GRAND TOUR D’ITALIE

IL COLOPHON
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7 min readApr 17, 2018

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Miraggi Sette-Ottocenteschi nella penisola italica di Angelo Ricci

Una femmina non può partorire una creatura chimerica che vive di disperazione e solitudine e odio per l’intero creato, specialmente se questa chimera sanguinaria nutre se stessa tra le pagine di una forma narrativa come il romanzo, forma che forse vive da nemmeno due secoli, ma Mary Wollstonecraft Godwin partorisce comunque il suo moderno Prometeo a diciannove anni, contraddicendo le sentenze di primigeni critici letterari che rimpinguano gazzette inglesi nate da un paio di secoli in contemporanea presenza del monarchicida Cromwell e si amalgama in un coniugio scandaloso con il poeta Percy Bysshe Shelley, rinascendo come la Mary Shelley di Frankenstein, trasfigurandosi infine in dea apicale del romanzo horror, così come il Poe de I delitti della Rue Morgue si trasfigura in dio apicale del romanzo poliziesco (e Borges sorride lieto e ammiratore di entrambi), che, con il marito, a Lerici dà vita a un menage di droghe, pubbliche nudità, copulazioni forse anche incestuose, come i Rolling Stones in Exile in una Côte d’Azur incastonata probabilmente in un universo parallelo. Senza possibilità di impossibili comprensioni rimangono stolidamente basiti i pescatori analfabeti dell’allora piccolo villaggio del levante ligure, da poco sudditi del re sabaudo in una penisola postbonapartista e ora sanfedista e appena elargita agli Asburgo dal Congresso di Vienna e in cui Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica sconsiglia specialmente alle fanciulle la lettura di queste nuove diavolerie chiamate romanzi perché forieri di peccaminosi e umidi pensieri (e la penisola dovrà attendere il lacustre e meneghino Manzoni per affacciarsi al romanzo, dopo il tentativo epistolare di Foscolo). Percy Bysshe Shelley, coniuge di quella Mary ormai genialmente irretita dalle nuove narrazioni, muore inaspettatamente in un naufragio costiero e il suo corpo inanime viene posto su una pira nella distesa della spiaggia di Lerici e cosparso di oli aromatici, incenso e vino, come un eroe omerico morto in battaglia, e dato alle fiamme purificatrici in una epica cremazione mentre, poco prima, l’amico Edward John Trelawny ne estrae il cuore e lo dona alla dea dei moderni Prometei Mary Shelley. Anche Lord Byron partecipa alla granguignolesca cerimonia, giunto appositamente da Pisa dove è durevole ospite di nobildonne da lui virilmente erotizzate. Venezia, Firenze, Roma, Napoli, metropoli decadute, fortezze rinascimentali, tessere sparse di un mosaico geopolitico che è stato e forse non sarà mai più, paesaggi di un’arcadia metafisica dai tratti di incubo fascinoso ed enigmatico, reiterata e diffusa in tutta Europa nel profumato secolo XVIII dalle opere dei Rovinisti, pittori che traggono ispirazione da Giovanni Battista Piranesi, perpetuando della penisola italica l’immagine da fiaba spietata che penetra fin nelle pieghe più celate delle anime degli intellettuali del continente. Assiso al centro di una galassia pittorica, parallela nei tratti, al contempo decisi ed evanescenti, a quella futura di Maurits Cornelis Escher, Piranesi ritrae un mondo di rovine imperiali abbrancate da vegetazioni silenziose, circondate dalla totale assenza degli umani, che si stagliano in un’attesa eterna di nuovi visitatori le cui sembianze saranno certamente agghiaccianti come agghiaccianti sono gli anomali e onirici paesaggi delle vignette dei rebus che infatti affascinarono un Sigmund Freud agli albori della sua analisi psicoanalitica delle profondità dell’anima. Piranesi mette in scena le vestigia dell’impero romano ormai da secoli caduto, quasi a monito dell’avvento di un atroce nulla così come l’astronauta George Taylor ne Il pianeta delle scimmie è mortalmente ammonito dall’improvvisa e definitiva apparizione delle rovine ormai quasi sepolte della Statua della Libertà che annunciano la caduta di un altro impero ancora. Horace Walpole, fondatore settecentesco del romanzo gotico con il romanzo Il castello di Otranto (un altro britannonormannoanglosassone, un’altra estrema fascinazione per la penisola dipinta e propagandata dai Rovinisti europei come seducente visione onirica e angosciante), è letteralmente irretito da Piranesi, dalla sua geometrica angoscia, scrivendo di lui: “(…) ha immaginato scene… impensabili perfino nelle Indie. Costruisce palazzi sopra ponti, templi sui palazzi, scala il cielo con montagne di edifici”.
Se Piranesi crea un’arcadia da incubo trigonometrico richiamando in vita quel che rimane degli spettri dell’impero dei cesari, il germanico Johann Joachim Winckelmann, nato in quel barbarico Brandeburgo prossimo a diventare appendice occidentale di una Prussia di discipline militaresche e d’acciao, scende anch’egli nella penisola, obbedendo all’ormai diffuso e ineludibile richiamo della sua traslazione pittorica, per rimarcare invece la grandezza delle Grecia classica e si cala tra Roma e Napoli cercando scavi archeologici messi in atto da monarchie borboniche con le poche conoscenze a loro disposizione e, mentre vive un’esistenza che i posteri incoroneranno come quella del fondatore della moderna archeologia, viene assassinato a pugnalate da un ladro in cerca di monete d’oro o forse da un giovane amante tradito (probabilmente due maschere della stessa persona). Geometrica chiusura di una perfetta trama gotica sullo sfondo meravigliosamente orribile dei paesaggi cesellati da Giovanni Battista Piranesi.
Ma questo tardo barocco onirico e italico ha una sua fulminante e perdurante genesi in un barocco iniziale che è ibridato anch’esso dalla vulgata britannonormannoanglosassone e che delinea trame che si svolgono nella penisola intesa come luogo esotico elettivamente adatto in tutte le sue forme a ospitare narrazioni di gelosie fatali, di copulazioni clandestine, di teneri amori adolescenziali orrendamente tarpati da spade patrizie di nobiluomini crudeli. Nell’universo quantistico delle narrazioni siamo addirittura prima del Tempo di Planck del romanzo, prima ancora dell’immaginificamente e tonitruantemente delirante Cervantes il quale si pone a mezza strada tra le Chanson de geste e l’embrione del raccontar romanzando, borgesianamente intendendo il termine romanzo come meticciato di lingue latine e germaniche e celtiche che geopoliticamente al suo massimo grado si esprime nel medioevo, originando una Francia dal ricordo barbaro-germanico e in gran parte feudo inglese e un’Inghilterra tuttavia partorita dalla Francia e i cui sovrani più che inglesi si considerano invece nobili della romanza Aquitania. È dall’isola inglese, ai tempi ancora potenza secondaria in Europa, che l’uno o il trino o i molti che si celano dietro al nome di William Shakespeare ambientano trame che ancora non usano la solipsistica e interiore forma del romanzo, struttura narrativa compiutamente in successivo arrivo, ma che abbisognano della condivisa forma scenica e teatrale che, al pari della tragedia greca e romana, unisce attori e pubblico amalgamati nella inevitabile trascendenza della nemesi catartica e quasi terapeutica. Ben 15 su 37 dei capolavori teatrali del misterioso bardo di Stratford-upon-Avon sono ambientati in Italia probabilmente perché una sorta di internazionale dei teatranti condivideva canovacci di commedie che si trasmettevano oralmente da compagnia a compagnia, canovacci che originavano soprattutto dalla italica Commedia dell’Arte. Tragicommedie destinate a mettere alla berlina i vizi e le astuzie sia dei potenti che del plebei passano così attraverso la lente deformante britannonormannoanglosassone che ne ripartorisce visioni misteriche che forse ricadono nelle scheletriche architetture piranesiane e riprendono, una volta dipinte, la via dell’Europa con i Rovinisti, la cui visione si trasla poi nei primi e geniali tentativi di romanzo, gotico o horror che dir si voglia, che a loro volta diventano pietre miliari della piattaforma romanzo nella sua più definita struttura.
Ultimo, ma non certamente ultimo, viene lo scienziato delle passioni umane Johann Wolfgang von Goethe al cui I dolori del giovane Werther si ispira il Foscolo per il suo romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis, romanzo epistolare che apre la strada al romanzo italiano delineato poi compiutamente dal Manzoni. Il suo monumentale Viaggio in Italia è una sorta di summa definitiva del Grand Tour percorso dagli intellettuali europei del Sette-Ottocento. Goethe vuole perdersi tra contrade a lui sconosciute, dove il suo nome non significa nulla. Forse preconizzando la vicina mutazione quasi genetica con cui la Rivoluzione francese prima e Napoleone poi segneranno indelebilmente la politica e il pensiero europei, Goethe si immerge tra i nobili e i plebei, acquista opere d’arte, assiste a cerimonie religiose, visita città e villaggi, percorre strade polverose e mulattiere impossibili, interroga gentildonne e popolane, nobili e contadini. Viaggio in Italia è ormai scevro dalle influenze delle visioni oniriche e allucinate di Piranesi e dei Rovinisti, il piglio è quasi da report di antropologia culturale. Lo scienziato della parola si monda di tutto l’inconoscibile e tenta la catalogazione, il rendiconto, l’inventario. Ma ciò che rimane è sempre una mole di elementi che ancora riconducono al fascino di un sottotraccia allucinatorio e oniricamente inconoscibile.
Abbattuti gli Alberi della Libertà e disperse le armate napoleoniche, in epoca di Restaurazione imperante, di Ancien Régime e di Napoleone a Sant’Elena, a Milano appare Stendhal. Amante quasi carnale dell’Italia ci arriva per la seconda volta nel 1814 quando ormai gli Asburgo dominano direttamente o indirettamente tutta la penisola ed Eugenio di Beauharnais, deposto viceré napoleonico del Regno Italico e figliastro del Bonaparte, non segue la sorte da plotone d’esecuzione del maresciallo Murat ma, visti i suoi rapporti con diverse casate regnanti europee, il Congresso di Vienna (con l’articolo 64 del “Protocollo separato e segreto”) gli assegna come risarcimento per la sua inevitabile deposizione un appannaggio di 2300 tenute agricole e 137 palazzi urbani. Stendhal ambienta in Italia La Certosa di Parma e scrive saggi sulla musica e sulla pittura italiana e resoconti dei suoi viaggi lungo la penisola. Il suo vero nome è Henry Beyle ma usa lo pseudonimo di Stendhal che è il nome della città natale di Johann Joachim Winckelmann. È sepolto a Parigi al cimitero di Montmarte e sulla lapide della sua tomba c’è un epitaffio in lingua italiana: “Arrigo Beyle, milanese. Scrisse. Amò. Visse”.
Nel Novecento anche Joyce e Hemingway saranno in Italia. Ma non è più epoca di Grand Tour. La Lost Generation fa ormai base a Parigi tra le vulve erotiche delle donne di Henry Miller e le intossicazioni alcaloidali di Francis Scott-Fitzgerald.
La penisola è ormai da tempo la periferia dell’impero.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE