IMPERFETTE SANTITÀ

IL COLOPHON
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5 min readJun 9, 2018

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racconto di Danilo Laccetti

prima.

Essendosi fatta conoscere, con appropriata notizia seminata nel quartiere da anni, quale parrocchiana appena un poco “fuori dalle righe” — peccato non è, tutt’altro, sposare lo zelo a certo bollore che l’età aguzza fino alla mania più decisa (ma niente, niente oltre la naturale soglia di una frenesia capace di mondare i guasti d’una mente crocifissa, la quale con diversi mezzi non avrebbe balìa di mantenersi lucida da sé) — la richiesta, porta con angoscia sfumante in pittoresco imperio, lo fece attonito alquanto. Più volte provò don Nestore a ritrarla da un simile proponimento; Adelina, un esorcismo va applicato quando se ne ravvisi la concreta necessità. Voleva aiutarla, sì o no? Doveva prendere carta e penna, bussare alla diocesi, pietire comprensione, soccorso, tutela? Oppure braccia conserte davanti alla disgrazia di quella povera creatura? Quanto ancora avrebbe dovuto soffrire, povera anima di dio?
Suo figlio, anni trentanove, un lavoro, interessi, un amore, delle amicizie, mai e poi mai, precoce e brusca interruzione della scuola, cameretta, letto, unico nido, perpetuo, c’era bisogno di chi lo curasse; un medico, perché non tentare con dei farmaci, farmaci giusti per la sua condizione?
Si sigillò in casa anche lei; le funzioni, domenica in testa, deserte. Andiamola a trovare; animo, don Nestore, le si potrebbe prospettare un intervento di padre Morras: la farà più mansueta.
Faticò a farsi aprire; messo in conto anche questo.
Bisogna ragionare, Adelina, comprendere esattamente come stanno le cose; insomma, andare a scomodare, eppoi?
Corte maniche d’un’azzurra tunica; ai piedi, scalzi, un rosario di croste, le braccia segnate da tagli, escoriate, illividite le unghie, alcune saltate (ripeteva Adelina di sorprenderlo ora con il martello, ora con il cacciavite a darsi dei gran colpi); una gonfia parrucca color cobalto fin sopra i gomiti, scarduffatissima. Riccardo sorrise impercettibile, sfiatò un due o tre amen appassiti e trasvolò dal soggiorno alla sua camera; dietro di lui un persistente sfogare d’urina congiunta a igiene assai scadente. Poi furono udite invocazioni, fragorose, monotone; pronunciate in fretta, dapprincipio; subito dopo a trascinarsi lentamente, sillaba dopo sillaba.
Cos’altro aspettare, cosa? Possibile mai, Adelina, che il demonio possegga tuo figlio facendogli credere di ospitare l’anima di santa Caterina di Bolsena? Che razza di possessione è mai questa?
Grinza la pelle della fronte, contratti i nervi, la vecchia (d’improvviso così apparve, trasfigurata; per le sciupate vesti di casa, un’altra notte di tormento consegnata alla veglia del figlio) s’annebbiò; una scarica di rabbia nei pugni serrati e proferì d’un fiato: «ma che prete sei, non sai che il demonio è furbo, si nasconde dove non pensi mai di trovarlo? Ieri quel disgraziato, mentre cucinavo gli spaghetti, ha infilato una mano nell’acqua bollente, manco un grido, sorrideva, ha sorriso tutto il tempo, un minuto, almeno un minuto buono, che prova vuoi, che si tuffi sano sano nella pentola?».

seconda.

Poteva mai darsi riconoscimento migliore per uno come lui, una vita consacrata, prima, agli studi di economia politica, le decine, decine di conferenze in accademie d’antico blasone, poi, non pochi anni di responsabile servizio, consulenza preziosa per ministri e capi di governo (senza stare a questionare sui “colori” di chi lo interpellava ma con il solo fine di propiziare l’interesse comune)? Prossimo ai settanta, che parecchi e scostumati affanni del corpo malandavano, quando il Presidente della Repubblica l’appellò perché accettasse un seggio da senatore a vita, il professor Teodosio Regis assentì.
Giusto il giorno precedente la cerimonia al Quirinale Carlotta, sua unica figlia, da qualche tempo traslocata in casa del padre, vedovo da troppo oramai, si vide annunciare inattesa la visita di Oscar Leonessa e la cosa, naturale, non la impressionò; una delle più celebri firme del giornalismo italiano: cortese omaggio, chissà, magari vorrà un’intervista.
Se ne rammaricava: l’ennesima fisioterapia l’aveva trattenuto più del solito; un’ora, non oltre, sarebbe stato di ritorno. Poco male; anzi, a dire il vero lo sapeva; non era con lui, d’altra parte, che voleva parlare.
Omessa con tale speditezza ogni cerimonia, Carlotta lo seguì procedere in salotto, disserrare una panciuta cartellina, assumere, privo di indugio, il piglio sicuro di chi esprime cose indagate con scrupolo, fin nel minutissimo dettaglio, nulla tralasciando.
Mostrò fotografie, indicò documenti d’archivio, ancora messi sotto la custodia del segreto di Stato, pose in elenco, rapido quanto sicuro, nomi, date, luoghi, eventi, circostanze, testimoni di provata fede, deposizioni e udienze di “certe” commissioni, blogliacci di questura, rendiconti e fascicoli transitati per le mani di politici di gran momento, ai tempi: ancora studente Teodosio Regis, detto Tedo, a Milano fotografava le riunioni dei collettivi universitari già al principio del ’68, poi trascorreva da alcuni gruppi di destra, lo stesso dagli anarchici, per finire dritto la sera in prefettura, opportunamente esplicando quanto visto e sentito; almeno fino alla metà dei ’70 aveva zelato la causa dell’Ufficio politico locale. Poi quei quattro anni; quattro anni, a secondare le biografie accreditate, di eruditissima dottrina presso l’ateneo di Stanford. A certuni, però, s’acconsente talvolta l’ubiquità; prima a Genova, poi a Roma, venivano, uno dopo l’altro, scoperchiati diversi covi; un’intera colonna brigatista quasi per intero decimata. Tra i sospettati di favoreggiamento, in mezzo alle liste dei ricercati, alla fine arrestato in rocambolesca retata notturna, eruppe Giuliano Orsi, il compagno Marcello, una seconda, terza fila, dissero; ma, ancora in camera di sicurezza, al compagno Marcello sortì d’impiccarsi con i lacci delle scarpe. Sue fotografie i giornali non ne offrirono; un nome, fra i tanti, presto sepolto dal tumulto dei tempi. Di lì a poco Teodosio Regis operò la sua trionfale ascesa alla cattedra di ordinario nell’università La Sapienza di Roma, evocato a viva forza dal rettore e dal consiglio di Facoltà tutto.
Per vigorose proteste Carlotta argomentò, decisamente rigettava quanto aveva ascoltato; le lasciava l’intera cartellina, due copie della stessa essendo depositate presso notai di fiducia. La donna s’era scomposta, molto; Oscar Leonessa attendeva; gli occhi di lei, quando s’ammutì, fiammeggianti una malizia ferita, qualcosa come un colpevole disappunto: l’amarezza di una complicità dirottata in modo piuttosto mediocre.
Avanti, cosa voleva? La cifra trascritta su un taccuino la sbigottì: tre, quattro volte tanto s’aspettava. Quello era solo l’acconto, le fu detto; per avere tutte e tre le cartelline era opportuno aggiungere alla somma uno zero.
Alla vista dell’assegno compilato a dovere l’uomo gracchiò un torbido sorriso; lo strappò: meschino il padre, meschina la figlia.
Una settimana passò prima che i quotidiani particolareggiassero la lontana, sconosciuta porzione di vita del senatore Teodosio Regis; per soprammercato dettagliò una telecamera il dialogo, l’assegno strappato, il congedo che fra Carlotta e Oscar Leonessa intercorse assai ruvidamente.
L’interezza dell’incartamento, fotografie, timbri, carte bollate, firme, venne sollecitamente denunciato quale figlio d’una criminosa contraffazione, il medesimo video un’opericciola scopertamente manufatta dal suo maldestro artigiano, il quale, condannato a sua volta per calunnia e tentativo d’estorsione, bandito a vita dall’Ordine dei giornalisti, vituperato in ogni grado di giudizio, annerito a ogni latitudine del consesso sociale, parve levitare, per virtù propria svaporando dall’orizzonte delle terre emerse; quasi che il corpo di Oscar Leonessa da palpabile si facesse materia d’aria; come in un acceso tramonto, di quelli che d’autunno colorano di bigio e rosso malinconico le nuvole, qualsiasi traccia, memoria, scritto affiochì, al modo in cui ai vecchi di colpo i ricordi balbettano, perdono sangue, inabissati senza più ritorno, salme prive di nome.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE