LA FONDAMENTALE INUTILITÀ DELLA POESIA

IL COLOPHON
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4 min readOct 5, 2016

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Eugenio Montale e il suo discorso in occasione del Nobel per la letteratura di Giulia Annecca

Il 12 dicembre 1975, a Stoccolma, in occasione dell’assegnazione del Nobel per la letteratura, Eugenio Montale si chiedeva, se fosse ancora possibile la poesia. Circa sei mesi prima debuttava al cinema Amici miei di Mario Monicelli, film in cui sotto il velo di una disincantata ironia si faceva spazio un non più trascurabile sentimento di precarietà della vita umana, legata ad un filo man mano più esiguo chiamato prospettiva. Cosa accomuna il discorso di Montale e la pellicola di Monicelli? Lo sguardo sul non senso generale che sembra trascinare in un domani dai contorni molto vacui l’esistenza degli italiani, in Monicelli, e degli uomini più in generale, in Montale, in quel preciso momento storico. Gli anni Settanta dell’ultimo album dei Beatles (Let it be) e della Bloody Sunday, delle Olimpiadi di Monaco e della strage di Piazza della Loggia a Brescia, del divorzio in Italia e dello scandalo Watergate negli USA. Il 1975, però, sin da subito sembra profilarsi come un anno di riflessione non solo sui recenti accadimenti, ma anche sul secondo dopoguerra: sì, perché con la fine della guerra in Vietnam, la legittimazione in Italia dell’aborto a scopi terapeutici, Bill Gates e la sua neonata creatura (la Microsoft Corporation), la Fiat che sospende la produzione della 500 con cui si era dato l’avvio alla motorizzazione di massa in Italia e l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, si avverte l’esigenza di incanalare il fiume della storia in argini se non restrittivi, quantomeno comprensibili. In una realtà storico-sociale all’insegna del dinamismo bieco e cieco, della vincita del puro materialismo, del fine che giustifica i mezzi, del «trionfo della spazzatura» , dell’esorcizzazione dei propri fantasmi attraverso l’alienazione, l’abbandono e la dimenticanza di sé, la poesia può ancora comunicare qualcosa? O meglio, che senso ha la poesia? Eugenio Montale era pervenuto già anni addietro all’idea che l’unica poesia possibile fosse la presa di coscienza di vivere nell’epoca della prosa, in cui la poesia «dovrebbe logicamente tendere al mutismo». Eppure il poeta ligure non può fare a meno di comporre versi, così nel 1971 esce la raccolta di poesie Satura, in cui è evidente che Montale stia vivendo ciò che diceva commentando e recensendo nel 1965 il libro di Vittorio Sereni, Gli strumenti umani:«[…]un poeta che, come Sereni ha detto, trova sempre più insopportabile la qualifica di poeta (e non è il solo a dirlo; ma il difficile comincia dopo, quando si è costretti a vivere sul rovescio della poesia, accettandone i rischi e le torture e la necessità di mimetizzarsi nel modus vivendi dell’uomo della strada)».
Quel giorno di dicembre del 1975 al Konserthuset di Stoccolma l’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto e Montale ha dato forma prosastica a ciò che in poesia esprimeva ormai da anni: l’arte non è più un bisogno, è diventato un genere di consumo nella società del torpore in cui sotto il tappeto anestetizzato del benessere ringhia e s’accumula un’impotente e frustrata disperazione. L’arte e la poesia, che modellano la vita e il lavorio interiore umani, sono delle sveglie pericolose per il malessere che aspetta sempre all’angolo l’uomo, che forse vivrebbe in un più autentico benessere se riconoscesse la sofferenza, il dolore e anche il nulla, la noia, come costitutivi della sua natura, invece di rifuggirli o spegnendosi o bruciando per cause e lotte che non gli appartengono e che tengono occupata la sua mente. Nella vita la lentezza, con una certa scadenza, diventa necessaria, così come la poesia con i suoi spazi bianchi, vuoti, la sua solitudine e il tempo che impiega a scavare un solco nel cuore delle cose e a farsi strada. L’arte del nostro tempo invece è lo spettacolo, come afferma Montale, un genere votato all’immediatezza e al frastuono, gestito e coordinato da un regista, una figura il cui scopo è «di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita». Lo spettacolo ha ben chiaro il suo destinatario, il pubblico a cui si rivolge e che vuole plasmare, ma ha un grande limite: il vuoto assoluto; perché «si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale». Al contrario, la vera arte tace misteriosamente il suo reale destinatario. La poesia è un prodotto inutile e in questo sta la sua nobiltà, ma forse che questa inutilità trovi il motivo del proprio essere in quello che il professor John Keating, interpretato da un magistrale Robin Williams in Dead Poets Society, L’attimo fuggente in Italia (1989), dice ad un certo punto del film? «[…]Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia, l’arte, la bellezza […] sono queste le cose che ci tengono in vita». Montale chiosa il suo discorso non fornendo alcuna risposta esplicita alla domanda se in tale situazione la poesia sia ancora possibile, ma il suo scetticismo è intuibile. Tuttavia, dalle sue parole si evince anche altro: la poesia e l’arte sono gli unici mezzi con cui l’essere umano può evitare di scivolare nel mattatoio delle ideologie e del consumismo che lo massacrano. Sembra quasi che il poeta della divina indifferenza voglia dedicare alla poesia gli ultimi versi di un suo celebre componimento, Piove: piove ma dove appari / non è acqua né atmosfera, / piove perché se non sei / è solo la mancanza / e può affogare.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE