LA RIVA FATALE

IL COLOPHON
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Quel viaggio al centro della terra senza viaggiare quasi mai di Paolo Ferrucci

In realtà ho viaggiato pochissimo. L’unico viaggio vero che ricordo è una vacanza studio quando ero al liceo, sulle bianche scogliere inglesi di Brighton. Poi mi sembra d’essere stato brevemente in Austria, per un’escursione in montagna. E son tornato a prendere l’aereo solo un paio d’anni fa, per andare in Grecia dal mio amico Tullio, che passa una parte dell’anno su un promontorio davanti al monte Athos.
So che molte persone nascono, vivono e muoiono nello stesso posto. E quando lo noto resto stupito, perché io invece ho cambiato diverse case, fin da piccolo. Mi sono spostato. Ho viaggiato.
Un ricordo impresso di dove sono nato è quando mia madre si lanciò su per le scale fino all’ultimo piano, inseguita da mio padre e dai miei fratelli, e io che correvo dietro di loro — avrò avuto quattro anni — e quando fummo al salone stavano tutti a urlare e a tenerla perché non si gettasse dal terrazzo, e io m’infilavo nella selva di gambe per difenderla, e mollavo qualche calcio a qualcuno, poi chiedevo scusa, ma immagino che neanche se ne fossero accorti in una bagarre del genere, con un bambino che nemmeno capiva. Probabilmente non mi vedevano, erano momenti difficili e io sparivo nell’enormità delle grida.
Nel salone c’erano il tavolo da disegno, il cavalletto e le sue cose di pittura, i vasi di olii e solventi, le tavolozze, le file di tubetti e pastelli, i pennelli, i carboncini, le sanguigne, le matite. Mamma amava anche incollare con lo stucco i sassi di fiume su tavole, le conchiglie su vasi e giare, e metteva strati di brecciolino e vinavil su pannelli che diventavano come deserti puntuti da animare. In quei periodi terribili le parole che più s’udivano erano le reciproche accuse di pazzia, gli insulti, le recriminazioni, le promesse di punizione divina.
La casa era enorme, le manie di grandezza di mio padre l’avevano trasformata in un palazzotto modernista, col calcestruzzo che s’innestava nella pietra antica in un arbitrario sproloquio cementizio destinato all’abbandono. Perché di lì a poco iniziò il nostro viaggio verso la Pianura Padana e la via Emilia, forse il luogo dell’anima più diritto che esiste. Andammo a vivere dove la Strada taglia il paese da levante a ponente, come un canale asfaltato che separa e unisce visioni, desideri e vizi. Anche la scuola era a un passo dalla via Emilia, dove il maestro era un uomo all’antica, un nostalgico della disciplina che usava le bacchettate e gli schiaffi, e non tollerava le insufficienze dei bambini. Ricordo i ceffoni che mollava soprattutto a due compagni che abitavano lungo la sua strada: figli di operai, forse per questo ancora più insopportabili. Si accaniva più su quello che gli abitava di fronte, con manrovesci e mandritti che spesso lo facevano piangere. Naturalmente capitava anche a me di prendere tirate d’orecchie e scappellotti, ma non così forti: ricordo quando mi trascinò per un orecchio fino alla cattedra perché avevo sgangherato le greche sul quaderno — in effetti, come si fa a disegnar storte le greche sui quadretti già impostati — ma, soprattutto, quando durante la ricreazione mi misi a correre per l’aula alzando le sottane alle bambine: una la scoprii tutta, ricordo ancora le strepitose mutande in cannettato grigio. Allora me lo diede il ceffone, ma anche quello senza farmi male, un colpo di striscio come si fa nei film, e subito chiamò mia madre che insegnava nell’aula accanto.
A me piccolissimo la villetta a due piani sembrava enorme, col giardino antistante, lo spazio dietro, l’ingresso con la scala come in una hall, le stanze di sotto piene di dischi, con strani cimeli appesi accanto ai manifesti dei Deep Purple, Santana, Jimi Hendrix, Frank Zappa, da dove i fratelli grandi partivano per l’università armati di parapalle in alluminio. Di sopra c’era il terrazzo, e Nicola che anni prima mi scarrozzava sul carretto della spazzatura, ora che era grande — faceva le medie — mi portava ai conciliaboli segreti coi suoi amici, all’ultimo piano di una villona quadrata, dove scrivevano un romanzo ambientato a Londra durante una gita scolastica. Ricordo ancora l’incipit: “Tutto cominciò quando ci trovammo all’aeroporto…”, coi fogli protocollo riempiti nella colonna sinistra e le illustrazioni nella destra, dove i personaggi avevano tutti il nasone.
Di fronte a casa nostra c’era il caseggiato popolare dove Maurizio e Tiziano — il padre meccanico smarmittava ogni giorno sulla Mini Minor truccata — volevano giocare con le macchinine della collezione di Nicola, e siccome non potevo prenderle mi istruirono accuratamente su come sottrarle di nascosto per poi rimetterle, facendomi scoprire cose prima inconcepibili. Forse fu quello il germe delle mie disavventure, forse senza quell’iniziazione mi sarei salvato.
Fu quando ci trasferimmo in centro, nel grande appartamento del notaio, che il viaggio assunse una piega diversa e più consapevole. Nicola s’era messo a suonare e aveva portato a casa l’amplificatore per la chitarra elettrica, una specie di monumento al quale collegava il registratore a cassette e ci sparava Cat Stevens, Neil Young, Lucio Battisti, gli Inti Illimani e tutto il resto. Le stanze si dipanavano per il corridoio lunghissimo, e dall’ingresso lastronato in travertino si accedeva nella sala doppia, con area pranzo e soggiorno, dove si facevano gli inviti importanti. Mimmo, che doveva sposare la figlia di un direttore di banca, portava camicie coi colli duri e i gemelli d’oro ai polsini, e fumava con gli amici nelle partite di poker che ogni tanto andavo a sbirciare dalla porta socchiusa. Non dimenticherò mai le porte, tutte a vetri riquadrati, come nelle migliori famiglie, e siccome mio padre oltre ad amministrare le questioni comunali elevava i protesti alla sua maniera illuminata, molti personaggi che amavano la vita notturna ed erano pieni di cambiali lo omaggiavano in vario modo, e varie ditte durante le feste mandavano sontuosi regali, insomma a casa arrivavano molte cose.
Mamma restava schiva e impegnata, dopo la scuola cuciva, sfogliava, disegnava, incollava, dipingeva, inguacchiava. Era il suo modo di resistere a una vita ostile e logorante, che raggiunse il culmine un giorno in cui eravamo in villeggiatura nella casa-palazzotto, col mio fratello architetto che aveva accantonato la figlia del banchiere e passato l’anello di fidanzamento a un’avventuriera con un’ambizione da far paura, quindi niente più buon partito, ma l’ingresso in famiglia di una gran fame di risorse, che mio padre pensava di generare, dirottare e assegnare a modo suo, con blandizie e sotterfugi. E io che a sedici anni non capivo niente, e finivo per odiare chi mi si diceva di odiare e venivo già costretto a schierarmi, dopo aver sentito per sbaglio cose che mia madre nemmeno immaginava gliele andai a riferire, e lei esplose in una furia definitiva che fece piombare un posacenere di marmo in testa a mio padre che quasi ci restava secco, e l’equilibrio di decenni di liti e sofferenze e fegati grossi deflagrava all’improvviso in una catarsi violentissima, dove tutto finiva, si spezzava, disgregava, polverizzava.
Senza più identità si arrivava dritti alla separazione a suon di avvocati, minacce, liti interne che spaccavano in due tutto l’insieme, chi di qua chi di là, non ricordo i dettagli, so che vigeva il chi non è con me è contro di me, così in quarta liceo ho cominciato a farmi le canne e in quinta sono passato all’eroina in vena, forse per punirmi, e ancora mi domando come diavolo feci a superare l’esame di maturità, perché i ricordi sono confusi. Ma so che quindici giorni dopo l’esame fui beccato nel posto sbagliato, con le persone sbagliate, a fare le cose sbagliate. Era buio, fummo presi in campagna, ammanettati e portati in questura su una 127 bianca, i finestrini erano aperti così riuscii a lanciare fuori alcune bustine che mi erano rimaste nel risvolto dei pantaloni (che poi nessuno controllò, quindi pure mi pentii), e il poliziotto davanti che scorse i movimenti si girò nervosissimo con la pistola, e io a rassicurarlo mostrandogli i palmi vuoti. Dopo i ceffoni in ufficio e la notte senza risposte mi ritrovai in cella per qualche giorno con un reo di tentato borseggio, un poveraccio che manco c’era riuscito perché il tassista l’aveva bloccato, e in quel tempo brevissimo capii cosa significa essere considerato un rifiuto, un escremento, un errore della natura, un danno per l’umanità con la colpa di esistere, e mi feci le idee chiare. Quando mi misero fuori, il tizio in cella mi diede un sacco d’istruzioni su messaggi da portare ai parenti che si trovavano in un campeggio lì vicino, cose che ovviamente scordai appena uscito in strada.
E qui il viaggio si fa buio, succede che mia madre fu costretta a mandarmi fuori e consegnarmi a mio padre, a cui non sembrava vero di tirarmi dalla sua parte, ma che sbagliava i calcoli non considerando la bestia che stavo diventando. Un giorno decise di andarsi a curare per un problema agli occhi, lasciandomi solo nell’appartamento che occupava, e fu lì che iniziò l’epopea della perdizione: amici e amiche sempre in casa mia a gozzovigliare, non dico cosa diavolo girava, non dico cosa si faceva, nemmeno ricordo il chiasso che poteva uscire in quel condominio dai muri sottili, qualcuno mi raccontò che i vicini erano pure venuti a suonare, e qualcuno aveva aperto e chissà cosa gli aveva risposto, perché lì c’era autogestione totale. Così, ogni giorno che uscivo venivo guardato strano dalla gente normale, nessuno fiatava, mi consideravano un indemoniato, dunque pericolosissimo, coi carabinieri già allertati.
E la notte si viaggiava per la via Emilia, luogo di perdizione e ritrovamento, a prender la roba nelle zone industriali, aspettando i pusher sempre torvi e depressi, e ci si faceva insieme quando le amiche smontavano dal lavoro serale, ricordo Patrizia e Fabiola, così dolci, giovanissime con le occhiaie gonfie e la voce roca, che raccontavano le pene della giornata, il bisogno di caricare le siringhe fin dal mattino e lo squallore degli omuncoli che le prendevano in macchina, non-persone imprecisate e insignificanti, brutte, vuote, senza storia.
Io agivo e osservavo facendo a pugni col vizio un giorno sì e uno no, per anni, mentre Alfonso di Massa si tirava una fucilata per troncare un ultradecennio di schiavitù, Mario e Attilio finivano in galera per rapina dopo avermi chiesto — inutilmente, per fortuna — di fargli da base, Pop si stampava con la moto contro un camion, Sauro si stendeva lungo i binari della ferrovia, Oliviero finiva stecchito guidando l’Ape quasi in coma, Lucia s’impiccava in cella col collant, Valeria affogava strafatta nella vasca da bagno, Barry restava fulminato dalla leptospirosi presa al fiume, Emiliano si faceva stroncare da un’emorragia cerebrale in piscina, il giovane Monti restava stecchito con la siringa su una panchina, Sabina si spegneva in ospedale per il Male Maledetto, e così anche Spaghetto, subito seguito da Betty, e Rossella — che diceva sempre “Domani è un altro giorno” — finiva i suoi giorni a Londra forse per lo stesso Male, mentre Ilario, capostipite del cinismo che mi fece la prima pera, era già stato fulminato da un’infezione in India.
Sonia, la fidanzata di Mengo, la ricordo come stampata perché una sera, nella casa colonica di Alfonso di Massa prima che s’ammazzasse, dopo avermi corteggiato per ore se n’era andata in bagno dandomi tregua, ma non ne usciva più, e io che a un certo punto ne avevo bisogno dovetti andarci, e lei era lì ad aspettarmi strafatta, così poi mi prese per mano e mi portò sul materasso della stanza accanto, si mise sopra e mi montò dolcemente per non so quanto, io ero talmente fatto che sentivo poco, ma mi piaceva accarezzarla mentre mugolava, i seni, i fianchi, il viso, in fondo era bello, fu come un sogno. Poi Mengo morì sfinito qualche anno dopo, eravamo molto solidali — era stato alunno di mia madre, che diceva sempre il bambino più buono mai visto –, e ricordo quando nella sua Giulietta GT ci sparammo in vena uno speedball, la coca salì così forte che dovemmo uscire di corsa nella campagna per afferrare il mondo che diventava nostro.
Ora fatico a ricordarli tutti, ma mi sembra che siamo rimasti in tre, superstiti persi nei decenni, marchiati da una vita confusa, affamata, impressa dall’istante, difficile da riorganizzare in immagini. Ancora mi chiedo perché il mio viaggio è proseguito, che senso ha avuto. Dall’azzardo alla laurea, alla vita professionale maturata mio malgrado, alla sofferenza di una vita inconclusa e marchiata dalla Colpa, alla voglia di morte senza sapere davvero cos’è. Dal paese alla città, dalla città alla vita bucolica della collina, e da lì nuovamente in pianura, lungo la riva fatale della via Emilia, in un viaggio che ancora non finisce.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE