FINNEGANS WAKE di James Joyce (traduzione di J. Rodolfo Wilcock)

IL COLOPHON
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[Giometti & Antonello]

Per i tipi della Giometti & Antonello, casa editrice maceratese singolare e ambiziosa — «non è più il tempo dell’editore come archivista, la cui funzione era di riempire le biblioteche di volumi in attesa di un lettore che, non importa quando, li avrebbe salvati dalla polvere. Oramai i magazzini digitali sono più che sufficienti. L’editore deve trovare il coraggio di riproporsi come guida» si legge nel loro programma — è stato pubblicato il Finnegans Wake, l’ultimo libro di James Joyce (1939), tradotto da J. Rodolfo Wilcock.
Romanzo cosmogonico, poema eroicomico in prosa, referto onirico, non si sa che altro cosa, il Finnegans Wake prese all’autore dell’Ulisse quindici anni di vita, dal 1923 al 1938. Prende spunto da una ballata tradizionale irlandese, il cui protagonista, Tim Finnegan, muratore, muore cadendo da un impalcatura. Mentre alla sua veglia funebre gli amici bevono alla sua memoria, Finnegan si risveglia — wake significa infatti veglia e risveglio, da cui una delle molteplici polisemie che caratterizzano l’intera opera fin dal titolo — e vorrebbe unirsi al brindisi, ma la moglie e gli amici gli intimano di stare al suo posto: nella bara. Ma riassumere il Finnegans Wake sarebbe impresa sciocca, quanto inutile. Rimando dunque a quanto di molto sensato, e saggiamente dimesso, scrive Wilcock nella nota introduttiva alla sua traduzione. Che poi traduzione non è proprio, da quello che ammette lo stesso Wilcock: «Essendo quest’opera quasi interamente scritta con parole inventate, di tre, di quattro, di cinque e persino sei sensi, la sua traduzione in una qualunque lingua è assolutamente impossibile. Abbiamo scelto soltanto i brani meno difficili, per dare al lettore una vaga idea del romanzo, avvertendo che però buona parte dei molteplici sensi del testo originale sono andati per forza perduti nella traduzione.»
Senza dubbio uno dei meriti di questa edizione maceratese del Finnegans è quella di aver messo insieme una bella squadra di mattissimi geni. Joyce, innanzitutto. Che chiude l’ampio cerchio tratteggiato a inizio Novecento coi Dubliners, passando nei gironi-journeys dell’Ulisse per terminare con quest’ultima opera enigmatica al punto da essere respingente. Poi Samuel Beckett, che provò a tradurre in francese il Finnegans e di cui si presenta un saggio del 1929: per avvicinarsi all’opera, allora ancora in progress, dell’amico Joyce, Beckett convoca Dante, Giordano Bruno e Giambattista Vico. Quindi J. Rodolfo Wilcock, traduttore, critico letterario, scrittore argentino naturalizzato italiano, che la prefazione di Edoardo Camurri, divertito, endorfinico elfo in questo bosco di geniacci irregolari, restituisce con efficaci tratti analogici e comparativi: «I mostri, ma anche i maestri, vanno sempre osservati mantenendosi in una posizione di sicurezza: gli spiriti affini, ed è questo il caso esatto di Wilcock e di Joyce, si salutano e si riconoscono giù di lontano. Chi ci è più vicino va tenuto a distanza. […] Rodolfo Wilcock era ingegnere come Gadda, e gli ingegneri sono creature candide e astute allo stesso tempo: da un certo punto di vista sono gli esseri più metafisici del mondo, dall’altra se ne vergognano. Sbuffano dinnanzi all’abisso e poi cercano di costruirci sopra una ferrovia. Gadda vedeva l’orrore, quello universale, dappertutto, anche in un piatto di gnocchi al gorgonzola, e ne era atterrito; Wilcock invece aveva sensibilità e ironie metafisiche più simili a quelle di Kafka.» Senza dimenticare, infine, il traduttore polacco del Finnegan’s Wake, Krzystof Bartnicki che ha ridotto, con un’opera di liofilizzazione — così la definisce il sempre più alchemico Camurri — , il testo di Joyce in «un enorme spartito musicale che aspetta soltanto di essere suonato».
Non so se sia proprio davvero così. E se ci siano orecchi musicali pronti a questa rivelazione. Di certo, come scrivono ancora Giometti & Antonello nel loro programma editoriale, questo Finnegans wilcockiano può a pieno titolo essere ascritto a «quei frammenti di scrittura che puntellano le rovine della moderna letteratura d’Occidente».
Dal mio modesto punto di vista questo volume si ripaga ampiamente dell’acquisto soltanto per la nota 2 della prefazione di Camurri. Vi si trova riportata una lettera di Joyce, dell’aprile 1939, scritta in triestino, a Livia Veneziani, moglie dell’amico Italo Svevo, a cui è ispirato il personaggio di Anna Livia Plurabelle: «Giovedì sarà pubblicado el mio libro a Londra e in Ameriga. Ze anca la festa de Santa Moniga se mi rigordo ben, al quatro. Moniga [cioè “mona”] son stato mi forse (La mi scusi, siora) che go messo disdoto ani de la mia vita a finir quel mostro de libro. Ma cossa La vol? Se nasse cussì. E, corpo de bigoli, ne go bastanza. Co ghe digo mi! Con doverosi ossequi mi segno devmo, James Joyce.»

Gino Cervi

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE