere. Dirsi senza tra-dirsi. Non permettere che nel dirsi si manifestino crepe, ferite, interstizi scivolosi o profondi crepacci. Dire tutto in forma coesa, in modo che non possa sorgere un tra(dirsi). La teoria einsteniana della relatività trasfusa nell’umano e nel letterario. Non mentire su ciò che ogni singolo sa, sente, ha appreso. Dopo avere resistito all’oppressione. E opprime tutto ciò che preme contro. Che ammassa. Che dopo avere aggregato, cinge e costringe. Dilemma tra individuo e società, solitudine e partecipazione. Partecipazione, forse uno dei sinonimi di libertà. Non è stato un filosofo a sostenerlo, ma un genio quale Giorgio Gaber. Non solo come recita il testo: “libertà è partecipazione”. Nei lavori preparatori al testo definitivo della canzone, la frase era: “la libertà è uno spazio di incidenza”. Per essere liberi bisogna avere a disposizione uno spazio, in cui potere incidere. Tagliare. Cioè, decidere. Cosa che agli oppressi viene negata. Lo scrittore è un ponte per traghettare gli oppressi e condurli in uno spazio in cui possano incidere, decidere. Partecipare alla scrittura della storia. Ma l’umiltà espressa da Camus in questo discorso, il suo senso del finito contro i deliri di onnipotenza dell’umanità, sono mutuati da una consapevolezza: “Siamo stati costretti a forgiare un’arte di vivere in tempi di catastrofe per nascere una seconda volta e lottare in seguito, a viso scoperto, contro l’istinto di morte all’opera nella nostra storia”. Aveva poco più di trent’anni Camus quando vengono sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e su Nagasaki. Ed è l’unico intellettuale europeo a scagliarsi contro questo abominio, questo orrore perpetuo. Dilemma aperto tra vita e morte. Alla morte di massa Camus risponde con il diventare padre di due gemelli. Uno per ciascuna città colpita a morte da una peste creata dall’uomo. Non sarà un caso che nemmeno due anni dopo da questo orribile massacro, da questo genocidio, Camus darà alle stampe una delle sue opere più potenti, emblema di un secolo ferito da un nuovo senso del tragico: La peste, appunto. L’istinto di morte che opera nella storia. Il finale di quest’opera è emblematico, fortemente suggestivo. Parla di un’allegria costantemente minacciata: “Sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”. Un mondo che ciclicamente è ri-minacciato dal male. Ogni generazione ha una battaglia da vivere, una resistenza da incarnare. E Camus aggiunge, proseguendo il suo discorso: “Ogni generazione, senza dubbio, si crede votata a rifare il mondo. La mia, tuttavia, sa che non lo rifarà. Ma il suo compito è forse più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si sfasci”. Fascismi e sfascismi. Altro dilemma camusiano. Altra consapevolezza legata all’umiltà. In piena guerra fredda, in cui le potenze mondiali si combattono a distanza, tutti gli uomini restano oppressi, schiacciati nell’incudine di due blocchi che rendono il mondo intero un’unica frontiera. E la frontiera è proprio quello spazio neutrale tra due confini che si scollano, prendono le distanze, non si confrontano più sul terreno, ma si affrontano negli arsenali. Ecco allora che la comunicazione deve diventare di massa, planetaria, deve informare le masse — per poterle meglio controllare — su cosa sta accadendo dietro alle quinte di due blocchi di mondo che schiacciano e comprimono anche la storia. Camus avverte e teme — insieme alla sua generazione — questa disintegrazione: “erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite, le tecniche impazzite, gli dèi morti e le ideologie estenuate, in cui poteri mediocri possono distruggere ogni cosa ma sono incapaci di convincere, in cui l’intelligenza si è abbassata al punto di farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, basandosi sulle sue sole negazioni, un po’ di quel che fa la dignità di vivere e di morire”. Quale il rimedio? “La nostra generazione sa che dovrebbe, in una sorta di folle corsa contro il tempo, restaurare tra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare nuovamente lavoro e cultura, e ricreare insieme a tutti gli uomini un’arca di alleanza”. Il compito è immenso, per Camus, che crede appunto in questa doppia scommessa di verità e di libertà, che dovrebbe condurre l’umanità quantomeno a morire senza lasciarsi pervadere dall’odio. Ed è proprio alla sua generazione impegnata in una battaglia così ardua ed estrema, finalizzata non tanto a vivere ma a sopravvivere alla peste di due blocchi opprimenti e oppressori contro milioni di oppressi, cui rimettere l’onore di un così prestigioso premio conferito a uno solo. Pensiero coerente con quanto espresso nel suo discorso, con la creatività — sia essa frutto del lavoro o dell’opera intellettuale — a governare il mondo al posto dei giudici, per natura, — super partes -. Non esistono parti che stanno sopra, ma partigiani che stanno nel mezzo di una guerra fredda, che per uno scrittore può essere combattuta attraverso il caldo dei suoi ideali di pace e di uguaglianza, trasformati sapientemente in storie. Il tramite dell’arte che prova a ricucire le ferite del mondo. Nobile, secondo Camus, il ruolo della scrittura e dello scrittore. Nobile perché in origine significa conoscere. Andare alla ricerca del vero. E per partire alla ricerca del vero occorre essere liberi. Avere a disposizione uno spazio di incidenza. Camus allora tenta una collocazione dello scrittore all’interno di questa spazialità. Innanzi tutto uno scrittore non deve godere “di altri titoli eccetto che quelli che condivide con i suoi compagni di lotta”. Nessun privilegio. Solo doveri. E qui Camus elenca ulteriori e infiniti dilemmi che ogni scrittore deve vivere sulla propria pelle. “Vulnerabile ma tenace”. Vulnus, la ferita e le ferite del mondo affrontate con tenacia. Tenace è colui che sa tenere e tiene perché sa temere, conosce la paura e i perturbamenti del male che può accadere. La letteratura, quindi, come strumento di resistenza contro la catastrofe, la disintegrazione del mondo. È integro, invece, tutto ciò che ci tocca. Ciò che non ci tocca più, non ci tange più, è disintegrato. Lo scrittore è, quindi, un integratore di mondi. Non sempre con la coerenza necessaria. “Ingiusto e appassionato di giustizia”. Giusto è conforme alla legge, ma quando la legge è contro lo spirito della vita, occorre essere ingiusti, essere in rivolta proprio contro le stesse leggi, rimanendo però appassionati di giustizia. “Costruttore della propria opera senza vergogna né orgoglio davanti agli occhi di tutti, sempre diviso tra il dolore e la bellezza, e determinato infine a trarre dalla sua duplice esistenza le creazioni che cerca ostinatamente di edificare in mezzo al moto distruttivo della storia”. Il dilemma di continuare a seminare vita attraverso la creazione di personaggi e di mondi che possano ribellarsi e diventare esempi edificanti in mezzo alla catastrofe dell’ultimo secolo del secondo millennio, e dei millenni a venire. Per Camus, resta l’impegno ostinato nell’affrontare “il mistero della verità” e “il pericolo della libertà”. “Quale scrittore oserebbe, in buona coscienza, farsi predicatore di virtù? Quanto a me, bisogna dire un’altra volta che non so niente di tutto questo”. Ecco che nel finale del discorso del banchetto riemergono i temi che ne avevano dato l’avvio. L’umiltà di chi riceve con stupore un premio senza comprenderne fino in fondo i meriti, lacerato dalla doppia natura di artista che gode del privilegio di una solitudine creativa e dalla nostalgia di essere uomo tra uomini, inseparato e inseparabile dalle altre persone. E di questa seconda natura tesse le lodi: “Non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera nella quale sono cresciuto”. Nostalgia che non giustifica ma spiega errori e mancanze, che “mi hanno aiutato a comprendere meglio il mio mestiere”. Mestiere non solo di scrittore, ma soprattutto di uomo: “mi aiuta ancora oggi a tenermi ciecamente vicino a tutti quegli uomini silenziosi che non sopportano, nel mondo, la vita che per loro è fatta del ricordo o del ritorno di brevi e libere gioie”. Vicino a tutti coloro “che, combattendo la stessa battaglia, non hanno ricevuto privilegio alcuno, ma hanno conosciuto, al contrario, sventura e persecuzione”. Il discorso si chiude nella forma più alta e più laica cui l’umano possa tendere. Una promessa. Promettere. Mandare avanti. Non rinunciare alla marcia. Mettere in vista. Assicurare. Dare parola: “farvi pubblicamente, come testimonianza personale di gratitudine, la stessa antica promessa di fedeltà che ogni vero artista, ogni giorno fa a se stesso, in silenzio”. Quindi, di continuare a dare parola all’umanità oppressa.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE