IL LETTORE CHE NON SO ESSERE

IL COLOPHON
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Il racconto spietato e senza sconti di un rapporto davvero difficile tra scrittura e lettura di Paolo Ferrucci

Insomma, è successo che da anni non riesco più a leggere un libro. Nemmeno una pagina intera. La cosa sembra proprio uscita dal mio orizzonte, smentendo quella voglia di libri alimentata per decenni, fortemente mia, che non mi dava tregua. Non è stato nulla di ideologico o irreparabile: solo la conseguenza di un fenomeno depressivo, dal quale ho cercato di uscire esclusivamente con le mie forze. E a furia di analizzarmi e cercare di capirmi, ho scoperto che uno degli aspetti accattivanti della depressione è la sua capacità di accoglienza, cioè quel riuscire a offrire un ambiente in cui potersi esprimere, o non esprimere, e in cui potersi macerare a piacere, in modo protetto. Senza dover rispondere alle sollecitazioni esterne, che sono inevitabili e fanno pesare ancor di più la propria condizione. E dev’essere stato in quella specie di ambiente protetto che ho perso gradualmente la forza di leggere i libri. Mi rendo anche conto di averne accumulati troppi, oggi saranno migliaia, al punto che dopo l’ultimo trasloco ho dovuto lasciarne una parte negli scatoloni, perché non s’erano organizzati gli spazi necessari.
Oggi tutti questi libri, la loro massa, la loro presenza, la loro estensione non riescono più a darmi quel senso di copertura, di giustificazione, di appartenenza, di compagnia che m’avevano offerto per anni. Ero così affezionato al loro mondo che spesso andavo a comprarne solo per calmare i nervi: lo facevo lasciandomi guidare dalle impressioni, ma soprattutto dai contenuti, che ero capace di valutare sfogliando i volumi nei punti chiave. Li capivo subito, i libri, quando ne esaminavo i dati identificativi, come i traduttori, le edizioni precedenti se ce n’erano, e poi ne leggevo alcuni paragrafi a campione per capire se potevano servirmi. E a volte bastava una frase per farmeli scartare. Tastare i volumi, quelli belli nella veste grafica, nell’editore, quelli belli nella copertina, era una cosa inebriante, mi aiutava a sopportare la noia e il fastidio della routine. Oltretutto i libri, la letteratura, promettevano la salvezza: in un mondo che ritenevo inaccettabile era quello l’orizzonte che prometteva di farmi raggiungere una dimensione. Così ne accumulavo, ed ero preoccupato di averli con me, di assicurarmene la presenza, più che di leggerli effettivamente, perché vedevo l’attività di lettura come un piacere talmente pieno da dover essere preparato e anche assaporato con l’attesa. Da dover essere meritato. Poi, naturalmente, la lettura mi ha dato soddisfazioni grandi, anche se ammetto di non esser mai stato un asso nella capacità di concentrazione. La mia mente tende sempre a di-vertere, ovvero a divertirsi, se vogliamo seguire l’etimologia latina: cioè a cogliere ogni spunto per allontanarsi dal pensiero del momento, dal tracciato che si sta seguendo nella lettura, per agganciarsi ad altre idee e immagini, ad altre situazioni o ricordi che la cosa appena letta ha evocato. Le associazioni mentali mi hanno sopraffatto così tante volte, forse perché le trovo irresistibili, con quel saltare da una parte all’altra, solo perché qualche elemento ha lanciato un filo verso l’analogia che era in agguato. E dire che mi piacerebbe moltissimo avere quelle abitudini di lettura classiche che fanno il lettore virtuoso, quelle che giustificano l’amore per i libri.
Ho sempre ammirate le persone che hanno grande capacità di concentrazione sui testi, quel tipo di concentrazione organizzata e univoca, da studiosi, come io non sono mai stato. Sempre con la testa altrove, l’attività di studio l’ho trattata soprattutto come un problema da risolvere col pragmatismo opportunistico, tipico dello scansafatiche. Immagino che la vera capacità di concentrazione non la posseggo perché non ne sono incline e non l’ho coltivata abbastanza. Non ho nemmeno avuto buoni maestri, per dire. Buona parte della gioventù l’ho passata sulla strada, rischiando inutilmente, buttando il tempo e i talenti, quasi ignorando il mondo vero, quello che mi aspettava. Così son sempre stato spinto dal pragmatismo della sopravvivenza, e col tempo ho sviluppato una capacità di concentrazione frammentaria, focalizzata sui problemi, sui dati, sui ragionamenti, che seguiva non un progetto ma lo srotolarsi delle esperienze così come venivano.
Ora, dopo tutto questo tempo, mi piacerebbe imparare a divorarli, i libri, senza distrarmi e senza perdermi, come riuscivo a fare una volta, nella mia stagione felice, standoci dentro a tempo indefinito, come fanno i veri lettori. Ma ancora mi trovo, non so perché, a trattare il testo in modo analitico, come un fenomeno da sezionare, da osservare, da interpretare nei meccanismi e nella sostanza. E questo non sembra compatibile con l’idea che ho coltivato così a lungo, quella che mi aiutava ad andare avanti, l’idea che nella letteratura ci fosse la salvezza. Però è stato troppo bello pensarlo, e forse non sono ancora pronto per smettere di crederci.
Intanto, se affronto un testo continuo a distrarmi, non reggo per più di mezza pagina, con la testa che vola in giro al minimo stimolo. Troppe cose da pensare, troppe cose interessanti che si affacciano alla mente e distolgono, dev’essere questo il problema. Anche perché, devo ammetterlo, molti dei libri che individuavo e prendevo, e facevo miei, erano visti come strumenti di stimolo, come trampolini per poter prendere spunti, elementi che mi aiutassero a fantasticare in proprio, con mezzi miei, senza restare fedele alla pagina, ma scappandone per cimentarmi nell’invenzione.
Ed ecco che il desiderio di scrivere romanzi mi colse, sciaguratamente, mentre frequentavo l’università. Fu allora che intensificai la pratica della letteratura, a scapito dello studio per gli esami di economia, di matematica, di diritto. Incombenze che divennero quasi maledizioni, mentre sentivo le mie inclinazioni orientarsi altrove. Quando poi mi ci misi veramente, a scrivere, dopo anni, mi trovai a progettare romanzi strutturati come edifici, con avventure, intrighi, misteri, omicidi, concatenazioni, funzionalità, incastri, corsi e ricorsi, il tutto in un’attività cerebrale e calcolata, come un lavoro. Ciò che gli scrittori che fingono modestia chiamano “artigianato”. Io invece la chiamo muratura, edificazione, su base architettonica e ingegneristica. Un artificio di posa di fondamenta, di articolazione di uno scheletro, di gettata e consolidamento di snodi e collegamenti, di vestizione e riempimento, di decoro e orpello, di significazione allusiva e d’illustrazione, di rifinitura. E tutto questo desideravo viverlo come rito e liturgia, come un atto sacro che prima di essere compiuto ha bisogno di tanti preliminari, proprio come il godimento dei libri che reputavo troppo belli. E allora organizzavo documentazione, indagini, studi, riflessioni, emozioni nell’immaginare ciò che si sarebbe creato. E lì accadeva che la concentrazione, per me tanto difficile da governare, si metteva in moto: come una specie di macchina partiva a lavorare in maniera diretta, senza sfiati o perdite di pressione, senza svalvolamenti, con un funzionamento deciso. E l’immaginazione, quella cosa che nella lettura mi portava a deviare dalle pagine, qui s’incanalava verso un obiettivo preciso che muoveva tutto.
Ma, a dispetto di questo, l’incostanza nella lettura è rimasta, come un vizio. Nel mio percorso di recupero, nel tentativo di rinascita, penso che riuscire di nuovo a leggere un libro intero sia un passo importante. Dall’inizio alla fine, senza saltare da una parte all’altra, godendone il progresso. Come accadde qualche anno fa con I Viceré di federico De Roberto: una specie di miracolo, un libro che presi in mano non so come e che mi catturò senza lasciarmi. Forse perché fin dall’inizio è tutto azione: “Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell’arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s’udì e crebbe rapidamente il rumore d’una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva avesse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall’arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano”.
Dopo questo exploit, però, son tornato all’incostanza di prima. Che si alimenta anche con quella pigrizia che monta piano piano, quella comodità del non fare, che finisce per offrire rifugio a chi già è svogliato. E allora ho sviluppato la cattiva abitudine di leggere un pezzo qua e un pezzo là dello stesso libro, senza ordine, finendo per privilegiare i testi saggistici, che meglio si prestano a questo affronto. Ho scoperto che smembrando la materia di lettura, lottizzandola, si diventa tecnici: si acuisce quella tendenza — che già avevo — di passare sotto uno sguardo analitico il testo, che quando è narrativo finisce per perdere il suo potere di far sospendere l’incredulità, inibendo così il sano piacere della lettura, a cui ognuno avrebbe diritto.
Ora, comunque, per tornare al punto, quegli scatoloni di libri che in casa non hanno trovato spazio si sono come mimetizzati con la parete, salvo qualche buco che i gatti, a furia di farsi le unghie, hanno aperto e allargato, fino a far intravedere delle coste e degli spigoli di pagine. A volte, nella nebbia del disinteresse, mi chiedo cosa ci sarà in questa o in quella scatola, forse se le aprissi scoprirei testi che avevo dimenticato. Magari anche i manuali di psicologia e di auto-aiuto a cui ero ricorso per combattere il mio stato di prostrazione, per capirne i meccanismi e dar loro un nome. Perché ho capito, una volta per tutte, che dare il nome alle cose è importante, soprattutto identificare i propri nemici. Poterli inquadrare e definire è fondamentale, per poterli combattere.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE