DUE TIRI di Stefano Lunedei

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[Bookstones Edizioni]

Lo scrittore riminese Stefano Lunedei ha dato alle stampe il suo primo romanzo dal titolo Due Tiri, pubblicato dalla casa editrice — anch’essa riminese — Bookstones, nel giugno 2018 per la collana Spifferi. La parabola artistica dell’autore trae origine dalla poesia. Stefano ha pubblicato quattro splendide raccolte di versi che — già a partire dai titoli — ne segnalano l’originalità: Graffi di lune (2000), Piacere imperfetto (2001), Un nudo pugnale (2005), e nel 2012 solovolinuovi. Nel 2015 esordisce in narrativa con un libro di racconti: Come cinque stagioni. E poi giunge al romanzo. Dal centometrismo poetico, passando per il mezzofondo del racconto, al maratonetismo della prosa. Due Tiri è il soprannome del protagonista di questa storia, apprezzabilmente lontana dal senzazionalismo-ombelicale che caratterizza tanta nostra letteratura italiana (non solo) contemporanea. Un soprannome è qualcosa in più del nome. È la filigrana nascosta — visibile solo in controluce — che rende unico un essere umano. È il suo secondo battesimo. Quello della strada. Patrizio è il nome del protagonista. Che diventa però Due Tiri per la sua ostinata voglia di giocare a basket con gli amici, manifestantesi in persecutorie telefonate non appena finiti i compiti di scuola: “Ciao, andiamo a fare due tiri?”. La seconda vita del protagonista gli affibbia un altro soprannome: Scia. Nella nuova compagnia di adolescenti lui arrivava sempre dopo i capi. Così era entrato nel vortice competitivo del branco, pronto a varcare anche i confini della legalità pur di dimostrare adeguatezza d’appartenenza. “Dopo alcuni anni, con grande fatica, riuscì a evadere da quella palude mefitica e a sopprimere Scia per sempre”. La terza vita è l’approdo all’universo universitario. “Senza più vincoli della famiglia e degli insegnanti Due Tiri era quasi intossicato dalla libertà, come un uomo di pianura catapultato sulle Ande”. Stefano Lunedei racconta una storia fornendo — volutamente — minime ed esili coordinate spazio temporali. I pochi edifici descritti, — la piazza centrale con i portici, il teatro sormontato da un orologio, la distanza dal centro al mare non più di cinque minuti a piedi, — suggerirebbero Rimini. Ma prontamente il depistaggio dell’autore. Si tratta di un paese. Non ci sono date. Né personaggi storici. Le lancette della Storia sono ferme. Tocca al lettore compiere il miracolo cui Stefano si riferisce parlando di poesia: “È un miracolo ogni volta, un evento che richiede la presenza di due soggetti ‘accesi’, lo scrittore e il lettore, e le parole s’incendiano”. Quando il lettore riesce a incendiare il fienile della storia narrata, il calore che ne viene sprigionato ne è il suo senso più profondo, latebroso, intimo. Allora si comprende che gli intossicati di libertà sono i ragazzi appartenenti a una generazione nata negli anni in cui si sarebbe voluta la fantasia al potere. Troppo piccoli per partecipare all’ondata rivoluzionaria, sono rimasti portatori (mal?)sani di quell’inebriatura collettiva, sperimentando sulla loro pelle non tanto la fantasia al potere ma il potere della fantasia. Un’altra forma d’intossicazione, oltre a quella della libertà. Tossico ha un etimo meraviglioso. Salmoneggiando all’origine della storia di questa parola, si scopre che non vuol solo dire distruzione, consumo di morte, ma un certo di tipo di legno, per un certo tipo di freccia, per un certo tipo di arco. Che scaglia frecce avvelenate. Questo accade nella terza vita di Due Tiri, non più Due Tiri, non più Scia, ma Triz, estrapolato dal nome di battesimo (Patrizio) e per assonanza con il tris d’assi. Proprio così. “Iniziò un periodo frenetico, dove l’ebbrezza per l’anarchia e le nuove compagnie generarono un cocktail devastante”. L’intossicazione di libertà che sfocia nel vizio del gioco d’azzardo e dal suo più prossimo e infelice corollario. La droga. Quando la vita scaglia frecce avvelenate a tradimento (della stessa) uscirne vivi è molto difficile. Ma Due Tiri, pur pagando un prezzo molto alto, ci riesce. Chiude anche questo terzo capitolo. E comincia il tempo supplementare della vita. La svolta. La ri-volta verso se stessi. Stefano Lunedei ha scritto un libro sulla seconda possibilità. La seconda scelta. Un laico re-surgere. Letteralmente: un ri-sollevarsi. Rimettersi in piedi dopo essere stati disarcionati dal cavallo della vita. Quelli che Erri De Luca definisce ‘gli invincibili’, che non possono essere vinti non tanto perché sempre vincitori, ma per l’indomitezza che li rimette ogni volta in piedi dopo essere stati (ab)battuti. Forse, già nel soprannome che resiste al logorio degli anni — Due Tiri — c’è traccia di questa opportunità. Il primo tiro. Un secondo. Due Tiri. La vita. E questa vita seconda, il secondo tiro, ha per titolo: Barbone. “All’inizio lo avevano guardato come un pericoloso barbone, per via dell’onnipresente bottiglia di birra, ma poi avevano capito che era inoffensivo, non chiedeva l’elemosina ed era gentile con le persone. Divenne benvoluto da tutti e lo consideravano un giovane di cultura che stava attraversando un brutto periodo, forse un po’ bizzarro — dava del lei anche ai bambini”. Da questo punto in poi la storia s’impenna. Si avverte il cambio di marcia. Si sente che la voce narrante vede nella figura del barbone non il fallimento ma il compimento degli ideali più alti di un’intera generazione. Avere rotto con tutti i cascami borghesi: la casa, il posto fisso, lo stipendio, la pensione, la famiglia, la chiesa, il tempo libero, l’automobile. Abitare la strada. Senza vincoli. Legami. Persino senza un nome. “Come ti chiami? Niente più nomi per me. Non l’avevo potuto scegliere, e le imposizioni non mi sono mai piaciute”. E come in ogni grande storia, a fianco del protagonista non può mancare il deuteragonista. L’antagonista. “Margherita, detta Meg, l’unica vegetariana del paese, una mini donna che aveva varcato i quaranta, con i capelli neri e corti e occhi neri e forti”. Tra i due nascerà una passione dialogica. Mai ideologica. Il piacere di conversare. Scorribande nelle reciproche interiorità. Per scoprire da quale luogo si giunge. Verso quale luogo si va. Così, lentamente, nell’alveo delle parole scambiate davanti a un bicchiere di vino o di birra, fanno capolino i grandi temi dell’umano. Il silenzio. Il tempo. La morte. La paura. Il suicidio. L’amicizia. La memoria. E a forza di parlare si scopre che Meg scrive poesie. E Due Tiri — a sua volta — un diario fatto di flussi di coscienza, di appunti per storie bizzarre e stravaganti. In mezzo a tutto questo, qualche rigurgito familiare, qualche conto in sospeso che — purtroppo, o per fortuna — andava regolato. Ci sono pagine straordinarie che hanno per tema Dio. La sua irraggiungibilità più che la sua grandezza. Ma l’amore resta al centro delle parole. Dei gesti. È una sostanza midollare. Appartiene alla colonna vertebrale degli esseri umani. Creature in cerca di amore da esportare più che da importare. Da consegnare a qualcuno che ne sappia fare tesoro. Si parlerà di “donna-termometro, di gettone dell’innamoramento”, di convivenza che “invece è una discesa in bob a due. C’è la spinta iniziale poi i due compagni si gettano dentro all’abitacolo, con il pilota che salta davanti. L’altro, il frenatore, deve assecondare le traiettorie del primo, soprattutto quando arrivano le curve paraboliche, e lì sta la sua bravura, nel frenare solo quando è indispensabile”. Non squillano telefoni cellulari, in questa storia. Ma ancora campanelli. Trilli di emozioni che necessitano ancora di tempi lunghi per manifestarsi. L’equilibrio discorsivo tra Due Tiri e Meg è puntellato da una terza figura. Mario. Amico di entrambi. Colui che mantiene una sana equivicinanza tra i due. Ne raccoglie gli sfoghi. Una sorta di pronipote del Grillo Parlante collodiano. Che invece di consigliare agli amici le scelte giuste, preferisce raccontare quelle che lui ha sbagliato. Una sorta di omeopatia guarente degli affetti. Stefano Lunedei ci consegna una storia intima e universale, dove il salvifico dell’amicizia non è sufficiente a riparare fino in fondo le vite degli altri. Destinate a compromettersi ancora. Duplice compromesso per il protagonista. Nel senso di correre nuovi rischi, mettersi nuovamente in pericolo. E nel senso meraviglioso e nobile di promettere-con, promettere insieme. Insieme a Meg. La storia narrata può essere così riassunta dall’autore stesso, estraendo una locuzione dall’incipit del romanzo: “Sembrava il posto perfetto per il secondo atto della tragicommedia”. Tragico e comico che a forza di vorticare diventano una cosa sola. Stefano Lunedei ha insegnato per vent’anni inglese nelle scuole superiori. Da quella seconda lingua ha mutuato e appreso l’arte dell’understatement. La capacità di minimizzare le catastrofi e di magnificare il banale. Essendo egli un incomparabile magister ironiae. La capacità di rendere dissimile il simile. Costringendo il lettore a una caccia al tesoro nascosto nel testo, nello stile, nelle parole, per individuare cosa si annidi dietro il velo colorato di una descrizione. In una delle poesie che Meg recita a Due Tiri, i primi versi sono: Ci sarà un nodo / e qualcuno lo scioglierà. Qualcosa cui afferrarsi per salvarsi. Qualcuno che proverà a sciogliere il nodo per lasciare libero il volo. Come libero il precipitare. È una storia che guarda avanti, senza il patetico ribollire delle nostalgie ‘di come eravamo’. Semmai c’è il desiderio struggente di conoscere ciò che non siamo ancora stati. “Due Tiri rise nuovamente. Forse avete ragione, voi siete una poetessa e non c’è posto per un altro creatore. Siete la fautrice del vostro universo e avete scelto la strada più difficile: creare e non procreare — che ne sono capaci tutti”.

Paolo Vachino

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE