IL COLOPHON
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6 min readApr 1, 2016

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ELVIRA SELLERIO, PALERMO E QUELLA FOLLIA SICILIANA DI CREDERSI DIVERSI E MIGLIORI

Così una casa editrice si è fatta portavoce di una terra di Angela De Rubeis

Io sono siciliana. Un giorno, avevo sei anni, chiesi a mia nonna — una donna colta con la passione per l’opera e per la cipria — perché tutti dicessero che Tanuccia fosse disonorata e come fosse possibile che suo padre girasse la faccia quando l’incrociava per strada, facendo finta che lei non fosse niente. Allora lei mi disse: «Vieni e assettati che ti racconto la storia della Baronessa di Carini».
Così seppi di Laura Lanza di Trabia, figlia primogenita del conte Cesare Lanza, data in sposa a quattordici anni a don Vincenzo II La Grua Talamanca, in un matrimonio combinato. Seppi del suo amore clandestino con il cugino del marito, Ludovico Vernagallo; e della morte di entrambi. Era stato il padre e non il marito cornuto a uccidere gli amanti, perché solo così si poteva lavare l’onore della donna e, di conseguenza, anche quello del suo cognome. Laura Lanza venne colpita dritta al cuore con un pugnale; questo il fatto di cronaca, poi i cantastorie hanno fatto il resto.
Così capii. Grazie alla storia della Baronessa di Carini capii quello che stava accadendo a Tanuccia, la mia vicina di casa. Per onore del suo cognome il padre doveva comportarsi come se lei non fosse mai nata. Di morti, ammazzati per onore, non era più possibile farne negli anni Ottanta del Novecento, per cui il disprezzo era l’unica arma a disposizione dell’uomo.
Non so perché ma questo è quello che accade. Accade che per far comprendere la Sicilia si raccontano storie di Sicilia, come se per spiegare ai bambini questo mondo di contraddizioni profonde non si possa far altro che narrare una storia. Continuai con le scolastiche rappresentazioni teatrali delle novelle di Luigi Pirandello e poi fui abbastanza grande per stare in mezzo ai siciliani.
Ma non è forse così che si è sempre fatto? La favola usata per interpretare le cose che non è possibile capire in altro modo?
Starò forse peccando di quel peccato che Giuseppe Maria Tomasi di Lampedusa identifica come la “follia siciliana”? La follia, cioè, di credersi diversi e migliori?
Un po’ e un po’. Perché se un poco è vero che i siciliani sono portatori sani di questo peccato originale è anche vero che stiamo parlando di una regione che potremmo definire perlomeno contraddittoria.
La narrazione di questa terra che educa i suoi figli a pane e occhi aperti è passata dal 1969 nelle mani della casa editrice Sellerio, che da quasi cinquant’anni racconta storie siciliane ma soprattutto “tipi” siciliani, facendoli conoscere al “continente”, meglio noto come il resto d’Italia.
La casa editrice è stata fondata da Elvira ed Enzo Sellerio con lo zampino di Leonardo Sciascia e Antonino Buttitta, antropologo ma soprattutto poeta troppo poco conosciuto; anche se l’anima di tutto si è rivelata, nel tempo, Elvira Sellerio. Di lei si dice che è stata la donna che è riuscita a fare l’impresa, l’impresa di emergere in un mondo tutto al maschile, ma soprattutto l’impresa di far diventare la sua, una delle case editrici indipendenti più importanti del panorama letterario italiano.
Elvira Sellerio ha incontrato gli autori che ha pubblicato, ci ha mangiato, bevuto, parlato e rimproverato.
“Una cosa che mi colpiva di Elvira erano i suoi giudizi sui libri che aveva pubblicato e su quelli che dovevano ancora pubblicare. Era sempre di una lucidità estrema, ma proprio per questo il suo vocabolario in queste occasioni sembrava farsi povero. I suoi giudizi si condensavano al massimo in una decina di parole. Ma ogni parola aveva uno straordinario peso-massa”. Lo scrive Andrea Camilleri, nel raccontare (La memoria di Elvira, Sellerio) il suo rapporto con l’editrice, rapporto schietto e sincero.
Dice di essere stata l’unica persona ad avergli impartito una lezione di scrittura: “Mi disse dei due principali rischi che io correvo. Il primo era che la mia scrittura, costituita dalla commistione di lingua e dialetto, potesse non nascere, in alcuni momenti, da una stretta necessità espressiva, e quindi cadere nella ripetizione, nella maniera, nell’effetto. Il secondo rischio era costituito da un eccesso di barocchismo nella costruzione della frase, dove il giusto dell’aggettivo colorato, della parola più ricercata, finissero per soffocare l’istintiva e naturale vocazione alla narrazione che c’era in me… Ho novant’anni e sono al termine della mia carriera. Posso dire con un certo orgoglio che la lezione di Elvira fu la prima ed unica lezione di scrittura nella mia vita e non l’ho dimenticata”.
Lei ha fatto con gli italiani, tutto quello che i siciliani fanno con i loro figli: raccontare delle storie di Sicilia per spiegare la Sicilia.
La sorpresa è stata che questi tipi siciliani sono piaciuti. È piaciuto Salvo Montalbano e il suo personalissimo senso di giustizia, sono piaciuti i suoi malumori e il suo rispetto per le cose semplici. Sono piaciuti i romanzi gialli in serie, con un commissario oppure un investigatore — più o meno improvvisato — che volume dopo volume rivive in un nuovo caso. Entra in questo filone la Trilogia di Palermo di Santo Piazzese (I delitti di via Medina-Sidonia, La doppia vita di M. Laurent e Il soffio della valanga) che ha il merito — a mio avviso — di trattare la mafia come un dato di fatto, alla stregua della temperatura calda e della bontà dei cannoli e delle cassatine.
Fuori dai confini siciliani, c’è Amedeo Consonni — l’ex tappezziere nato dalla penna del fiorentino Francesco Recami — che vive in una casa di ringhiera arredata con velluti, broccati e giornali: non c’è trafiletto di giornale che parli di un morto ammazzato che lui non conservi. Tutt’intorno ad Amedeo, la vita della casa di ringhiera stile “Una finestra sul cortile” con i vicini pronti a farsi gli affari degli altri e con l’idea che dietro ad ogni finestra ci possa essere una semplice vita come un vero mistero.
Ma torniamo alla Sicilia e alla ricerca di un passato da raccontare. È qui che la casa editrice palermitana dà il suo meglio, nella capacità di tenere bene a terra le sue radici, alimentandole.
Ed è così, sfogliando questo insolito catalogo, che ci si può imbattere in storie eccezionali, e spesso vere. Come quella di Francisca (Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile) che si ritrova, grazie al morso di una vipera, vedova e disperata; e non può far altro che travestirsi da uomo per continuare a lavorare sulla terra del barone Murso.
Come quella de Il falsario di Caltagirone, tal Paolo Ciulla pittore di professione che tra il 1920 e il 1922 riempì le case dei poveri di Catania con banconote false. Scoperto, venne processato in mezzo a una folla di disgraziati che lo acclamava come fosse il primo dei benefattori. L’uomo che volle opporsi al sistema con la sua idea di comunismo fatto in casa non fu capito e venne condannato. Morirà solo, nell’Albergo dei Poveri Invalidi di Caltagirone, nel 1931 dopo aver passato una vita fatta d’arte, rivoluzione, carcere e pare, anche, manicomio.
Ma ce ne sono tanti altri di personaggi che si muovono a cavallo tra la rivoluzione e l’impresa. In Di Concetta e le sue donne per esempio si parla del gruppo di donne che avviò la sezione femminile del Pci a Caltagirone e dei primi passi del femminismo in Sicilia. Tutte storie raccontate dalla poetessa Maria Attanasio.
Mi è piaciuto leggere di questi siciliani così come mi piacerebbe leggere di altre persone di cui ho solo sentito parlare: del catanese Peppe Pernacchia che negli anni Settanta si sedeva al suo banco scolastico — agli angoli delle strade di Catania — aspettando che qualcuno gli commissionasse una pernacchia da recapitare a casa di un povero malcapitato. Oppure di Peppuccio, il figlio di Fernando, che seguiva la banda del paese con una tromba muta, perché muto lo era pure lui e non era concepibile fare altrimenti.
La considerate ancora follia siciliana, quella follia di credersi diversi e migliori?

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE