IL LIBRAIO DI SELINUNTE di Roberto Vecchioni

IL COLOPHON
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[Einaudi]

Un canto in ode alla parola (perduta, per demerito). Alla letteratura che ci rapisce e che viene rapita dal nostro imbruttimento. Al lessico descrittivo degli stati d’animo e quello oggettivante con cui muoversi nel quotidiano. Un memento alla nostra strada verso l’elevazione in volo verso altri mondi, data per scontata. La storia della nostra più bassa bestialità, sempre in agguato.
Il libraio di Selinunte di Roberto Vecchioni è il pifferaio magico delle parole. Come nella leggenda tedesca di Hamelin, ripresa tanto dai fratelli Grimm quanto da Goethe, il reietto del villaggio che porta via con sé ciò che di più caro gli abitanti abbiano. Nella favola della Bassa Sassonia, rapisce i bambini. A Selinunte, oggetto di un colpevole rogo che segue la scomparsa della figlia del ciclista, sottrae la capacità di poter definire a parole cose e sensazioni.
Così, nel cielo volarono libri, come telecomandati infine caddero nel mare. Quel giorno le parole se ne sarebbero andate per sempre. E venne il peggio. Mancarono i discorsi, le spiegazioni e, terribilmente più di ogni altra cosa, non si poterono più esprimere i sentimenti. “Li avevamo dentro, belli chiari e netti, ma quando tentavamo di esternarli veniva fuori qualcosa che non aveva vita (…) Io amo Primula. Non posso parlare con lei, e sento questa mancanza come uno strappo, un dolore senza fine. Non mi bastano e non le bastano i gesti, le carezze, gli sguardi: tutto ciò è di una dolcezza animale che riempie solo una minima parte dello spazio comune.” Come dipingere senza colori, spiega appunto Nicolino, il protagonista del libro che ricorda i fatti. Di quando, una volta, le cose corrispondevano ai nomi e lui, seppur di nascosto, ascoltava le letture ad alta voce del libraio per un pubblico assente.
Di qui conduce il lettore attraverso le poche ma dense pagine di questo libello, zeppo di citazioni con cui misurarsi. Dotte, a volte cifrate e difficili da cogliere quelle del professor Vecchioni. Soluzioni a seguire, rivelate in coda al volume. Tutto sommato i classici. Nomi da far sentire ripetenti: Pessoa, Manzoni, Sofocle, Tolstoj, Saffo, Shakespeare, Leopardi, Dante, Rimbaud, Proust, Borges, Dostoevskij…
Nello sguardo di Jean Paul Sartre e Simone De Beauvoir rivolto ai Templi, a Selinunte il silenzio aveva più peso di tante parole (recita il frontespizio). Qui nel racconto del cantautore brianzolo — per altro pratico del tema dal precedente Le parole non le portano le cicogne — quel silenzio è forte privazione, impossibilità di espressione. Come allora l’inconsistenza delle cose quando non è possibile nominarle e coglierle nel senso del loro suono. Qui a Selinunte come esito di comportamenti animali che fanno tornar bestie, senza la capacità di esprimersi attraverso il linguaggio. E, nella mancanza di lessico condiviso, l’impasse dell’amore (che non c’è) verso l’altro, come di quello che c’è (ma non sa più dirsi).

Sanzia Milesi

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE