IL COLOPHON
IL COLOPHON
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7 min readMar 31, 2016

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Illustrazione di Marta D’Asaro

IL POLLO È BUONO CALDO
racconto di Roberta Marcaccio

I fogli, scarabocchiati durante le riunioni del lunedì, sono impilati sopra il cestino della carta da riciclo. Ritraggono volti e oggetti che Mario osserva ogni giorno da più di quarant’anni: primi piani dei colleghi, nature morte ispirate a oggetti presenti nei vari uffici, riproduzioni di loghi o manifesti che tappezzano i muri dell’agenzia.
“Il tuo risparmio è al sicuro” è lo slogan che ha disegnato durante l’ultimo meeting ed è riprodotto sul primo foglio della pila; Mario alza gli occhi e legge la stessa frase sul cartellone appeso nel suo ufficio, poi ruota la sedia di novanta gradi, appoggia la testa allo schienale e incrocia le mani all’altezza dello stomaco.
«Eccoci qua» sussurra.
Il mare, a centocinquanta metri dalla sua finestra, è una lastra di vetro. L’aria è ferma, gli alberi riposano immobili. In un mondo in attesa.
L’orologio dice che manca solo mezz’ora al fine settimana.
Un sospiro, un po’ più lungo degli altri. Il respiro è come l’aria all’esterno: fermo.
Spinge con le gambe sul pavimento e ruota la poltrona di centottanta gradi. Si avvicina al computer, chiude tutte le finestre ed esce dalle procedure, facendo attenzione a scollegare l’utente. Inserisce una chiavetta nella porta USB e sposta sull’unità esterna tutto il contenuto della cartella MARIO. Foto, documenti, video, musica. Un pugno di Giga.
Esce dall’ufficio, attraversa l’open space, sotto gli occhi curiosi o compassionevoli dei colleghi, ed entra in bagno. L’acqua fredda, sulle mani e sul viso, è refrigerante. Nonostante l’egregio lavoro fatto dai condizionatori, la camicia, stretta dalla cravatta, è l’unica cosa che detesta del suo lavoro.
Rientra in ufficio. Sul monitor la barra di avanzamento indica quarantacinque per cento.
Siede e chiude gli occhi. Ormai deve solo attendere. È tutto pronto.
Ripensa a quella giornata. Ai sorrisi dei colleghi, ad alcuni occhi tristi in mezzo ad altri soddisfatti, ai due chili di biscotti di Fabrizia spazzolati in pochi secondi e alla stretta di mano del direttore. Riapre gli occhi: settantacinque per cento.
Ripassa mentalmente la check-list di tutto ciò che doveva fare. Non ha dimenticato nulla. Deve solo attendere.
Gli effetti personali sono ordinati sulla scrivania: il tablet, lo smartphone, l’accendino, i sigari, le chiavi della macchina, il rasoio, la forchetta, lo spazzolino da denti. E il magnum. Regalo dei colleghi.
Perfetto in abbinamento all’orata con le patate.
Cento per cento.
È ora.

Il lunedì è il giorno preferito da Mario. Il caffè al bar sotto l’ufficio, gli scontri calcistici del post-domenica, la riunione delle dieci in sala consiliare e la reportizzazione dei dati della settimana precedente. Non si interessa di calcio, ma ama i numeri, i grafici a barre, le torte, gli istogrammi. Per due ore, mentre i colleghi si insultano per un rigore regalato, Mario raccoglie, in una cartella, i dati per le pivot e poi comincia a tracciare linee. Alle dieci menu un quarto apre una mail, allega il foglio excel e invia il report al direttore.
Sotto la doccia canticchia Vamos a la playa; si insapona con vigore, sfrega con insistenza le parti intime, i piedi, le ascelle. Il profumo di muschio bianco si espande nel piccolo box, sotto il getto d’acqua bollente. Si asciuga energicamente testa e corpo e poi getta l’accappatoio nel cesto dei panni sporchi.
Sceglie con cura la camicia — azzurra — e i pantaloni — un fresco di lana molto leggero. Cravatta a righe blu e rossa e un mocassino sfoderato color cuoio. Prende la giacca e scende a piano terra.
Entra in cucina fischiettando, appende la giacca alla spalliera, si guarda attorno e crolla sulla sedia. Il suo giorno preferito si trasforma in un buco nero. Lo scatolone, con la marca di una nota merendina da colazione stampata su tutti i lati, è ancora nell’angolo dove lo ha tirato venerdì al ritorno dal lavoro. Il magnum di Prosecco Valdobbiadene lo guarda dalla mensola su cui lo ha dimenticato due giorni prima; sopra l’etichetta è stampato il suo stato di servizio.
Fabrizia spalma burro e marmellata sul pane. È da venerdì sera che non parla. Lo guarda, lo ascolta imprecare ma non parla.
La tavola è imbandita di croissant, biscotti, confetture, creme. I suoi dolci preferiti. Ad accompagnarli, latte, caffè, cioccolata in tazza, tè, spremute.
«Caffè?»
Mario scuote la testa.
«Torta della nonna?»
Alza le spalle.
Fabrizia inclina il capo. Gli porge una tazza di cioccolata calda accompagnata da un sorriso.
«Un cantuccino piccolo piccolo?»
Mario appoggia il biscotto sul piattino vicino alla tazza fumante.
«Non ho fame!»
Afferra la giacca, la butta su una spalla ed esce di casa. Gironzola per le vie del quartiere in cui abita da una vita ma che non conosce. Osserva le case, si ferma davanti ai giardini, ascolta il cinguettio degli uccelli.
Scioglie la cravatta, che penzola sulla camicia, e apre i primi due bottoni. Piccole gocce di sudore brillano sulla fronte.
Siede sulla panchina davanti al campetto dove i ragazzini giocano a calcio. A fianco, una pista da bocce per i pensionati. Il passatempo dei nonni del circolo: tresette e bocce. Lancia la giacca sulla staccionata, arrotola le maniche della camicia e appoggia i gomiti sulle cosce. Osserva il riverbero del sole in mezzo agli alberi. L’afa colora di nebbia il verde delle fronde.
«Che ore sono?»
Il fracasso dei pensieri ha coperto lo scricchiolio della ghiaia, pressata dal copertone, e il cigolio dei freni. Una nuvola di polvere copre la fonte della voce. Mario tossisce e guarda l’orologio.
«Le dieci meno un quarto».
«Cosa fai qui?»
«Non lo so».
«Non vai a lavorare?»
«Cosa ti fa pensare che io debba andare a lavorare?»
«Sei vestito come il mio papà, quando andava in ufficio».
«E non ci va più in ufficio il tuo papà?»
«No. È molto malato. Ha perso tutti i capelli. Proprio come te. Anche tu sei malato?»
Due occhi scuri, rotondi e luminosi lo guardano attraverso la polvere che si deposita di nuovo a terra.
«Quanti anni hai?»
«Otto».
«E cosa fai in giro da solo?»
«La mamma piange tutto il giorno, papà è a letto ed io giro in bici. Tu cosa fai qui?»
«Niente. Non faccio niente…»
«Sei triste?»
«Mi sento un po’ solo».
«Anche io a volte mi sento molto solo. Ma poi penso alle cose che mi piacciono, ai miei amici, alle partite a pallone, ai giri in bici. Tu hai amici?»
«Li avevo, fino a qualche giorno fa».
«E cosa ti piace fare?»
«Mi piace lavorare e disegnare».
«E non puoi andare a lavorare?»
«No! Ormai non più».

Collo inamidato, cravatta con i personaggi Disney e giacca a quadri.
Mario entra in agenzia. Ha in mano una valigetta e indossa occhiali da sole. Scuri.
«Buongiorno Mario!»
«Ciao Sara!»
La coda alle casse è interminabile. È metà mese.
Mario sale le scale fino al primo piano, attraversa l’open space, saluta i colleghi ed entra nel suo ufficio. Siede davanti al PC, digita la password ed accede alle procedure. Apre la valigetta, prende alcuni fogli e comincia a pestare numeri sulla tastiera. Sorride mentre martella sui caratteri stampati bianco su nero. Ricontrolla gli importi, i soldi e scende alla cassa. Sara conta il denaro e gli consegna il resto. Mario lo divide nelle buste e chiude la valigetta. Prima di uscire dall’agenzia bussa alla porta del direttore. La apre. Uno sguardo d’intesa, un cenno di mano e la porta si richiude.
Il sibilo inconfondibile dei copertoni sull’asfalto strappa un sorriso a Mario.
«Ehi, aspettami!»
«Giacomo, cosa fai qui?»
«Ti stavo cercando».
«Non sei andato a scuola?»
«Stamattina avevo la tosse e la mamma mi ha lasciato a casa».
«E perché sei uscito? Mamma dov’è?»
«È andata al cimitero, da papà. Ci va tutte le mattine».
«Dai vieni, ti accompagno».
Mario suona alla canonica, il numero dieci di via dei Tulipani, attende che Irma apra la porta e le consegna la busta con la delega e il denaro. La stessa cosa fa al numero sedici e al numero ventidue. Alcuni mesi sono molte di più le deleghe e per fare tutto il giro impiega anche un’ora.
Sosta davanti a casa di Giacomo e si accerta che il bambino entri.
«Non uscire di casa fino a che non torna tua madre. E se hai bisogno telefonami che arrivo».
Non fa in tempo ad entrare in casa che il telefono squilla. Fabrizia sta cucinando il pollo al forno, con patate e castagne. Lo stomaco di Mario sorride.
Prende in mano l’apparecchio e, prima ancora che dica pronto, la voce all’altro capo del filo irrompe nel suo timpano con la stessa violenza di un bacio nell’orecchio. Dopo qualche secondo la riconosce.
«… e vuole sapere se oggi puoi portare i bambini a casa tua» gracchia la cornetta.
Mario incrocia gli occhi caldi e rassicuranti di Fabrizia.
«Va bene, Irma, li porterò a casa mia. Li verrò a prendere alle tre meno dieci».
Fabrizia inforna il pollo e aziona il timer.
«Puoi usare la sala da pranzo, con tappeti e cuscini».
«Ma come…»
Lei sorride.
«E potresti riesumare quei tuoi cavalletti di legno; stanno marcendo in soffitta».
Mario la guarda a bocca aperta.
«Vi preparerò spremute di frutta fresca e una montagna di muffin».
L’afferra in vita e l’attira a sé. Profuma d’amore e di cose semplici. Deposita un bacio lieve sulle sue labbra e infila il naso nei suoi capelli.
«Quanti sono?»
«Sei. Serviranno altri tre cavalletti».
Il sorriso di Fabrizia è impresso sulla tela appesa in cucina, vicino alla cappa. Il primo esperimento di ritratto, uno dei tanti schizzi abbozzati durante le lunghe ore di disegno. Lei se ne era innamorata ed aveva voluto appenderlo nella stanza in cui viveva di più. Tela nuda sul muro nudo.
«Faccio una corsa in centro, devo fare scorte di fogli da disegno, colori e pennelli».
Mario fatica a staccarsi. Fabrizia ha un profumo che inebria e una leggerezza che semplifica tutto ciò che è complicato.
Lei allaccia le braccia attorno al collo del marito e gli stampa un bacio sulle labbra.
«Al ritorno passa al supermercato. Comprami le gocce di cioccolato e lo zucchero a velo».
Mario corre sul vialetto, afferra la bici e salta in sella.
«E fai prestooo! Il pollo è buon caldo».

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE