MADAME BOVARY, C’EST NOUS!

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Francia e letteratura dell’io di Manuela Bonfanti

Gustave Flaubert non era una donna sposata e la sua vita non assomigliava a quella della sua triste eroina. Proprio per questo, il suo celebre «Madame Bovary, c’est moi!» aprì la strada alla consapevolezza che, anche nel romanzo, la figura dell’autore non si limita al nome. In questo breve viaggio attraverso la letteratura francese scopriremo che la dicotomia tra romanzo e autobiografia è meno ossimorica di quanto si creda.

Dall’area francofona ci giunge innanzitutto il testo fondante del genere autobiografico in chiave moderna: le Confessioni di Rousseau, il cui titolo si ispira alle Confessioni di Sant’Agostino, a riprova delle radici remote dell’autobiografia. A prescindere dagli esempi illustri, che produssero testi di intento pedagogico incentrati su interrogativi filosofici, religiosi, psicologici o morali, a partire dal secolo scorso la narrazione della propria storia di vita si fa più frequente. Tanto che, ormai, l’autobiografia (o la biografia, se scritta da terzi) è spesso un modo per narrare il percorso da persona privata a personaggio pubblico. Inoltre, essa riguarda oggi anche la “gente comune” grazie al lavoro del sociologo francese Philippe Lejeune che, negli anni Settanta, teorizzò l’importanza dello scrivere di sé come mezzo di conservazione della memoria. Fu un risvolto capitale e necessario, che portò la Francia all’avanguardia nell’ambito della scrittura autobiografica.

E chi, meglio di scrittori e scrittrici, può narrarsi? Simone De Beauvoir e Jean-Paul Sartre hanno scritto la loro autobiografia con stili abissalmente diversi: in Le parole, un volumetto che non copre l’arco di vita del suo autore, Sartre indaga le radici delle sue ragioni filosofiche attraverso le tappe biografiche che lo legano al leggere e allo scrivere. In questo senso, la sua si apparenta maggiormente alle prime autobiografie della Storia. Le Memorie di una ragazza perbene è invece il primo tomo di un’opera più moderna, cronologica e prolissa, nella quale Simone De Beauvoir racconta il suo percorso intellettuale e la genesi dell’impegno per la causa femminista con dovizia di particolari intimi o di luoghi, persone e oggetti, amalgamando il suo vissuto nella storia di un’epoca. Sono, questi, due esempi di un genere dai contorni precisi, contraddistinto da una narrazione retrospettiva in cui è rispettato il patto autobiografico codificato da Lejeune: la promessa di raccontare la verità, che sancisce al contempo la corrispondenza tra i tre “io” — autore, narratore e protagonista.

Esiste tuttavia anche una folta letteratura, nella quale ci addentreremo ora, che si ispira alla storia di vita senza rispettare il patto autobiografico. Qui, gli elementi di fiction deviano il corso della narrazione, anche se il narratore e/o il personaggio restano riconducibili all’autore. Questa maggiore libertà di scrittura dà vita al cosiddetto roman autobiographique, diramatosi poi nelle forme dell’autobiografia romanzata e dell’autofiction.

La letteratura autobiografica si espande in Francia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e prosegue per tutto il XX secolo. È caratterizzata da una trama di fantasia che sfrutta i temi portanti dell’esistenza di chi scrive e ne estrapola episodi o personaggi, fittizi o somiglianti, che divengono fonte di ispirazione per una storia che, partendo dal sé, si vuole universale. Il romanzo autobiografico è il luogo in cui realtà e fantasia si incontrano per dipingere un nuovo paesaggio. La realtà viene trasformata, pur mantenendo il cuore di verità dal quale scaturisce, rimodellata, la fiction. Gli intenti variano: divertire, incitare alla riflessione, raccontare una fase della vita, denunciare discriminazioni o oppressioni. Spesso vengono accentuati i lati negativi, ma non sempre. Facendo un passo Oltremanica, Jeannette Winterson insegna: la sua realtà è stata peggiore di quanto narrato in Non ci sono solo le arance. Ma restiamo nell’Esagono, dove il romanzo autobiografico ha prodotto libri culto come il Poil de Carotte di Jules Renard o la serie di Claudine della scrittrice Colette. E ha consacrato autori come Hervé Bazin che, con Vipera in pugno, si guadagnò la reputazione di romancier de la famille. Indirizzato alla scrittura da Valéry, Bazin utilizzò la penna come requisitoria contro l’oppressione famigliare, denunciando tramite il suo alter ego le angherie fattegli subire dalla madre, donna austera e crudele. Il tono è duro, gli eventi e i sentimenti narrati pure, ma chi legge non sa quali dettagli sono reali e quali inventati. Con la forma del romanzo si innesca un distanziamento, che può essere accentuato dall’uso della terza persona o di un io narrante il cui nome non corrisponde a quello dell’autore. Perché, nella vasta selva autobiografica, le strade percorribili sono più d’una.

Talvolta il vissuto si fa strumento per indagare una particolare condizione dello spirito o del corpo, dando vita a libri indimenticabili. Tra questi troviamo l’autobiografia romanzata di Marie Cardinal, Le parole per dirlo, uno straordinario viaggio interiore tra i dolorosi ricordi dell’infanzia di pied-noir della scrittrice, scandito dalle allucinazioni provocatele dalla sua malattia. Di pari intensità è La promessa dell’alba di Romain Gary, scrittore poliedrico, due volte vincitore del Goncourt. Narrato con feroce ironia, questo spaccato di vita ha come fulcro il complesso rapporto dell’autore con la madre, di cui egli fu strumento di riscatto da una vita di miseria. Anche il grande Camus fece della sua vita un romanzo. Il suo libro postumo, Il primo uomo, ne porta le tracce nell’ambientazione algerina e nei personaggi: dall’alter ego dell’autore al maestro di scuola che egli sempre tenne in altissima considerazione, alla madre che vi appare come “la vedova Camus”. Si suppone che lo scrittore intendesse rielaborare il testo per celarne il più possibile la natura autobiografica, ma l’incidente che gli tolse la vita non glielo permise. Così, il manoscritto originale fu dato alle stampe dalla figlia molti anni dopo, regalandoci uno dei suoi libri più belli, preziosa testimonianza della sua personalità e dell’impegno sociale che gli valse il Nobel.

È arduo, se non impossibile, elencare esaustivamente gli esempi di letteratura autobiografica. Ma una cosa è certa: anche i grandi nomi della letteratura ne hanno sfruttato le potenzialità. Dalla Francia ci giungono Vita di Henry Brulard di Stendhal, La petite chose di Daudet, Morte a credito di Céline, Se il grano non muore di Gide, Le miroir des limbes di Malraux o l’ultimo libro di François Mauriac, Un adolescent d’autrefois. Non mancano libri più recenti, come la quadrilogia dei Souvenirs d’enfance di Marcel Pagnol e alcuni romanzi di Marguerite Duras, tra cui il premio Goncourt L’amante. E per i suoi Essais, Montaigne affermò senza preamboli: «Je suis moi-même la matière de mon livre».

In generale, gli scritti apertamente autobiografici sono tappe, momenti di scrittura unici o rari nella produzione globale di uno scrittore o di una scrittrice. Ma c’è chi ne ha fatto la colonna portante della sua opera. Un esempio contemporaneo è la scrittrice di autofiction Annie Ernaux, la quale investiga la sua vita senza fioriture, in uno stile asciutto e innovativo ispirato dall’idea di “ritrovare le parole con le quali si pensava e pensava il mondo che la circondava”. La Ernaux, che proviene da una famiglia di estrazione sociale modestissima, inaugura all’inizio degli anni Ottanta una serie di testi in cui ritraccia i sentimenti di inadeguatezza che la sua condizione famigliare le impone. Nascono così Il posto, seguito da La Honte a distanza di alcuni anni, testi dallo stile paratattico, didascalico eppure incisivo nella sua brevità. L’autrice non si aggrappa a una trama vera e propria, predilige un patchwork di memorie guidato da un fil rouge introspettivo e personale. La novità sta nello sguardo cinematografico che traduce fotografie, ricordi, impressioni, in fotogrammi di testo. E in tecniche di scrittura che fuoriescono dai canoni letterari classici, come l’uso dell’elenco (“l’enfance de ma mère, c’est à peu près ceci:…”) o del discorso diretto che spezza le frasi, quasi un flusso di coscienza dallo stile scarno, brutale, vago ricordo di una infanzia brulla, dalla quale la scrittrice si è affrancata ma con cui mantiene un legame viscerale. Il suo stile è spiazzante, ma è indubbio il suo contributo nel ricodificare il genere autobiografico. Forse per questo, dopo essere stata quasi ignorata in Italia per dieci anni (Rizzoli aveva tentato nel 2004), è stata recentemente riscoperta dalle edizioni L’orma. La scelta autobiografica è coraggiosa e il titolo scelto dai primi biografi della storia — confessioni — lo conferma. La Ernaux stessa rivela: “ho sempre avuto voglia di scrivere dei libri di cui mi fosse in seguito impossibile parlare, che rendono insostenibile lo sguardo degli altri”.

Adottando la definizione del Nobel turco Orhan Pamuk nel saggio Romanzieri ingenui e sentimentali, la Ernaux sarebbe una scrittrice ingenua, poiché scrive solo la verità. Al lato opposto si situano gli scrittori sentimental-riflessivi, convinti di scrivere solo cose inventate. Ma l’arte dello scrivere e il gusto di leggere i romanzi si situa nel fragile equilibrio tra questi due poli apparentemente antitetici. E in questa terra di mezzo c’è spazio per sperimentare, dosare, insaporire. Perché la letteratura è cosparsa di elementi autobiografici, impercettibili o palesi. Essi sono il sale della scrittura.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE