IO, TONDELLI E LA NUOVA NARRATIVA DEGLI ANNI OTTANTA

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7 min readAug 3, 2018

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Intervista a Piersandro Pallavicini di Angelo Ricci

Piersandro Pallavicini è nato a Vigevano nel 1962. È docente all’Università di Pavia, dove svolge ricerche nel campo della nanochimica inorganica. Con Feltrinelli ha pubblicato i romanzi Madre nostra che sarai nei cieli (2002), Atomico dandy (2005), African inferno (2009), Romanzo per signora (2012) Una commedia italiana (2014; vincitore del Cortona Mix Prize 2014 e finalista al premio Città di Vigevano 2014), La chimica della bellezza (2016) e, nella collana digitale Zoom, London Angel (2012), Racconti per signora (2013) e Dalle parti di Arenzano (2014). Collabora con TuttoLibri, supplemento culturale de La Stampa.

Cosa c’entra Piersandro Pallavicini con la “nuova letteratura” degli anni Ottanta, con il “rinascimento marchigiano”, con Pier Vittorio Tondelli?

«È l’ambiente letterario in cui mi sono formato, sono le letture che per me sono state importanti. Rimini non l’ho mai utilizzata come luogo delle mie narrazioni tuttavia è il luogo iniziale del mio immaginario letterario di allora. Autori come Silvia Ballestra, Angelo Ferracuti, la casa editrice Transeuropa, Pier Vittorio Tondelli, libri e articoli che vanno formando un insieme di ricordi, un contesto che allora non pensavo avrebbe avuto riverberi così mitici. È come se qualcuno ti raccontasse qualcosa che non hai vissuto ma con cui senti di avere un inseparabile legame umano e narrativo. Questo è ciò che mi lega indissolubilmente a quel periodo.
Io negli anni Novanta ho frequentato la parte marchigiana di quella mutazione narrativa. Ricordo le mie esperienze con Transeuropa che fu la fucina di autori come Silvia Ballestra, Enrico Brizzi, Romolo Bugaro. Ricordo gli Under 25 di Tondelli, la mia formazione come autore con Transeuropa e poi l’esordio con Pequod che allora, prima di diventare una casa editrice autonoma con Marco Monina era una collana di Transeuropa».

Quanto è stata importante per te quell’esperienza?

«È stata un’esperienza umana e formativa dal punto di vista narrativo che non ho ancora espresso compiutamente. Tuttavia in essa mi rispecchio in modo totalizzante per quello che ora sono come autore. I semi gettati allora hanno fatto di me quello che sono oggi come scrittore.
Ho imparato moltissimo da Massimo Canalini che era il fondatore di Transeuropa e credo di dover molto anche a Gilberto Severini cui devo la pubblicazione del mio primo romanzo con Pequod. Ho sempre considerato Severini come un vero e proprio maestro. È stato come autore un punto di riferimento per tutta la mia generazione».

Cosa ricordi di quel periodo?

«È stato una sorta di rapporto iniziatico che ha avuto per me influssi estremamente positivi legati alla mia formazione di scrittore. Quella esperienza mi è rimasta come un ricordo quasi mitologico della mia formazione di scrittore. Si faceva sempre tardi nei piccoli bar aperti fino a notte fonda nel porto di Ancona con Gilberto Severini e Massimo Canalini. Si parlava di letteratura fino alle prime luci dell’alba. Una cosa che oggi sarebbe impossibile e irrealizzabile. Avevi come l’impressione di arrivare fino ai confini di territori letterari ancora inesplorati. Le ricordo come autentiche scintille di bellezza. Quando scrivo in qualche modo cerco sempre di ricongiungermi a quelle che posso definire delle autentiche esperienze primarie. Rappresentano per me un ricordo dolcissimo cui tendo a ritornare senza però riuscirci, come accade per tutti i ricordi di cui serbiamo una memoria di pace e tranquillità».

Cosa ha rappresentato per te la figura di Pier Vittorio Tondelli?

«Pier Vittorio Tondelli è stato a lungo una figura di riferimento per la generazione di scrittori cui appartengo. Oggi non è più così perché altri scrittori si sono via via presentati all’attenzione dei lettori e dei critici. Tuttavia mi sento di aggiungerlo come elemento imprescindibile alla definizione della mia esperienza primaria di allora. Se ho iniziato a leggere e a scrivere lo devo soprattutto a lui. Lo considero non soltanto come modello di scrittore ma anche e soprattutto come autore, autore che riesce nell’impresa di descrivere letterariamente il suo mondo, a conferirgli una dignità letteraria.
Tondelli ha dimostrato che si poteva eccellere nel panorama letterario al di là delle definizioni dominanti fino ad allora. Ha saputo dimostrare che l’accesso alla letteratura non doveva essere per forza precluso alle esperienze giovanili.
Naturalmente il talento letterario è e rimane la condizione fondamentale, però grazie a lui sono arrivati all’attenzione editoriale scrittori come Giuseppe Culicchia o Gabriele Romagnoli che non possedevano il background classico del letterato così per come fino ad allora era inteso.
Erano nuovi risultati anche dal punto di vista stilistico. Il fatto che questi autori avessero ottenuta una credibilità letteraria fece capire agli scrittori della mia generazione che, ovviamente mantenendo ferma la presenza del talento, in qualche modo si potesse entrare nel mondo della letteratura fino ad allora precluso. Anche un chimico, e non solo un docente di letteratura italiana, avrebbe potuto essere preso in considerazione dal punto di vista della produzione narrativa».

In questo senso c’è stato uno spartiacque, secondo te, tra la letteratura degli anni Settanta e quella degli anni Ottanta?

«La letteratura degli anni Settanta è stata una letteratura che si rifaceva in qualche modo a un’analisi collettiva, politica, ideologica, se vuoi, utilizzando un termine forse abusato. Era essenziale, in qualche modo, che la letteratura fosse militante, impegnata, engagé. Negli anni Ottanta invece Andrea De Carlo, Claudio Piersanti, Enrico Palandri ci insegnano che si può dare una dignità narrativa al racconto delle tracce di vita di un’intera generazione al di là di ogni definizione di appartenenza politica. Quindi lo stile narrativo della determinazione generazionale ritorna in auge rispetto alla predominanza della analisi politica. Potrei dire che tutti questi autori, da Tondelli in poi, riconsegnano una dignità letteraria al racconto generazionale, alla narrazione delle vite e delle anime, liberi finalmente da un approccio ideologico e politico. Tutto questo riporta l’interesse della narrativa dal collettivo al singolo».

Ma non trovi che questo sia stato una sorta di parallelismo letterario legato al ritorno al privato, a quello che alla fine dei Settanta si definiva riflusso, movimento non scevro da interessi politici a cui interessava che ci si richiudesse nel privato?

«No, perché la cosa fondamentale è stata che i narratori hanno ripreso a raccontare storie e in tal modo si sono riappropriati di un ruolo che era stato loro portato via dall’eccesso di ideologia. Lo scrittore deve soprattutto raccontare storie e non essere uno strumento inconsapevole di qualcosa che va oltre la sua opera».

Come vedi la narrativa che ci circonda in questo istante?

«Trovo molto barocchismo, molto manierismo. È il tipo di letteratura che oggi è più apprezzata. Secondo me, invece, la narrazione deve per forza di cose basarsi più sulla forza della storia, sulla potenza della trama che non sullo stile. Il narratore deve avere qualcosa da raccontare e non pensare invece a come raccontarlo. Saper raccontare è molto difficile perché ti fai carico di un progetto che devi saper dosare con infinita sapienza. La bellezza di una storia è qualcosa di sfuggente, di cui non ti devi per forza accorgere, anzi, la bellezza di una storia è come l’eleganza di Lord Brummel, non ti devi accorgere che c’è».

Come vedi oggi il compito dell’editoria?

«L’editoria ha avuto una grande funzione di scouting negli anni Novanta, con le antologie, le riviste letterarie. Oggi non è più così, complice anche il fatto che la crisi economica ha lasciato il segno. C’era all’epoca una autentica attenzione per la ricerca di nuovi autori. Questa modalità di ricerca si è da tempo esaurita, si sono ristrette le forze, è venuta grandemente scemando la disponibilità economica e oggi questo lavoro di ricerca viene svolto pochissimo. C’è poco tempo e forse non c’è nemmeno più la volontà per farlo».

E la rete? Internet?

«Sicuramente c’è stato all’inizio il tentativo da parte di alcune realtà editoriali di rilevanza nazionale (penso alla collana Zoom di Feltrinelli) di ricercare sulla rete quelle novità letterarie che non avevano più lo spazio delle antologie e delle riviste, ma ho l’impressione che anche questo tentativo sia venuto meno. Non mi pare che dalla rete sia mai arrivato un narratore in grado di ottenere la necessaria legittimazione editoriale. Ho come l’impressione che questa sperimentazione si sia ripiegata su se stessa e non mi pare che, a parte qualche youtuber o qualche comico, dalla rete sia giunto un qualche scrittore da prendere in considerazione in senso letterario».

Come vedi il panorama letterario odierno?

«È un panorama così ricco, così vasto, così vario che rischia di ottenere non una visibilità estrema ma una lenta morte per soffocamento. La produzione libraria è così vasta che ormai va ben oltre la capacità di lettura del singolo lettore, anche di quello più forte. Credo che il problema sia dato da una sorta di sindrome di sovrapubblicazione che ha già abbondantemente saturato sia il mercato sia la capacità di lettura e anche soltanto quella di mettersi distrattamente sfogliare un libro».

Che soluzione proponi?

«Sono gli editori che devono iniziare a ridurre le pubblicazioni, a fare una seria politica di selezione sia di testi italiani che stranieri. E a doverlo fare sono i grandi editori, quelli dei grandi numeri, non i medi o i piccoli che sono quelli dove si fa ancora almeno quel poco che resta di ricerca narrativa».

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