Cover Marta D’Asaro

MADAME BOVARY C’EST MOI!

IL COLOPHON
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4 min readDec 11, 2017

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editoriale di Michele Marziani

Chi non è mai stato a Brest, porto mercantile e militare del Finistère, cuore della Bretagna occidentale, non ha idea di quanto una città, questa città, possa essere triste, brutta, malinconica, fredda. Sono qui a guardarmi intorno, a raccogliere gelo e pensieri di una potenza letteraria inaudita: senza Jean Genet non ci sarei mai venuto.
Così come senza Jules Verne non sarei arrivato a Nantes. Dalla casa dello scrittore guardo l’oceano e mi ritornano i romanzi dell’infanzia, tutto quel viaggiare sopra, sotto il mare, nel cuore della terra, alla scoperta di mondi infiniti. Era tutto qui, fuori dalla finestra.
E quelle sere un po’ arabeggianti e un po’ napoletane passate sul Mediterraneo per le strade strette di Marsiglia a riconoscere dialetti, lingue, venditori d’amore e droghe e sigarette e tutto insieme, uomini, donne, sostanza, presente, passato, odore di salmastro, biascicare di solitudini, formicolio di popolo? Cosa sarebbe Marsiglia senza Jean-Claude Izzo? Quando mai ci saremmo approdati?
Parigi è letteraria per definizione ma in piazza Victor Hugo si respira un tempo altro, si capiscono tante parole lette negli anni, si riconosce la potenza del sorriso della cantante russa di un’orchestra scampata all’Unione Sovietica ma non all’umiliazione di suonare per pochi spiccioli nella città de I miserabili. Ma l’orgoglio di essere musicisti ha la forza di un’altra epoca, guarda con disprezzo la vergogna, racconta di una lingua — il francese — che, nonostante la grandeur, sapeva affratellare. Affratellava per cultura, faceva riconoscere i simili. Oggi ricalca la memoria attraverso questi ottoni lucidati per amore.
E quel lungo viaggio in treno da Bologna a Parigi che appena varchi la frontiera incolli gli occhi al finestrino? Tutti quei paesaggi li hai già visti, nessuno escluso, nel susseguirsi degli scrittori francesi che sono passati tra librerie, comodini, stanze d’albergo, biblioteche d’infanzia, aule di scuola (fino a una manciata di anni fa si studiava ancora il francese, l’inglese non era ovunque), regali di Natale, consigli di amici, titoli sussurrati, Charles Baudelaire o Jacques Prévert recitati in piedi a voce alta in osteria (il primo), piano piano, seduti vicini vicini sul divano (il secondo) fino a quel grido dove non c’entravano né l’amore né l’assenzio: Madame Bovary c’est moi! Non l’aveva detto Arthur Rimbaud come sosteneva il ragazzo coi baffetti. Gustave Flaubert! Flaubert! Gridavo e scandivo, con la vena che s’ingrossava e la gola che si faceva roca. Non era importante. Lei se n’è andata con quello coi baffetti.
Trent’anni e forse più dopo: Madame Bovary c’est moi! È il titolo di questo numero de Il Colophon. Tributo a Gustave Flaubert uno degli scrittori francesi che amo di più, ricordo della ragazza dai capelli neri che sognava di guidare i treni e piccolo viaggio nella Francia letteraria che forse si frequenta sempre meno. Ogni lingua vive e declina assieme al proprio impero. Oggi l’inglese è l’idioma imperante della lettura, seppur tradotto. Ma noi tutti siamo cresciuti con qualche libro francese tra le mani. E alcuni restano dei capolavori assoluti. Come dimenticare le notti rabbiose a leggere Cèline? O il periodo della guerra ai brufoli in compagnia di André Gide?
Poi i dibattiti con mio padre sugli esistenzialisti e l’amore folle per Albert Camus. Sudavo in clima d’Indocina leggendo Marguerite Duras. Scoperchiavo un’umanità a me ignota con Genet, scoprivo l’insaputo con Malreaux… Poi Parigi rifugio di intellettuali e scrittori da tutto il mondo e quella foto di Mario Dondero che consacra l’école du regard. C’era anche Bekett.
E Dino Buzzati che intervista Camus e finisce quel pezzo scrivendo “Era vestito di blu”. E quel blu apriva il mondo all’immaginazione. E finalmente c’è spazio per Manchette, del quale Angelo Ricci mi chiede da anni di parlare. E l’infanzia di tanti di noi, benedetta dalle spade create da Dumas come la mettiamo?
I poeti maledetti. Stendhal e Proust. Daniel Pennac, Simone de Beauvoir… La stretta di mano a Sartre a Bologna. Il viaggio con Butor dal quale imparavo inscindibili vita e scrittura e l’amore per la lingua fino all’estremismo: «Do you speak English?» Domandava la giornalista. E lui rispondeva sornione: «I speak very well only French». Bello, tra tanti articoli belli, il ricordo di Michel Butor scritto dall’artista Isabella Bordoni.
E poi verrà Natale e cambierà l’anno: auguri a tutti!

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE