IL COLOPHON
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5 min readApr 1, 2016

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LE CITTÀ INVISIBILI
editoriale di Michele Marziani

Per me esiste al mondo una solo città: quella nella quale mi trovo. L’unica che vedo. Di fronte a lei le altre scompaiono. Si fanno invisibili come le città di Italo Calvino, le meraviglie di parole che Marco Polo descrive a Kublai Khan.
Oggi scrivo da Dublino, dal mare dove si affaccia la Torre Martello che è uno dei luoghi di James Joyce. Da sotto il sorriso sornione dell’autore dell’Ulisse, dello scrittore che ha spalancato le porte del Novecento letterario limandosi indifferente le unghie mentre lasciava liberi i suoi personaggi di agire, penso che queste righe possano essere una sorta di salvagente lanciato al lettore, sperando che aggrappandovisi fiducioso alla fine anneghi.
È successo anche a noi: volevamo legare questo numero de Il Colophon a una grande idea di metropoli letteraria che ci frullava nella testa da tempo. Così abbiamo lanciato il sasso, con un po’ di incoscienza, in mezzo alla redazione: Le città invisibili, un ovvio tributo a Calvino, forse un po’ fuorviante, ma troppo bello per non tenerlo.
Poi abbiamo messo i puntini sulle i, per spiegare: l’argomento sono le città e il loro rapporto con gli scrittori, ci sono autori il cui legame con certi luoghi metropolitani è fortissimo e inscindibile. Ovvero, cosa c’entrano le città con le scritture? Perché Joyce narra (quasi) sempre di Dublino nonostante la sua vita si svolga (quasi) sempre altrove? Che cos’è Istanbul per Orhan Pamuk? Cosa è rimasto della New York di Grace Paley e Bernard Malamud? E di quella de Il grande Gatsby? Che ne è stato della Baltimora di Robert Ward? Perché sono così diverse la Barcellona di Carlos Ruiz Zafon e quella indimenticabile di Manuel Vázquez Montalbán? E Roma? La città di Pier Paolo Pasolini è rimasta la stessa di Valentino Zeichen? Esiste una Roma letteraria contemporanea? Ferrara è finita con Bassani?
Poi il pensiero ha continuato a battere in testa, come un martello: Praga? Parigi? San Pietroburgo? Toronto? Torino? Milano? Napoli? Palermo? Firenze? Bologna? Trieste? San Francisco? Buenos Aires? Brasilia? Caracas? Johannesburg? Gerusalemme? Tel Aviv? E le città scomparse? La Stalingrado dei libri di storia? La Bisanzio sul confine tra Oriente e Occidente? L’azteca Tenochtitlán? Il mito della città ideale? Le megalopoli africane? I formicai dell’Asia? Tutto questo brulicare di genti…
Alla fine il sasso lanciato è cominciato a tornare indietro, ma non era un boomerang, era un vascello di nuovi pensieri, carico di altri toponimi, a volte del tutto dimenticati. Ogni autore ha aperto una porta, quella della città letteraria più amata. Così scopriamo che Roma non c’è. Che Londra è poco più di un fumetto. Che è scomparsa Parigi e manca pure Venezia.
Mi è venuto il dubbio che ci fossero luoghi letterari necessari a un numero monografico. Stavo già per alzare la voce e chiedere di non dimenticare almeno Venezia. Poi ho rinfoderato i cattivi pensieri. Ho guardato verso l’oceano e mi sono detto: ecchiseneimporta!
Ho fatto bene perché dopo pochi giorni sarebbe esplosa Bruxelles e il senso dell’attualità mi avrebbe messo sulle orme della capitale del Belgio. E il pensare al terrorismo islamico mi avrebbe fatto dimenticare altri tempi e altre convivenze. Mica è sempre stato così. Chiudo gli occhi e sento un profumo, quello del Ramadan. Il Digiuno islamico che dura trenta giorni nei quali ogni credente ha l’obbligo di astenersi, dall’alba al tramonto, non solo dal cibo, ma anche dal bere, dal fumare e da ogni attività sessuale. E pure dall’ira. Digiuno e astinenza, proprio come hanno appena fatto, direi facevano, i buoni cattolici in occasione della Quaresima. Meraviglia delle meraviglie sono concessi i profumi che spesso avvolgono le case dei fedeli. Mi basta pescare tra i ricordi. Andare non verso l’Africa o il Medio Oriente ma verso case e canali che parlano di Europa del nord. Olanda, Amsterdam, dove gli odori di casa erano incredibilmente i profumi del mondo. Metà del quale quel giorno era a digiuno. Giorno di Ramadan, niente cibo dall’alba al tramonto. E io lì, tanti anni fa, ospite di digiunanti magrebini, indeciso se attendere la sera o uscire alla ricerca di burro ed aringhe.
Entravano prima dell’alba nel grande pentolone di coccio gli ingredienti della zuppa del Ramadan, quella che alcuni chiamano harira, quella che è sempre la stessa tutte le sere. Bene, nell’immensa pentola filosofale destinata a sfamare un piccolo esercito di musulmani osservanti, finivano lenticchie, cipolle, carne di agnello ucciso come dispone il Corano dal macellaio islamico dietro l’angolo, ceci, tantissimi ceci, carote, pomodori, sedano, patate, prezzemolo, aglio e poi spaghetti…
Sì, spaghetti — c’è un italiano, perdinci! — e via di Barilla fatti a pezzi e lasciati bollire tutto il giorno, come il resto. A insaporire, direi a infiammare il tutto, abbondanti prese di zafferano, curcuma, cumino, coriandolo e poi stecche di cannella, pepe bianco…
Che profumo tutto questo pentolone di mondo a sobbollire dalla mattina alla sera mentre io fingevo di scrivere dietro la finestra… Zaffavano i profumi del Ramadan e io in preda a tentazioni legittime da miscredente occidentale tentavo di avvicinarmi alla pignatta del desiderio armato di cucchiaio per l’assaggio…
No, mi diceva con un fermo sorriso Betty, ragazza giamaicana, non certo più devota di me, ma ben istruita sull’intoccabilità del pasto. Che tortura, che crescente desiderio… Da appollaiarsi sul camino e urlare fellinianamente: voglio una zuppa!
Ecco, tutto quello che so dire di fronte alle bombe è questo. Un tempo è accaduto, quindi può ancora succedere.
Poi torno alle città, quelle del mondo. Piano piano mi si aprono le suggestioni raccolte nelle pagine della vita. Solo così comprendo cosa piace a me, così poco metropolitano, delle città: i nomi, i suoni. Ogni nome è evocativo di qualcosa che ho amato, pur senza averlo mai visto, attraverso le pagine sfogliate, l’affastellarsi di parole: Mazar-i-Sharif è il fumo, l’hashish, Baghdad i tappeti, Teheran la grandeur della Persia e i disegni di Marjane Satrapi. Budapest, Pechino, Shangai, Tokyo, Costantinopoli, Samarcanda, Baku… Delle città di confine ne raccontiamo una amatissima per quello che è stata nel cuore del Medio Oriente: Beirut, lì si è svolta e si svolge la deflagrazione del mondo. Da lì ci piacerebbe ripartissero le parole capaci di ridisegnare Kabul, di rivedere Damasco. Se la scrittura avesse davvero un dovere — io credo non l’abbia, ma spesso non ho ragione — potrebbe essere quello di immaginare. Anche i luoghi dove sembra che non ci sia più spazio per l’immaginazione, “primo fonte della felicità umana” per dirla come Leopardi. Perché anche Recanati, a suo modo, è una città.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE