Marta D’Asaro

PER BREVITÀ CHIAMATO ARTISTA

IL COLOPHON
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4 min readFeb 2, 2017

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editoriale di Michele Marziani

Marta D’Asaro

A volte ci si innamora di cose che non c’entrano niente. Così mi è successo per il titolo della bella canzone di Francesco De Gregori Per brevità chiamato artista. L’ho preso in prestito, ne ho stravolto il significato — nella canzone indica contrattualmente la professione del cantautore — e l’ho usato per Il Colophon. Mi è piaciuto il gioco tra la brevità e l’artista. Gioco che sta all’argomento di questo numero della rivista: le short story, i racconti, la narrativa breve.
Se vi capitasse mai la ventura di tentare la carriera di scrittore e di farlo con una raccolta di racconti trovereste di fronte a voi una muraglia da fare invidia a quella cinese: «In Italia i racconti non si leggono» vi dirà qualsiasi editore nazionale che si rispetti. Così voi imparereste un’amara verità: in Italia i racconti non si pubblicano quasi mai.
Eppure nelle storie brevi spesso ha sede il cuore della narrativa. Perché scrivere racconti è difficile, inaspettatamente, incredibilmente, infinitamente difficile. Perché è una forma di scrittura che per riuscire impone una disciplina estrema. Un’indagine rapida, spesso invasiva, della quale resta a volte solo un’immagine sfocata. Ma in quella sfocatura sta tutta la bellezza.
Nonostante esista una grande tradizione di narrativa breve in Europa (si pensi alle novelle del Decameron di Boccaccio e si arrivi ai racconti di Cechov, a quelli di Joyce), gli americani hanno fatto delle short story una delle loro forme di scrittura privilegiate. E questo perché hanno ben chiaro quanto sia difficile distillare un racconto che arrivi all’anima del lettore. Gli americani non solo scrivono short story e le pubblicano, ma coltivano la narrativa breve. La incentivano. La insegnano. E lo fanno con grande rigore. Al contrario in alcuni corsi di scrittura di casa nostra nei quali a volte si pensa che il racconto sia più facile, semplicemente perché è più breve, si immagina la fine, ci si illude di vederne l’orizzonte.
Chi ha dimestichezza con la penna sa bene che scrivere un romanzo è assai più semplice anche se quasi sempre la storia ha maggiore complessità: la lunghezza aiuta e perdona molto all’autore. I difetti, tra le pieghe dalla narrazione lunga, spesso non si notano o comunque si diluiscono tra le pagine.
Il racconto no, è un esercizio Zen, il fermo immagine su un particolare della vita.
Per questo i grandi racconti sono capaci di trafiggerci e segnarci per sempre. Perché vi si scorge qualcosa di intravisto, che non si riesce a comprendere, che a volte neppure si riesce a guardare. Ma è lì, sospeso, magnetico, non possiamo girare lo sguardo. Un racconto è una finestra sulla vita: senza temere la luce, la notte, la nebbia, i rumori della strada, le grida dei passanti. È qualcosa che nel lettore cambia il rapporto tra la lunghezza e il piacere della lettura. Ci sono racconti di poche pagine che continuano a girarci in testa per tutta la vita.
In questo numero de Il Colophon ci sono numerosi scritti di pregio. Da direttore mi verrebbe da dire tutti. In particolare ce n’è uno potentissimo, l’intervista di Emiliano Gucci a Valeria Parrella, nel quale la scrittrice condivide con grande generosità la sua idea di racconto: «Un racconto è un nucleo che esplode. Ho questa sfera rovente e amica tra le mani che possiede un’unica verità centrale, essa sia un’immagine, un dolore, un bacio. Tu lo tieni là e intanto ti distrai. Vai a scuola di Andrea, litighi con la testata per cui scrivi, fai la raccolta differenziata, scegli un cinema per stasera. La sfera che hai in tasca prende fuoco, ti accende il cappotto. Ti levi il cappotto, lo lasci nell’ingresso e continui. Rispondi alle domande di Emiliano, ti chiedi chi sia il nuovo premier incaricato, ti accorgi che mancano il caffè e i dadi da brodo vegetali. E quella ti sta incendiando l’ingresso. E allora devi fare qualcosa sennò tuo figlio non troverà una casa quando tornerà da scuola, e non potrai coricarti vicino all’uomo che ami e sarà colpa tua se il quartiere brucia. Ti vesti d’amianto, indossi la mascherina, prendi l’estintore e ti ci getti dentro.
Quando esci, se esci: non era accaduto nulla. Tutti sono incolumi e anche un po’ scocciati. Tu metti la tavola come se nulla fosse, infili le pantofole, ascolti quanto si sono stancati tutti — ma poi l’hai comprato il caffè? — e quando sei stanca anche tu che non ne puoi più, ti metti le mani vicino al naso e senti un vago odore di bruciato che ti commuove».
Per fortuna, come dice un altro scrittore, Luca Ricci, in un’altra intervista, «Il mondo editoriale non è ancora il mondo delle lettere tout court».
Buona lettura.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE