IL COLOPHON
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8 min readApr 1, 2016

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LE CITTÀ DI ROBERTO BOLAŇO
I paesaggi narrativi dell’autore di 2666 di Angelo Ricci

Vogliamo parlare delle città di Roberto Bolaňo? Benissimo, ma prima dobbiamo parlare di Jorge Luis Borges e di Julio Cortázar perché entrambi questi due maestri della letteratura hanno scritto di città e di entrambi Roberto Bolaňo ha sempre consigliato la lettura. Le vie e le piazze di Buenos Aires e i loro confini con il deserto della pampa, linea magica in cui la pietra lentamente si trasforma in sabbia e la sabbia non si è ancora trasmutata in pietra, sono una costante dell’opera di Borges che le celebra nell’onirismo delle sue poesie e nella geometria dei suoi racconti fino a giungere ai confini di una mappa alla Escher che racchiude dimore mostruose e miniature dell’intero universo. Parigi invece è l’“hic sunt leones” di Cortázar che in Rayuela. Il gioco del mondo destruttura la forma classica del romanzo, trasfigurando la capitale francese in soggetto narrativo e aggiungendo al corpus dell’opera cartine e mappe in cui sono segnati gli spostamenti e le avventure dei vari personaggi. Città quindi che non sono più soltanto sfondo o scenografia di una storia, ma città che vivono di vita propria, in un eterno, e in Borges spesso anche mitologico, respiro di vita e di morte. E vita e morte sono le stimmate che segnano costantemente la diegesi delle opere di Roberto Bolaňo, stimmate che definiscono una via crucis narrativa dove le città sono stazioni di espiazione e di disumani accadimenti. Concepción, capitale del sud del Cile, potrebbe essere l’ideale prima stazione di questa via crucis perché è qui che è ambientato Stella distante, romanzo in cui fanno la loro tragica apparizione gli incubi e gli orrori del golpe del 1973. Incubi e orrori la cui spietata e spettrale apparizione, nelle sembianze di quel vero e proprio demone mesopotamico che è Carlos Wieder, raggiungono livelli così efferati che i discendenti degli indios non posseggono nel loro vocabolario parole che possano definirli. Descrizioni di interni di case apparentemente gioiose, ma che nei loro recessi celano già ombre inquietanti, in cui avvengono gli ancora fiduciosi incontri dei giovani poeti presto travolti dalla repressione poliziesca e militare, repressione che in Bolaňo assume da subito le sembianze di un Leviatano che vive di spaventosa vita propria e si coniugano all’azzurro di quei cieli andini sui quali il poeta/aviatore/torturatore Carlos Wieder lascia i segni delle sue poesie di morte scritte con lo scarico dei motori del suo aereo. Ma in Stella distante appaiono anche Barcellona e la Costa Brava, altri luoghi e città definitivi nella narrazione bolaňiana, che in questo romanzo saranno scenario di una delle rare vendette del bene contro il male. Barcellona, metropoli dalle ramblas assassine di Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce, romanzo scritto a quattro mani con Antoni Garcia Porta, città che appare qui claustrofobica, declinata dall’asfissia di attese passate in appartamenti e rifugi in cui si nasconde la coppia omicida composta da Angel Rios e dalla bella Ana, coppia che trova la sua vitalità nella negazione disumana della vita altrui condotta con piglio da entomologi malvagi per mezzo di una scorribanda criminale e crudele composta da rapine, rapimenti e uccisioni senza scopo alcuno se non quello di cercare di significare l’essenza del male. Mai come in questo romanzo la movida barcellonese appare come scena artefatta e viso imbellettato dalla immobilità cadaverica. Ancora la Spagna, ancora la Costa Brava del turismo spensieratamente vacanziero, i campeggi, gli hotel, le spiagge, la libertà apparente delle relazioni umane, fanno da sfondo a Il Terzo Reich, romanzo marmoreo nella sua apparente solidità. Ma è nelle fessure di questa solidità illusoria, nel fluire degli attimi narrati con doviziosa raccolta di particolari, che si fa strada impercettibilmente lo smembramento delle anime di due coppie le cui vite alla fine appaiono manovrate a loro insaputa dal Bruciato, una delle tante incarnazioni bolaňiane del male. Non ci sono cronache di efferatezze in questo romanzo, ma le ferite dell’anima sono irrimarginabili ben più di quelle del corpo, specialmente quando vengono inferte in un tempo sospeso e inerte in cui pare che ogni slancio vitale sia momentaneamente paralizzato. Le città, le strutture turistiche, i pub, svaniscono di fronte al grigio di una spiaggia che diventa palcoscenico unico e totale sul quale rimane assiso il Bruciato mentre osserva il nulla della sua vittoria sul niente. Così come non ci sono efferatezze in Un romanzetto lumpen, se non l’idea sfumata di una rapina, ma Bolaňo compie con questo romanzo un’incursione letteraria in una Roma lisergica e allucinata, vero e proprio magazzino di una cultura pop che unisce i miti dei film mitologici degli anni Cinquanta con le carnalità della prostituzione e del mondo del porno, altre digressioni che sono tipiche della eclettica attenzione di Bolaňo al mondo underground e che frutterà quegli imponenti ed enciclopedici sconfinamenti che lo accomuneranno, in parte, alla ipertrofia sapiente del romanzo postmoderno. È il flusso di coscienza dell’io narrante di Notturno cileno che ci fa giungere a Santiago, capitale del Cile e tana del Leviatano golpista e ci arriviamo solo ora con questo romanzo, come se il fetore immondo di quella disumana sopraffazione che trova a Santiago la sua genesi, avesse costretto l’autore a circumnavigarla con le parole di altri romanzi che hanno avuto la funzione di abituarlo all’abbacinante luce di morte che ne promana. La città non appare mai nella sua totalità, bensì solo come reticolo di stradine secondarie dove l’io narrante cammina nel tentativo di giungere a patti con la sua vulnerata coscienza. E molte sono le descrizioni della campagna circostante in cui case padronali sono luogo di incontri di blasonati letterati, artefici impotenti di una altrettanto impotente letteratura, circondate dagli spettri di contadini di stirpe india il cui vocabolario, anche qui come in Stella distante, non contiene parole sufficienti per descrivere e delimitare l’orrore che promana dalla città epicentro del golpe. Immaginifica nella sua apparente banalità è la villetta in cui l’io narrante si incontra periodicamente con scrittori contrari al regime, ospiti di una scrittrice esordiente nel cui sorriso si cela l’orrore di essere suo malgrado la moglie di un torturatore del regime che proprio negli scantinati di quella villetta brutalizza le sue vittime. La letteratura diviene copertura del sopruso, della disarticolazione dei corpi e lo diventa senza esserne consapevole, povera accozzaglia di vocaboli, verbi e aggettivi cui non rimane altro che eternare la sua stessa inutilità. È questa immagine di immobilità impotente e paralizzante quella che meglio rende il trionfo di quel mondo alla rovescia dalle tonalità alla Hieronymus Bosch che coniuga, qui a Santiago come nella Barcellona dei Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce, morte e letteratura.
Ma è il Centro America lo snodo territoriale in cui si sviluppa la diegesi totalizzante che ha trasfigurato Roberto Bolaňo nell’autore di culto oggi acclamato, sacerdote egli stesso del culto dell’autore medesimo. I detective selvaggi e 2666 sono le mappe narrative che segnano il confine estremo di quell’universo di morte al cui centro Bolaňo pone se stesso come affabulatore finale della sacra rappresentazione del lavacro crudele dei corpi e delle anime. Quello che Bolaňo mette in scena con questi due monumentali romanzi è un vero e proprio paesaggio narrativo che parte da Città del Messico e dal suo Distrito Federal sino a giungere all’arsura dei gialli e acidi deserti che delimitano un confine tex-mex di cupa e oscura delimitazione della violenza pubblica e privata. L’osservazione metropolitana di Bolaňo non è mai generalista, bensì, come il teleobiettivo di un accorto fotoreporter avvezzo alla frequentazione di fredde morgue percorse dalle ombre spettrali di periti settori e di poliziotti frettolosi nella loro ansia di concludere la redazione di rapporti infiniti, si sofferma sulla geometricità sabbiosa di alcune strade periferiche, sulla ripartizione urbanistica di quartieri blindati e abitati da capi di polizie più o meno corrotte, percorsi dai passi stanchi e tuttavia testosteronici di guardie del corpo al soldo ambiguo al contempo di narcos e di politici dalla proteiforme dialettica, su linee di confine tra visioni simbiotiche del potere vuoi declinate in salsa latinoamericana vuoi in salsa gringa stile “il mio reparto risponde direttamente al Presidente”. Il respiro urbanistico de I detective selvaggi ripete quello già delineato negli altri romanzi: angoli, stradine deserte e interni di case, case in cui avvengono dialoghi di sfida tra artefatti e millantatori poeti e scrittori, vanitosi come tanti Don Quixote rimasti prigionieri nell’eternità di innocui assalti letterari ad altrettanti innocui letterari mulini a vento. Ma ne I detective selvaggi sono già tutte presenti le stimmate di spersonalizzazione dei singoli a favore di una collettività cannibale il cui controllo è mistero gaudioso di una ricerca che non può mai avere fine. Il Leviatano agghiacciante che indossa la divisa militare della Junta de Gobierno de Chile, qui si trasfigura in essere inafferrabile, in incarnazione di tutti i mali degli umani e anzi già si vedono i prodromi di una strutturazione pluricellulare che principia ad avere i contorni di un demiurgo che governi non solo l’intero mondo ma anche l’intero spaziotempo degli universi. Ma tutto rimane ancora nei confini di una cinta muraria narrativa che si sovrappone ai confini della capitale azteca così come in Amuleto, altro luogo narrativo azteco in cui Città del Messico è scenario diviso tra i cessi dell’università dove, mentre all’esterno infuria la repressione militare del 1968, si nasconde Auxilio Lacouture, incarnazione bolaňiana di Cassandra contemporanea che rimembra incontri con scrittori, poeti, artisti e anche con Arturo Belano (onnipresente alter ego letterario di Roberto Bolaňo), e i luoghi di questi incontri, case, taverne, siti che Bolaňo ingrandisce con la sua tecnica di fotoreporter narrativo che sa cogliere il punto di incontro tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Ma è l’immensa installazione/libro 2666 il luogo in cui letteralmente esplode a livelli esponenziali la descrittività di Bolaňo. Qui le città, i confini, i continenti vengono superati, trasfigurati, trasmutati in una epifania di accadimenti che sono gli elementi finali di una mappatura totalizzante del mondo, dell’universo, del creato. Il tessuto urbano si sfrangia e si dilata, ogni singola via, ogni singola città e cittadina, ogni singola casa, ogni singola stanza d’albergo, ogni singolo studio televisivo è al contempo tutte le città, tutte le vie, tutte le contaminazioni che nascono dall’incontro esiziale tra un bene sopraffatto e un male trionfante. Ogni distinzione tra spazi aperti e chiusi, ogni differenza di continenti e fusi orari, ogni divisione tra confini è superata da una narrazione così imponente da riuscire, come mai prima di allora, a contenere tutte le parole del mondo e a coniugare realtà e finzione come mai nemmeno al geniale Borges era riuscito. Lo stesso Sergio González Rodríguez, autore di Ossa nel deserto, rapporto estremo e decisivo sulle crudeltà efferate e inspiegabili di Ciudad Juaréz, con cui Bolaňo ebbe un intenso scambio epistolare nel corso della stesura di questo romanzo-mondo, entra nella narrazione di 2666 come personaggio, insieme ai critici, alle vittime, ai carnefici, alle digressioni sugli snuff movies e sulla vita del misterioso Benno Von Arcimboldi, insieme a Oscar Amalfitano e alla sua graziosa figlia, insieme a Oscar Fate e alle sue atmosfere pulp, insieme al killer con il distintivo Lalo Cura (ancora presente nella silloge di racconti Puttane assassine), insieme allo stupro dei soldati francesi prigionieri da parte dei rivoluzionari messicani nel 1867 alla caduta dell’effimero impero messicano di Massimiliano d’Austria, soldati tra i quali c’è un sergente che anni dopo stuprò in Francia il giovane Arthur Rimbaud arrestato mentre si recava alla Comune di Parigi (questo in parte ne I dispiaceri del vero poliziotto, sorta di appendice a 2666 nata dalle ricerche sui file trovati sul computer di Bolaňo alla sua morte), insieme alle vie delle città europee e al ricordo di performer di body art impazziti, insieme all’emascolazione dei detenuti confidenti della polizia nelle carceri messicane. Tutto in 2666 travalica ormai i confini cartografici e urbanistici classici. La mappatura del mondo operata dall’artefice Roberto Bolaňo si compie qui e mai come ora diviene simile, e si sovrappone funesta, alla mappa dell’impero immaginata da Jorge Luis Borges.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE