MANHATTAN MELODRAMMA

IL COLOPHON
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racconto di Pierandrea Ranicchi

Non è stato facile fissare questo incontro. Per ottenerlo ho dovuto mentire sulla mia identità. Mi aspetta nella hall dell’albergo. Mentre mi avvicino perdo tutta la baldanza che mi ha fatto arrivare fino a qui. Vorrei tornare indietro ma è troppo tardi: mi ha visto. Un sorriso signorile illumina il suo volto. È elegante, raffinato, come la prima volta che l’ho incontrato nella mia casa di appuntamenti. Si avvicina con passo disinvolto. Non riesco a credere che questo giovane uomo di trentun anni, che ora mi afferra la mano per baciarla, sia da pochi mesi evaso dal carcere di massima sicurezza di Crown Point, nell’Indiana. La mano, che ora mi carezza il volto, non può essere la stessa che tante volte ha stretto un mitra.
«Anna. Sei bellissima, come sempre, ogni volta di più»
«Grazie John. Sei il solito gentiluomo», lo dico e lo penso. Sarà pure un ricercato, ma è anche l’uomo più raffinato e istruito che abbia mai incontrato. Accanto a lui non sono più una prostituta ma una vera signora.
«Il tuo abito è arrossito nel vestire tanta bellezza»
Apro la bocca ma non esce nulla. Vorrei dirgli che non mi chiamo Anna, ma Ana, che il mio cognome non è Sage, ma Cumpanas, che deve scappare perché sto per servire, a Hoover e all’FBI, la sua testa su un piatto d’argento. L’ho tradito per non essere costretta a tornare in Romania. Forse mi perdonerebbe se glielo dicessi, ma dico solo «andiamo John, il film comincia fra poco».
Appoggia le sue labbra sulla mia guancia, stringe deciso la mia esile vita. Il colore nero della sua giacca, dal taglio di alta sartoria, si sposa con il colore della mia veste da sera, rossa. Il rosso. Colore dell’amore, ma questa sera è del tradimento. Purvis, l’agente dei servizi segreti, l’ha scelto per me. Le sue parole: «lui in cambio dell’America. O ti ricacciamo immediatamente in Romania», rimbombano ancora dentro la mia testa mentre John mi apre la portiera del taxi.
Regge la mia mano e le luci del centro di Chicago illuminano a tratti il suo volto. Non riesco a sostenere il suo sguardo, seppur garbato. Giro la testa in direzione del finestrino appena in tempo, mentre il taxi si ferma, per intravedere la scritta BIOGRAPH THEATRE. Accanto alla porta d’ingresso è attaccata la locandina del film. Il volto di Clark Gable campeggia sotto la scritta MANHATTHAN MELODRAMA. A lui non poteva non piacere: è una storia di gangster.
Le persone sedute in sala vedono entrare un uomo e una donna abbracciati, niente di più. Non riconoscono il volto di colui che è considerato dalla polizia il nemico pubblico numero uno. Per alcuni è solo un criminale. Per altri, derubati dei loro averi dal grande crollo economico americano, è una specie di benefattore: rapina chi li ha rapinati, le banche. Nemmeno gli addestrati uomini dell’FBI, appostati fuori dal cinema, riuscirebbero a riconoscerlo. Sanno solo che, all’uscita, sarà quello accanto a una donna vestita interamente in rosso, il loro uomo.
John è affascinato dalla trama del film: la storia di due amici, uno di loro diventa un criminale e viene condannato a morte. La sua attenzione non è tutta rivolta al film, ci sono anche io. Sa come far sentire importante una donna.
A fine proiezione le gambe cominciano a tremarmi. Prima di uscire all’aperto John mi abbottona il cappotto, mi avvolge le spalle.
Siamo fuori, guardo attorno terrorizzata. John se ne accorge.
«Qualcosa ti turba, mia Venere?».
«Dillinger» sento urlare dietro le spalle.
John si volta. Cinque colpi di pistola mi ghiacciano il sangue nelle vene. Scivolo in ginocchio accanto a lui e non capisco più nulla.
Addio per sempre, John Dillinger.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE