IN VIAGGIO NEL TEMPIO SENZA PARETI

IL COLOPHON
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8 min readAug 2, 2016

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La letteratura di viaggio giapponese, i monaci e i poeti di Stefano Rossini

Il Torii è il tipico arco giapponese che introduce al Jinja, il tempio, o allo spazio sacro. Semplice, con due colonne e due architravi di legno, segna un ingresso che è solo personale, non reale, perché di là dal portale non c’è nulla: lo si attraversa e ci si ritrova dove si era prima, nella cuore di una natura rigogliosa e amena.
Non è uno strano scherzo orientale, ma una necessità, nata dal fatto che lo shintoismo (l’insieme di culti e credenze del Giappone) venera come bene supremo l’armonia con la natura e, quindi, la natura stessa. Non serve un tempio e anche quando c’è, è semplice, di legno, e immerso nei luoghi naturali più suggestivi.
“Luogo benedetto e santo, verdeggiante di teneri rami, trafitti dal sole” scrive il poeta itinerante Matsuo Basho per onorare il tempio di Tokugawa. Tempio e natura sono la stessa cosa, la bellezza dell’una è la bellezza dell’altro. “La natura è un tempio in cui viventi colonne lasciano talvolta sfuggire confuse parole” dirà Baudelaire due secoli più tardi, aggiungendo all’essenzialità orientale la ricerca di un significato ulteriore.
Basho è il poeta giapponese per antonomasia, in ogni caso il più amato e considerato tra i massimi autori giapponesi della poesia haiku. Viaggiatore instancabile, fece del viaggio la sua vita, e della natura la sua casa. Visse tra il 1644 e il 1694 tra Kyoto, Edo, Osaka e soprattutto spostandosi da un luogo all’altro. Nel corso della sua esistenza raccolse attorno a sé un folto seguito di discepoli attirati dalla sua poesia così semplice e scarna, attenta all’attimo attorno al sé, al qui e ora, e al vuoto.
A Basho si deve l’elevazione dell’haiku da poesia ludica e d’intrattenimento a una forma essenziale e ricercata, imbevuta di buddismo zen e di continua ricerca. La forma codificata dal poeta è quella giunta fino a noi: tre versi di cinque, sette e cinque sillabe con allitterazioni interne, ma senza rima. Nella forma classica deve essere sempre presente il kigo, il riferimento alla stagione e alla natura.
Basho compone principalmente per strada. Itinerante per scelta, nel suo bagaglio non manca il necessario per scrivere e dipingere. I suoi versi sono un’istantanea di ciò che si propone attorno al suo peregrinare. La sua poesia coincide con l’itinerario quotidiano dell’esistenza.
“Antico stagno! Salta dentro una rana — Il suo d’acqua”, “Sul ramo spoglio, un corvo che si posa — Sera d’autunno”, “Il silenzio penetra nella roccia. un canto di cicale”.
Spolpate fino all’eccesso di ogni fronzolo, di ogni fiato in eccesso, le poesie di Basho danno voce alla natura. Nei brevi versi del poeta parlano i fiori, le cascate, le rocce, gli alberi, la luce della luna, e nel mezzo le gioie e le avversità dell’uomo, perché tutto è kami, divinità, tutto partecipa di questa dimensione. Per questo la vita non può essere altro che peregrinazione. Non un viaggio per imparare, ma un viaggio per subire la vita, farsela cadere addosso.
Scrive Basho all’inizio de L’Angusto sentiero del nord, il libro che racconta le sue peregrinazioni: “I giorni e le notti si alternano fugaci, come perle sfilate da un rosario. Ugualmente gli anni sorgono e tramontano. La nostra vita è un viaggio, che alcuni trascorrono in barca; altri per strada, finché non invecchiano i cavalli del loro carro. Non è la strada la nostra vera dimora?”
Giunto attorno ai quarant’anni, Basho si rende conto che è arrivato il momento di partire:
“Anche per me giunse il giorno in cui l’infinita libertà delle nuvole mosse dal vento chiamava a vagabondare lungo le coste selvagge di Ki”.
Come un vero monaco, vende la casa, indossa il cappello largo fatto di paglia, abiti di carta dura e sandali. Con sé aveva solo una sacca con la carta, la china, i pennelli, il rosario buddhista, un gong e un piccolo flauto.
“Finisce l’anno — Ancora indosso il mantello e sandali di paglia”.
Il libro è un alternarsi di prose che raccontano i luoghi visitati da Basho, le persone incontrate, alcuni episodi, e brevi haiku che aprono all’illuminazione.
“Quando il cielo si schiarì, dopo la corte notte estiva, ci rimettemmo subito in cammino, ma quella notte infernale mi aveva tolto ogni entusiasmo. Noleggiammo dei cavalli per cercare di raggiungere prima del buio il borgo di Kori.
Tragitto interminabile, in cui non smisi di considerare la nera prospettiva di ammalarmi. Fin da quando progettavo il viaggio avevo accettato l’idea che la morte potesse sorprendermi nel corso del pellegrinaggio ai confini del Paese. Ero rassegnato all’impermanenza delle cose. Se questo fosse stato il mio destino, sarei caduto sul ciglio della strada e morto nel fosso come un mendicante. Con questo pensiero fisso mentre cavalcavamo, ritrovai il coraggio e varcai con passo risoluto il gran portale di Date”.
E poco oltre: “L’erba secca d’estate è tutto quanto resta del sogno dei guerrieri”.
Daigu Ryokan è un altro poeta molto amato. Morto nel 1831, peregrinò per lunghi anni della sua vita nelle zone più sperdute del Giappone prima di ritirarsi sul monte Kugami, dove visse come asceta. Scrive di sé: “Dal giorno della mia venuta in questo luogo sono trascorsi molti anni. Quando sono stanco, mi riposo; quando sto bene, metto i sandali e cammino. Non mi curo delle lodi degli altri, non mi lamento del loro disprezzo. Con questo corpo, ricevuto dai genitori, mi abbandono al mio destino, gioiosamente”.
Preferì passare la sua vita camminando, meditando e calligrafando poesie, sulle tracce dei poeti erranti, e diventando un “un-sui” che letteralmente vuol dire nuvola e acqua, ad indicare il carattere di libertà e transitorietà del poeta monaco in questo mondo: vagabondo, libero, senza cure.
Un’antologia di Racconti dei saggi del Giappone riporta un episodio della sua vita.
“In una fresca notte d’autunno, Ryokan dormiva nel suo eremo di Gogo-an. Svegliato da una ventata gelida, si accorse che la sua coperta era scomparsa. Alla luce madreperlacea della luna che rischiarava l’interno della capanna, scoprì che un ladro gli aveva portato via ogni cosa. Eppure, in quella capanna di monaco mendicante c’era ben poco da rubare: un bricco, un mattoncino d’inchiostro di china, qualche pennello, una statuetta lignea di Jizo.
Ryokan capì che il ladro doveva trovarsi in un’indigenza ancora più grande della sua, visto che gli aveva trafugato anche la coperta rappezzata. Ma il Grande Idiota Misericordioso [così era chiamato il monaco per la sua abitudine di giocare coi bambini] apprezzava sopra ogni cosa il poter contemplare l’astro notturno, invitatosi nella sua dimora attraverso lo shoji, la porta finestra scorrevole spalancata. Allora, con un sorriso bonario, improvvisò questo haiku:
Una cosa il ladro non ha potuto rubarmi: la luna che splende dalla mia finestra”.
Chi vive per strada, chi viaggia come un monaco non si attacca agli oggetti, non ha altri possedimenti che se stesso e la natura attorno a lui. Uomo e natura sono la stessa cosa: “Da giorni e giorni la pioggerella cade — invecchia l’uomo” scrive Ryokan.
La luna nel cielo e il guanciale d’erba sotto il capo, così dorme il viandante. Il guanciale d’erba è infatti il tipico cuscino utilizzato dai monaci pellegrini, ed è anche il titolo di un romanzo di viaggio di Natsume Soseki, nel quale si racconta il viaggio di un poeta pittore lungo un sentiero di montagna verso uno sperduto villaggio.
A differenza di Basho e Ryokan, Soseki non era lui stesso un monaco itinerante, era professore universitario e scrittore. Ma le pagine sono vivide e le atmosfere reali. “Salivo per un sentiero di montagna e riflettevo”. Comincia così il romanzo e subito si getta in un lungo andirivieni di pensieri sulla vita e sul tempo trascorso, fino a che: “Approdati i miei pensieri fluttuanti in questo punto, il mio piede destro inciampò improvvisamente in un lato di un’instabile e spigolosa pietra”.
Il cammino procede, alternando passi, meditazioni e momenti in cui la natura predomina e svuota la mente da ogni pensiero, riempiendola solo di immagini e di attimi. Lungo il cammino il poeta incontra personaggi bizzarri, altri viandanti solitari, paesani e nobili. Poi, la pioggia improvvisa lo costringe a cercare riparo in una piccola casa da tè. Qui, apprende dalla tenutaria la storia di Nakoi, una giovane fanciulla desiderata da due uomini, che andò in sposa a quello che lei non amava. La vicenda di Nakoi viene raccontata al protagonista attraverso un’altra storia, quella della ragazza di Nagara, anche lei divisa tra due uomini e incapace di scegliere. Il giorno in cui partì, il suo cavallo si arrestò sotto il ciliegio davanti alla casa da tè, e dei fiori caddero qua e là, come macchie sul suo candido vestito. Il dilemma la consumò fino a spingerla a gettarsi nel fiume Fuchi.
Il poeta raggiunge il luogo dove vive Nakoi, e dimora lì per alcuni giorni. Il rapporto con la donna è strano, mutevole. Spesso vorrebbe pararle ma non riesce, altre volte le risposte di lei lo spiazzano.
“Come mai non riesco a parlarle? mi domando, e in quell’istante la donna passa di nuovo. Apparentemente non si preoccupa affatto dell’esistenza di chi la guarda e sta in ansia per lei. Passa come se, per fastidio o per compassione, fin dal principio non avesse mai badato a uno come me. ‘La prossima volta’, medito e intanto i cumuli di nuvole lasciano graziosamente cadere i fili della pioggia, quasi che non riuscissero più a trattenerli, e silenziosamente celano l’immagine della donna”.
Da poco più di un secolo, i pellegrini e viandanti del Giappone hanno un’altra meta, un santuario che racconta una storia, un mito, che da solo vale più di un romanzo. Il villaggio è quello di Shingo, nella prefettura di Aomori, nel nord del Giappone. Nel 1933 vengono ritrovati alcuni documenti ebraici secondo cui Gesù Cristo non sarebbe stato crocefisso sul Calvario. Sulla croce al suo posto ci finì il fratello Isikuri, mentre Gesù fuggiva attraverso la Siberia fino ad arrivare a Mutsu, nella provincia nord del Giappone, dove si stabilì e divenne un coltivatore di riso. Prima di mettere definitivamente radici e crescere i suoi tre figli nella vicina Shingo, Gesù viaggiò per tutto il Giappone, imparando lo Shintoismo e diventando quindi lui stesso monaco pellegrino. Visse fino all’età di 106 anni. Nel villaggio di Shingo, in un tumulo, sono sepolte le ossa di Gesù, mentre un altro tumulo è dedicato al fratello Isikuri.
Il tumulo, la tomba è l’unica vera fine del viaggio, ma come il Torii è un ingresso che porta nello stesso luogo, anche il tumulo è un passaggio che riporta alla stessa natura.
Ascoltando lo scorrere dell’acqua da una fontana di bambù, cadenzata dal movimento e dal battito del legno che si riempiva e svuotava, Basho scrisse una poesia sull’imminenza della sua fine.
“La sua morte prossima. Nulla la fa prevedere, nel canto della cicala”.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE