IL PIEDE NEL TESTO. IL RACCONTO COME FORMA NECESSARIA

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intervista allo scrittore Luca Ricci di Luca Martini

Ho conosciuto letterariamente Luca Ricci una decina di anni fa, leggendo una raccolta di racconti uscita per Alacran nel 2005 dal titolo Il piede nel letto. E da allora non ho più smesso.

Luca Ricci, classe 1974, pisano di nascita ma romano di adozione, è diventato nel tempo uno dei più grandi scrittori italiani di racconti. Tra i suoi libri ricordiamo L’amore e altre forme d’odio del 2006 (Premio Chiara) e La persecuzione del rigorista del 2008, entrambi pubblicati da Einaudi, e Come scrivere un bestseller in 57 giorni, uscito per Laterza nel 2009.

Ha tenuto per la scuola Holden i corsi “Scrivere un racconto che piacerebbe al New Yorker” e “Scrivere un best seller, analisi delle scritture da classifica”.

Caro Luca, la prima domanda sarà volutamente secca e diretta. Luca Ricci si trova meglio col romanzo o col racconto?

Credo giusto che a rispondere siano i miei libri. Direi che per il momento non mi sono mai spinto oltre quel che comunemente — sebbene con un certo grado di ambiguità — viene definito «romanzo breve», che però come sappiamo a rovesciare i termini della questione potrebbe benissimo essere definito — con altrettanta ambiguità — «racconto lungo». Il resto è fatto di veri e propri racconti: più brevi (come i vecchi) o più lunghi (come i nuovi) non fa molta differenza, siamo senza dubbio nel campo della forma breve. Perciò la mia opera, allo stato attuale, diciamo che mi sgrava dalla qualifica di romanziere.

Il libro che ha segnato la tua definitiva affermazione è stato L’amore e altre forme d’odio una raccolta di racconti di livello assoluto uscita una decina di anni fa per Einaudi. Ci racconti la nascita e la storia di questo libro?

Gli anni zero sono stati per me un periodo abbastanza estremista dal punto di vista letterario. All’epoca leggevo un sacco di strutturalismo e formalismo. M’interessava l’idea di raggiungere una scrittura astratta, di cercare l’equivalente letterario dei movimenti pittorici d’avanguardia che rifuggivano il figurativo. Ero giovane, cercavo l’impossibile. M’interessava molto l’idea di stabilire un limite — operando una riduzione ai minimi termini di tutte le componenti del testo — tra ciò che si sarebbe potuto ancora chiamare narrazione e cosa no. Guardavo il lavoro di Piet Mondrian e mi chiedevo: “Si può fare lo stesso in letteratura?” Ecco quale fu la spinta per le very short stories stilizzate e strangolate de “L’amore e altre forme d’odio”.

Il tuo modo di scrivere, pur partendo da livelli già altissimi, lo trovo molto maturato negli anni. Si sente Carver all’inizio, per arrivare oggi anche a scrittori come Lansdale. Sbaglio? Cosa puoi dirmi sui tuoi modelli narrativi passati e attuali?

Carver l’ho sempre preferito nella versione tagliata da Lish (il suo storico e perfido editor). L’umanità di Carver m’interessa fino a un certo punto (men che mai la sua capacità di fare a pezzi il sogno americano e via dicendo). Quello che trovo davvero illuminante in Carver è la capacità di costruire raccolte modulari, dove la coesione tra i singoli pezzi è fortissima senza bisogno di nessuna cornice. Carver per me è sempre stato come una libreria Ikea, lo posso scomporre e ricomporre infinite volte, a seconda delle mie esigenze e direi prospettive esistenziali. In generale, credo di essere stato influenzato più dagli scrittori europei che da quelli nord americani. Più Maupassant che Melville, più Buzzati che Hemingway.

Carver sosteneva che è più facile scrivere un grande romanzo che un grande racconto. Tu cosa ne pensi?

Penso che ognuna delle due forme nasconda insidie terribili. Piuttosto direi che ci sono certe prerogative da parte degli scrittori di racconti che un romanziere può bellamente ignorare. Ad esempio l’assillo di annoiare il lettore. Uno scrittore di racconti si pone sempre il problema della noia, sto annoiando o no?, mentre le scritture più lunghe, con ampie variazioni narrative, suddivise in corposi capitoli, con digressioni e sottotrame, diciamo che hanno nel loro statuto un certo grado di noia, cioè la noia diventa quasi obbligatoria, e persino funzionale al raggiungimento dello scopo narrativo (se non proprio del risultato estetico).

Come affronti la stesura di una nuova short story? Hai tecniche redazionali o trucchi del mestiere che segui?

Trucchi zero, purtroppo. Per i racconti brevi, che sono un corpus di racconti più ampio della singola raccolta (ne avrò in tutto un centinaio, ormai) ho delle regole interne che mi si sono precisate nel corso di anni di ricerca e lavoro. Una regola che mi aiuta molto a orientarmi ad esempio è la gestione spaziale, o meglio l’aver abrogato l’esterno. Sono racconti che in buona sostanza si svolgono in casa, ma io preferisco dire, appunto, all’interno o al chiuso. Per i racconti lunghi invece l’orizzonte cambia completamente. È come se quel grumo formale dei primi anni, anche quei rovelli teorici da sperimentatore, si fossero disciolti in una prosa ormai più adulta e consapevole dei propri mezzi espressivi.

Quali sono le letture imprescindibili per uno scrittore che voglia eccellere nella forma racconto?

I romanzi, per paradosso. Qualche bel romanzo storico alla Walter Scott. Oppure qualche bel mattone tardo ottocentesco italiano tipo Malombra di Fogazzaro. Ma andrà bene anche il postmoderno, qualche bomba di Wallace o DeLillo. Belli o brutti non importa, i romanzi avranno sempre dei crolli strutturali. Se siete scrittori di racconti sarete particolarmente sensibili a questi crolli e comincerete a protestare, a borbottare: “Ehi, questo poteva non scriverlo, questo passaggio poteva saltarlo, questa cosa poteva non ripeterla”. In realtà molto probabilmente non è il romanzo che non funziona, siete voi che siete fatti per altro. Se vi rendete conto di questo, mettersi a scrivere racconti sarà una conseguenza inevitabile.

Il critico letterario Andrea Cortellessa ti ha definito “il virtuoso più consumato della tecnica del racconto in Italia”. Che effetto ti fa leggere parole tanto lusinghiere e che rapporto hai con la critica letteraria in genere?

Le parole di Cortellessa mi hanno fatto piacere, ovviamente. E devo aggiungere che la critica letteraria nel mio caso ha spesso supplito alla mancanza di promozione: all’inizio, se non ci fossero state le parole d’incoraggiamento di Ermanno Cavazzoni o Giovanni Tesio, di Guido Davico Bonino o Marco Belpoliti, ma anche di Paccagnini o Fofi o Siti o Montanari o Manganelli (Lietta, la figlia di Giorgio), difficilmente il mio lavoro avrebbe avuto un seguito. Il mondo editoriale non è ancora il mondo delle lettere tout court, se Dio vuole: io ne sono la dimostrazione vivente.

Il tuo nuovo libro è appena uscito per Rizzoli e s’intitola I difetti fondamentali. Ci puoi raccontare qualcosa di questa raccolta di 14 nuovi racconti?

Sono storie di scrittori inventati, per così dire. Più precisamente, sono storie vere di scrittori inventati. Non è solo l’esigenza di continuare a fare il punto sul proprio lavoro e sul lavoro della letteratura (ma se un libro non lo fa per me è manchevole, è un po’ meno un libro), quanto piuttosto di tornare a mitizzare la figura dello scrittore. Proprio così. Siccome la scrittura fa sempre questo miracolo, di costruire la mitopoiesi del suo soggetto (lo fa anche quando vorrebbe sminuire, sbugiardare o denunciare), mi sono detto: “Noi scrittori siamo bistrattati, adesso basta, adesso scrivo un libro su di noi”. Ed è vero, siamo molto oltre all’aureola caduta nel fango raccontata da Baudelaire. Nella migliore delle ipotesi agli scrittori si chiede di scrivere best seller e stare zitti.

Quindi la forma “romanzo” ancora non ti tenta neanche un po’?

Alcuni racconti de I difetti fondamentali derivano in parte dallo smembramento di un paio di romanzi. Non è che quei romanzi non mi piacessero, e anzi trovavo che in fin dei conti funzionassero. Però funzionavano meno dei racconti che, lavorando ancora moltissimo, ci ho ricavato. È una questione anche di potenza, se vuoi. Chi scrive racconti non tollera una sola pagina fiacca, questo è il punto. In genere gli scrittori stiracchiano i loro racconti per ricavarne romanzi, io ho fatto il contrario. Ho tagliato senza pietà romanzi per ottenere racconti scoscesi, e spero che vadano dritti al punto come una canzone dei Ramones (e, sia chiaro, per me il messaggio è la storia, con tutte le sue deliziose ambiguità e sfumature: non sono il tipo di scrittore che usa la letteratura per divulgare un messaggio didascalico, che ne so, sull’inferno della globalizzazione o sui vantaggi del multiculturalismo).

Altre uscite imminenti, sempre con riferimento a racconti e storie brevi?

Un’antologia pazza che s’intitola Più veloce della luce e rivisita — per restare in tema di miti — la figura del supereroe. Insieme a me tanti nomi noti della scena italiana, tipo Brizzi e Morozzi. Esce proprio in questi giorni per un editore indipendente e battagliero, Pendragon.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE