I DINOSAURI: UN RITORNO ACUSTICO, IN PAROLE E MUSICA

IL COLOPHON
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7 min readOct 5, 2016

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Intervista a Stefano ‘Cisco’ Bellotti di Erika Marconato

Photo credit: Giovanni Canitano

I Dinosauri hanno la faccia di Alberto Cottica che ho conosciuto lontano dalla musica, ma ancora invischiato nelle narrazioni (in particolare ad un evento a Venezia in cui entrambi raccontavamo di alcune esperienze di partecipazione civica). Hanno la voce di Stefano ‘Cisco’ Bellotti: unica, riconoscibile, tagliente (e che mi ributta negli anni Novanta ogni volta che la sento). Hanno le dita di Giovanni Rubbiani: la chitarra è sempre lo strumento che preferisco (anche se lui l’ha appesa al chiodo da un po’). Sono tre cinquantenni che hanno deciso di fare un disco acustico; tre amici che si sono ritrovati su una strada comune abbandonata da molto tempo — tutti e tre sono stati membri dei Modena City Ramblers; tre cantastorie che hanno ancora bisogno di raccontare qualcosa.
Dato che hanno la voce di Cisco (ex dei Modena City Ramblers), lascio a lui l’onere e l’onore di raccontarci I Dinosauri.

Ciao Cisco, innanzitutto raccontaci chi sono I Dinosauri.

Iniziamo alla grande con le domande. Cosa sono per me I Dinosauri?
Potrei darti mille risposte diverse — e tutte valide, ma quello che rappresenta meglio questo progetto è la voglia di raccontarsi e di raccontare. Il solo modo che abbiamo per cercare di capire cosa siamo diventati e come siamo cambiati in questi anni.
Chiaramente, non siamo più i ragazzi di 20–25 anni fa (quando iniziammo insieme il percorso dei Modena City Ramblers): siamo persone diverse, cambiate, forse in meglio o forse in peggio. Credo, comunque, che raccontare la nostra storia e, di conseguenza, una parte della storia delle persone che ci hanno seguiti nell’avventura dei Ramblers è non solo necessario, ma anche doveroso.
I Dinosauri non è solo un disco di Cisco, o di Alberto, o di Giovanni, ma è un progetto che racconta la storia di una generazione che ha provato a cambiare le cose e sta lasciando il posto a nuove leve. Questo progetto diventa un modo per tirare le fila, per cercare di capire cosa è andato bene e cosa è andato storto e per provare a riflettere sul contributo che la generazione che raccontiamo può ancora dare.

Il numero su cui uscirà questa intervista ruota intorno alla canzone Andare, camminare, lavorare di Piero Ciampi. Un pezzo orecchiabile, quasi semplice in cui Ciampi racconta, tramite un pastiche, l’Italia degli Anni Settanta. Una storia, per raccontare la Storia. Alberto Cottica, in un post sul suo blog personale, dice che raccontare è un dovere. Cosa vi ha spinto a rimettervi a raccontare? La Storia o le storie?

Credo che ciò che ci ha spinto ad iniziare questo nuovo progetto siano tante piccole storie: esperienze personali di ognuno di noi, esperienze condivise con i Ramblers, esperienze e storie che ci sono state raccontate. Ognuna di queste piccole storie preme per essere condivisa, per creare dei legami forti con altre persone ed altre storie, per risuonare nelle esperienze comuni.
Aggiungo anche che questo progetto ritorna ad una narrazione di un “noi” collettivo. Nei quattro dischi a cui ho lavorato da solista, la mia voce era molto personale: cercavo di raccontare esperienze collettive, ma di fatto cantavo le mie storie, le mie esperienze. Allargare nuovamente la narrazione credo che permetterà a molte persone di ritrovarsi a casa. Ritrovare i testi e la scrittura di Giovanni, l’atmosfera acustica, il suono della fisarmonica di Alberto potrebbe creare un effetto molto nostalgico, ma, per noi non è così: siamo gli stessi, ma diversi.

Avete sempre raccontato le mille sfaccettature dell’Italia e dell’italianità. Secondo te c’è una responsabilità (almeno di testimonianza) di chi ha il dono del racconto (siano poeti, musicisti, autori, artisti)?

La fonte di ispirazione di ognuno è diversa: ciascuno prende spunto da quello che più lo colpisce o che sente più vicino. Noi abbiamo sempre avuto l’urgenza e la necessità di scrivere di ciò che vivevamo in prima persona, sulla nostra pelle. Non l’abbiamo deciso a tavolino prima di metterci a fare musica insieme, semplicemente quelle erano le storie che volevamo raccontare (e forse pure quelle che riuscivamo a raccontare meglio, più onestamente).
Durante la nostra carriera, abbiamo anche scritto canzoni più leggere, meno dirette, meno politiche, forse. Credo comunque che, alla fine, quelli che sono riusciti meglio siano i pezzi in cui si raccontava l’impegno civile che abbiamo vissuto, o che avremmo potuto vivere. Mi riferisco a canzoni come: Ebano (che racconta di una ragazza di colore portata in Italia a fare la prostituta), Quarant’anni (sulla situazione politica italiana), I cento passi (su Peppino Impastato e la mafia siciliana), nonché alle rivisitazioni di vari canti popolari legati alla resistenza come Bella Ciao.
Raccontare questi ed altri aspetti del proprio paese non è un dovere per nessuno. Però noi avremmo ingannato noi stessi e chi ci seguiva se non l’avessimo fatto e se non avessimo sfruttato al meglio la visibilità che ci è stata data dalla musica.

Rispetto al 1999, anno della vostra ultima collaborazione, cos’è cambiato?

Beh, direi che sono cambiate molte cose: il mondo intorno a noi è completamente diverso, noi pure siamo differenti, invecchiati? Sicuro, siamo dinosauri!
Il cambiamento più grande che c’è stato negli anni è che abbiamo perso quella “smania di fare” che ci ha impedito di vivere al meglio l’esperienza dei Modena City Ramblers, portandoci fino al punto in cui abbiamo dovuto allontanarci l’uno dall’altro e dallo stesso progetto Ramblers.
Ora abbiamo sicuramente una maturità diversa, che ci aiuta a raccontare qualcosa che per noi è importante, ma con un minimo di distacco che ci permette di ragionare tranquillamente e scegliere cosa è più importante descrivere e cosa invece è meglio lasciare andare.
Anni fa non era cosi. Ad esempio, ci sembrava che tutto quello che componevamo fosse indispensabile, necessario e da pubblicare assolutamente. Il risultato? Ci siamo ritrovati con album ricchi di canzoni, ma di queste alcune avrebbero dovuto essere eliminate — cosa che al tempo non avevamo la lucidità di dirci. Per I Dinosauri non sarà cosi: abbiamo scritto molte canzoni, ma abbiamo incluso nel disco solo le dieci di cui siamo certi e sicuri. Senza smanie, senza sensi di rivincita e senza allori su cui dormire!

Dite che “il folk invecchia meglio del rock”, ma come cambia lo sguardo quando si diventa Dinosauri?

Come dicevo cambia la prospettiva: da dinosauro è più quello che hai fatto rispetto a quello che dovresti fare. A questa età, facendo questo mestiere, si dà un valore completamente diverso al tempo, il che sembra retorico, ma è quello che provo.
Questo non significa non guardare al futuro, anzi. Significa che oggi abbiamo anche un grande passato da raccontare. E dal quel passato abbiamo preso spunto per raccontarci, sperando di averlo fatto al meglio, includendo pure i nostri difetti, i nostri errori e le nostre sconfitte, così da guardare avanti con uno sguardo più lucido.

Piero Ciampi, ad un certo punto, canta:
“il passato nel cassetto chiuso a chiave
il futuro al Totocalcio per sperare
il presente per amare
non è il caso di scappare”.
Oltre a sentirvi rappresentanti del folk del Mesozoico, come vi relazionate con passato, presente e futuro?

Tempo fa scrissi una frase, in una delle mie canzoni, che per me è ancora una sorta di dogma (e come tale lo prendo): “cantavo il mio passato perché il futuro non mi facesse vergognare del mio presente”. Una cosa in cui credo ancora fortemente.
Ogni volta che mi confronto con il passato, la mia mente torna sempre a quel pensiero. Oggi sono passati venticinque anni dai racconti che facevamo con i Modena City Ramblers e mi sento fiero di quel mio presente e delle persone che ogni sera, ad ogni concerto, mi ricordavano (e mi ricordano tutt’ora) quello che abbiamo fatto. Molte di queste persone sono cresciute con le nostre canzoni e questo mi fa pensare che le nostre idee, in fondo, non erano del tutto sbagliate.

Avete deciso di finanziare il vostro prossimo album con un’operazione di crowdfunding, che ha raggiunto il gol fissato in meno di tre settimane. Evidentemente per le persone che vi seguono, I Dinosauri sono rilevanti, secondo te perché?

Io credo che la gente ha capito da subito che questo progetto parlava anche di loro e si sono sentiti chiamati in causa. In fondo, i dinosauri potrebbero essere visti come l’evoluzione della grande famiglia di cui cantavamo qualche tempo fa (solo con qualche anno in più).
Volevamo raccontare questo nuovo progetto in questo modo e ci fa piacere esserci riusciti: sapevamo di non essere gli unici a sentirsi fuori posto, fuori tempo, insomma dinosauri. Nonostante questo, pensavamo di essere quasi estinti. Questa campagna di crowdfunding ci ha dimostrato che ci sono un sacco di dinosauri come noi in giro!

Quale domanda non ti ho fatto e avresti avuto piacere di trovare? E qual’è la risposta che avresti dato?

Nonostante siamo in una rivista letteraria, speravo in una domanda sulla musica, argomento che mi sta molto a cuore.
Vorrei sottolineare che questo progetto nasce sulla falsa riga del tour dei 40 anni, fatto insieme ad Alberto e Giovanni circa sei anni fa. Durante quel tour siamo tornati alle origini, al folk e con questo progetto volevamo fare lo stesso: riscoprire la nostra musica, tornare al folk, eliminando gli orpelli e i fronzoli a cui avevamo ceduto nell’era dei Modena City Ramblers.
I Dinosauri sarà un disco musicalmente asciutto, con pochi strumenti, dove ognuno di noi si è ritagliato il proprio spazio per esprimere se stesso al meglio. La forza sarà nelle singole canzoni e nella nostra storia.
Aggiungo, infine, che a livello musicale ci ha dato una mano anche il maestro Massimo Giuntini, rappresentante massimo dell’espressione dinosauresca folk!
Un saluto a tutti e ci si vede in tour lungo la strada!

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE