IL RACCONTO È UN NUCLEO CHE ESPLODE

IL COLOPHON
IL COLOPHON

--

Intervista a Valeria Parrella di Emiliano Gucci

«Quando scrivo racconti sono sempre felice: mi sento in un territorio mio».
Valeria Parrella è una delle più importanti scrittrici italiane. Con i racconti brevi ha esordito e si è affermata, ha vinto il Campiello Opera Prima, il Premio Renato Fucini, è entrata nella cinquina dello Strega, è arrivata al romanzo e al teatro e al cinema, ma sempre e soprattutto con i racconti continua a restituirci la sua Napoli, il nostro mondo e «il nostro tempo tronco, caduco, veloce, rubato»; e a parlare di noi, «donne e uomini solitari che combattono le loro solitarie guerre». Il suo prossimo libro (Enciclopedia della donna — aggiornamento) è in uscita a marzo per Einaudi.

La cerco, le parlo di questo numero de Il Colophon, mi risponde, ci rimpalliamo un file come fosse una telefonata…

Comincio proprio dall’abusato assioma “in Italia i racconti non si pubblicano — in Italia i racconti non si leggono”, o viceversa; ci interessa una tua riflessione, l’idea che ti sei fatta tu che con i racconti hai esordito. E sei stata letta fin da subito, e tanto, e bene.

La fregatura è stata che noi non ce ne siamo accorti. Io, Nicola Lagioia, Marco Cassini, quelli con cui avevo a che fare quando ho cominciato. Eravamo giovani e ingenui? Non so: ma non ce ne siamo accorti.
Io venivo da lettere classiche e la cattedra di italiano tenuta da Mazzacurati lavorava tantissimo sul racconto, in parte ho fatto delle verifiche sulla mia scrittura proprio lì. Poi: minimum fax pubblicava un sacco di racconti, io ho mandato a loro il mio manoscritto perché pubblicavano Carver. E siamo stati fortunati, oppure bravi e fortunati, fatto sta che io fui subito notata.
Quando pubblicai la seconda raccolta, era il 2005, ricordo ancora che Matteo Codignola di Adelphi guardava davanti a me la classifica del Corriere della Sera e mi disse: «È incredibile, tu, con questo piccolo editore, con un libro di racconti, sei dodicesima in classifica», cioè stavo altissima. Ma noi non ci badavamo, io non la sentivo come una cosa strana, erano gli altri che mi facevano notare l’eccezionalità della cosa. Dico sempre “noi” perché credo che questo sguardo convinto e fiducioso che io avevo sul racconto facesse parte di una generazione di lettori/scrittori/editori/professori universitari. Cioè io non ero isolata, noi leggevamo e scrivevamo, altri pubblicavano: era naturale stare nel racconto.
Io pensavo che la misura di Juan Carlos Onetti fosse la più giusta. Onetti scriveva prima del realismo magico, romanzi “brevi”. Si chiamavano così. Leggiti Il pozzo, lo ha ripubblicato Sur l’anno scorso, poi mi dici….

Ti chiedo però come hai cominciato, da dove venivano i tuoi primissimi racconti, che stagione era, come le idee si sono trasformate in parole; se sono quelli che poi abbiamo letto o sono rimasti in un cassetto, e come li percepisci adesso.

Come li percepisco adesso… mi serve un bicchiere di vino, aspetta.
Li trovo ingenui, ma splendidi. Oggi non lascerei mai andare dei racconti scritti così, quindi menomale che li ho lanciati senza starci a pensare. La mia lingua è cambiata come sono cambiata anche io, ma senza volerlo. Eppure dentro ci dev’essere quel principio originario che rivendica sempre di uscire e palesarsi e che era quello che covava quando ero piccina. Quando giravo per la casa dicendo «quando scriverò un libro lo intitolerò così», e ovviamente non ne scrivevo mai ma pensavo titoli a effetto. Dico questo perché se devo mettere a fuoco il mio primo racconto, mi viene in mente una favola crudele che scrissi per terrorizzare mia sorella Adriana (che è più giovane di me di nove anni) e che raccontava di una famiglia a cui muore la figlia minore ma nessuno se ne frega, e mi ricordo solo la fine di questa favola: la madre si affacciava nella stanzetta e guardando il lettino vuoto (della defunta!) diceva: «Chissà perché abbiamo comprato un letto in più». Diabolico, vero? Però io ero davvero giovane, avevo dodici anni.
I primi racconti “compiuti” che abbiano mai avuto dei lettori adulti li ho scritti all’università, per il corso pomeridiano legato alla cattedra di letteratura. Me ne ricordo due. Uno raccontava del Papa e del presidente dell’Iri, e un altro di certi topi alla stazione centrale di Napoli. Erano racconti politici, ma gli assistenti erano sbalorditi e gli altri studenti se li fotocopiavano, quindi. Scrivevo ‘sti racconti a mano, li ho perduti. Ne avevo uno bellissimo che feci leggere solo al mio fidanzato, era di fantascienza… Infine scrissi il racconto che si trova in Mosca più balena, alla fine, si intitola Il passaggio. Sentii che il momento era maturo, lo mandai prima a un concorso che non me lo prese, poi al Premio Calvino, che non lo premiò, infine a minimum fax dove lo trovò Nicola Lagioia.

Me la ricordo la ginnasta de Il passaggio (in quel Mosca più balena, fulminante libro d’esordio edito da minimum fax nel 2003), che quando la sua compagna le dice di essere incinta prima se ne va, senza proferire parola, poi torna e le butta giù dal balcone il pacchetto di sigarette, e così ha già detto tutto. Come ricordo la scena al ristorante in Il giorno dopo la festa che apre la tua ultima raccolta (Troppa importanza all’amore, Einaudi 2015), la cinquantenne che vi accompagna la madre ma poi temporeggia e attende lo sguardo del cameriere nello specchio del bagno, e lo incoccia tra le R e la O di PERONI. Beh, Michele Marziani, nel presentare questo numero del Colophon, scrive che il racconto «è un esercizio Zen, il fermo immagine su un particolare della vita: non si può sfocare a caso». E che in fondo scrivere un romanzo è assai più semplice, «la lunghezza aiuta e perdona molto all’autore». Tu che ne pensi?

Scrivere un romanzo è una cosa complicatissima. Io sono una scrittrice di racconti e faccio una fatica disumana nello scrivere i romanzi e dopo non sono mai contenta. Vorrei essere abbastanza brava da scrivere poesie, ma dovrei scriverne molte e tutte attaccate, della lunghezza di un racconto.
Seriamente, no. Credo siano difficili e facili entrambi: è più facile, come tutto nella vita, quello che ti appassiona di più. È più difficile, come tutto nella vita, quello che non ti aderisce davvero addosso. Poi uno può aggiustarlo, allargarlo, farci una piega, però non è un vestito su misura e si vede. Stiamo parlando di gente che crede nella scrittura come un luogo dove riversare il meglio che può e che sa (io adesso per esempio vorrei uscire — lunedì 12/12 ore 14:41. Fuori c’è una Napoli nitida, la vedo, ma se esco non scrivo e se non scrivo imbroglio e io sono una persona onesta) o, da lettore, dove cerchi solo il meglio che vuoi. Dove pretendi. Se poi parliamo di narrativa da autogrill, detto con tutto lo snobismo del caso, ma proprio tutto, quei libri vicino ai salamini di Norcia e alle catene per la neve… se parliamo di quella roba lì, ha ragione Marziani: uno scrivente può imbrogliare con un romanzo, ma con un racconto no. Però te lo immagini un autore autogrillato che prova a scrivere racconti? Io no. Se lo fa sono i soggetti di una serie tv… dai.

Ma riconoscerai che la distanza diluisce, facilita una tolleranza; non dovrebbe, ma è così. Tra i miei romanzi preferiti ce ne sono diversi che hanno uno, due capitoli in più, o che a un certo punto sbrodolano, deviano, rischiano di naufragare per poi ritrovarsi, e magari li amo anche per questo. Nel racconto breve non può succedere: ogni immagine pesa come un macigno, e più accorci e più s’incarognisce; o no?

Dice Sara Ventroni in una poesia che la poesia finisce quando non si ha più nulla da togliere. Vale pure per il racconto, e invece chiaramente per il romanzo non vale, il romanzo ama le descrizioni, i tempi lunghi per affezionarsi al personaggio. Il romanzo vuole sapere e il racconto vuole nascondere, quest’è. Quindi sì, senz’altro il romanzo può permettersi una pancia che il racconto, da ragazzo in forma quale dev’essere, non si può permettere. Però se è vero che i 100 metri sono la gara più seguita delle olimpiadi è pure vero che le olimpiadi sono nate con la maratona. Cioè voglio dire che non li continuerei a mettere a confronto tra di loro.

Julio Cortàzar dice infatti che «il romanzo è una meraviglia, ma la sua tecnica non funziona nel racconto: lo rovina». Eppure ci sono racconti e racconti, anche tra i tuoi: alcuni che sono una fiammata, un filo teso tra blocchi di partenza e linea del traguardo; altri più strutturati, divisi in capitoli, che mettono in campo più personaggi, che aprono finestre. Tu hai citato Il pozzo, un gioiello che si è pensato possa reggere una pubblicazione da sé, e di certo lo fa Gli addii, sempre di Onetti, che ci trascina in quella logora questione: racconto lungo o romanzo breve? Dove finisce il primo, dove comincia l’altro? Ce ne freghiamo, certo, ma forse hai una tua idea, una tua definizione che ti va di condividere.

Allora vediamo. Un racconto è un nucleo che esplode. Ho questa sfera rovente e amica tra le mani che possiede un’unica verità centrale, essa sia un’immagine, un dolore, un bacio. Tu lo tieni là e intanto ti distrai. Vai a scuola di Andrea, litighi con la testata per cui scrivi, fai la raccolta differenziata, scegli un cinema per stasera. La sfera che hai in tasca prende fuoco, ti accende il cappotto. Ti levi il cappotto, lo lasci nell’ingresso e continui. Rispondi alle domande di Emiliano, ti chiedi chi sia il nuovo premier incaricato, ti accorgi che mancano il caffè e i dadi da brodo vegetali. E quella ti sta incendiando l’ingresso. E allora devi fare qualcosa sennò tuo figlio non troverà una casa quando tornerà da scuola, e non potrai coricarti vicino all’uomo che ami e sarà colpa tua se il quartiere brucia. Ti vesti d’amianto, indossi la mascherina, prendi l’estintore e ti ci getti dentro.
Quando esci, se esci: non era accaduto nulla. Tutti sono incolumi e anche un po’ scocciati. Tu metti la tavola come se nulla fosse, infili le pantofole, ascolti quanto si sono stancati tutti — ma poi l’hai comprato il caffè? — e quando sei stanca anche tu che non ne puoi più, ti metti le mani vicino al naso e senti un vago odore di bruciato che ti commuove.

E Lo spazio bianco, forse il tuo libro che più porto addosso, quello definito come il tuo primo romanzo, che cos’è? Era una sfera rovente o qualcosa di più? Intendo quando ti sei seduta per farne parole, storia; lo sapevi dove ti avrebbe portata, lo immaginavi che stavolta non ti saresti fermata a pagina trenta? O c’era soltanto l’urgenza, l’esplosione iniziale?

Era sopravvivenza.
L’8 marzo 2006 avevo cominciato la mia collaborazione con Grazia, che dura tutt’ora. Qualche tempo dopo era nato mio figlio, molto prematuro. Mentre ero ancora ricoverata chiesi al mio amico Pier Luigi di portarmi in ospedale le ultime uscite della settimana e una poesia. Scrissi un numero per Grazia, lo caricai su una pennetta, senza dire nulla dissi via sms che avrei consegnato la pagina da un altro account e-mail.
Leggere, scrivere, non pensare. Cominciò lo spazio bianco, quello vero, fatto di ingressi e uscite dall’ospedale, io tornai dallo psicologo e gli dissi «da questa cosa che mi sta succedendo non verrà nulla di male». Non era vero, non sarebbe stato vero, ma lo dissi, me lo ricordo. Era il mio assioma, lo è ancora.
Ad agosto di quell’anno, avevamo finito le nostre traversie ospedaliere solo da un mese, scrissi la mia prima opera teatrale, Il verdetto. Lo feci per una mia amica, Cristina Donadio, la “Scianel” di Gomorra — La serie. Lo spazio scenico lo costruì Mario Martone, ricordo che stavo alle prove, nel ridotto del Mercadante, e davo ad Andrea un formaggino omogeneizzato. Debuttò il 5 febbraio 2007. Subito dopo aprii un file sul mio pc, si intitolava Appunti dall’esperienza. Cominciava Lo spazio bianco.

L’esperienza era la mia vita, la nostra. Era la mia determinazione a non farmi distruggere. Scelsi un alter ego, un filtro minimo per nascondermi, un lavoro rassicurante per la protagonista che le permettesse di stare in ospedale senza perdere se stessa, e mi misi a raccontare. Il destino mi appariva come un nemico esterno ed ero decisa a combattere la mia battaglia, sia per la nostra vita, sia per la vita della mia scrittura. Con il tempo ho capito che non è così, ma ero così inesperta allora. Ogni volta che ho sentito da qualche parte un’ingiustizia, ho scritto. Così è andata, ed è per questo che molti miei racconti sono “politici”, o parlano di malattia, o di detenuti, o di persone ai margini. È il mio istinto di sopravvivenza, è il mio “non mi toglierete pure questo”. A chi è destinato non lo so, non credo in nessun dio e manco nel destino. Però questo urlo credo parta dalla gola di ogni scrittrice e ogni scrittore.

Grazie per il tuo urlo, Valeria. E per le tue risposte. Te ne sono grato. Te ne sono così grato che adesso potrei risparmiarti la domanda sugli autori preferiti se mi fai la lista dei racconti della vita: quelli che ti hanno sconvolta, segnata, accompagnata, quelli che trovi siano fondamentali e che non ti stancano mai, e che ti porteresti sull’isola deserta.

Conrad, I duellanti
Borges, Il miracolo segreto
Cortazar, Le bave del diavolo
Tolstoj, Il diavolo
Zweig, La novella degli scacchi
Checov, Il duello
Colette, Camera d’albergo
Ortese, La città involontaria
Munro, In fuga
Baudelaire, Lo straniero
Blixen, Il pranzo di Babette
Mann, Le teste scambiate
Cheever, Il nuotatore
Kristoff, La vendetta
Wharton, Anime attardate
Banti, Le donne muoiono
Hemingway, La breve vita di Francis Macomber
Kafka, Il silenzio delle sirene
Schnitzler, Il sottotenente Gustl
London, La legge della vita
Salinger, Un giorno tranquillo per i pescibanana
James, La bestia nella jungla
Fitzgerald, Il diamante grosso come l’hotel Ritz
Auster, Il taccuino rosso
Pynchon, Entropia
Leavitt, Ballo di famiglia
F. O’Connor, La schiena di Parker
Poe, Il pozzo e il pendolo
Fante, Rapimento in famiglia
Yates, tutto il bene possibile
Wallace, La ragazza dai capelli strani
Carver, Vuoi stare zitta per favore, oppure Cattedrale
Capote, Il giorno del ringraziamento
Joyce, I morti
Stevenson, Il padiglione sulle dune
Mansfield, Garden party
Dostoevskij, Il signor Procarchin
Flaubert, Un cuore semplice
Nerval, Silvye
Pushkin, La dama di picche
Gogol, La prospettiva Nevskij
Maupassant, Palla di sego
Lampedusa, La sirena
Landolfi, La muta
Pavese, Fedeltà
Fenoglio, La pioggia e la sposa
Buzzati, Racconto di Natale
Levi, Tiresia
Calvino, La formica argentina
Leopardi, La morte e la moda
Boccaccio, Andreuccio da Perugia
Freud, L’uomo dei lupi
Vangelo, Luca, Il figliuol prodigo
Basile, Talia, sole, luna
Platone, Il mito della caverna

Però sull’isola deserta mi posso portare Andy Garcia?

--

--

IL COLOPHON
IL COLOPHON

RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE