PIER VITTORIO TONDELLI IERI, OGGI E DOMANI

IL COLOPHON
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23 min readAug 3, 2018

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Intervista a Massimo Canalini. Di Angelo Ricci.

Massimo Canalini, vincitore del Premio Fiesole 2004 “per l’impegno di scouting nella narrativa italiana” e collezionista d’arte con i soldi degli zii, ha fondato piccoli marchi editoriali di ricerca quali Il lavoro editoriale, Pequod, Transeuropa e Cattedrale, tuttora attivi. Nell’ultimo quadriennio, dopo aver organizzato un comparto creativo di otto narratori, ha ideato e diretto modulari e innovative serie romanzesche di tipo realistico, per un totale di circa cinquemila pagine e dieci milioni di caratteri. Attualmente, sospetta che i De Pisis in suo possesso, almeno quelli con l’autentica dello scrittore Comisso possano rivelarsi delle sòle, così diremo, pòvca tvóia. Andiamo bene.

Come è nato il suo ruolo editoriale in quello che, per la letteratura degli anni Ottanta, è stato definito come una sorta di “Rinascimento marchigiano”?
Quando inizia il suo rapporto con Pier Vittorio Tondelli?

«Fu Pier Vittorio a intercettare nel 1981 la nostra piccola casa editrice recensendo su Strisce & Musica, un innovativo inserto contenitore allegato del mercoledì al Resto del Carlino — dal marzo 1981 al febbraio 1982 ne sarebbero usciti quarantacinque fascicoli — un piccolo libro-mappa sulle punk band marchigiane:

Ho avuto un incidente con un libro, non potevo senz’altro evitarlo visto il titolo, Province del rock’n’roll: geografie dell’arcipelago giovanile… Per chi come me vive in provincia, titolo di questo genere non può suonare migliore…

A partire da quella “grande madre blues” di cui molti anni dopo uno dei miei mediatori del desiderio preferiti alias James Patrick Page detto Jimmypàge mi avrebbe parlato praticamente vis-à-vis sul tetto di un albergo fiabesco, nelle Province del rock si annunciava tutti pimpanti la morte figurata dell’autore in quanto entità individuale tradizionalmente intesa — la star del rock e il divo come soggettività creatrici romantiche, si vuol dire — a favore di una koinè originaria, anonima fondativa e nutriente per una quantità di ragazzi al lavoro in miriadi di complessini à la Sex Pistols e Clash.

L’epoca era del resto all’incirca quella della cosiddetta “morte dell’autore” teorizzata nell’ambito della “Nietzsche-Renaissance” da Roland Barthes (1915–1980) e Michel Foucault (1926–1984): nel XIX secolo un’opera letteraria veniva interrogata in quanto fondamentale per conoscerne l’autore e svelarne il volto, mentre ora a livello letterario si tendeva a conferire sempre maggior peso all’idea che un’opera non coincidesse con l’individualità concreta e psicologica dell’autore, i caratteri distintivi del suo essere soggetto, bensì con la quantità di dispositivi anonimi vigenti entro il linguaggio.
Era il mio credo di studente e allievo alquanto fai-da-te di ottimi docenti quali Giovanni Ferretti e Mario Sbriccoli (1940–2005), iscritto a Filosofia in quel di Macerata, patria del mitico Renzu di Pao Pao che un giorno ho avuto il privilegio di conoscere di persona. Così come ho potuto parlare tante volte col Grandelele e il Gran Lombardo e Père Anselme ed Eugenio, il giovane talentuoso che con sommo affetto in Camere separate Leo chiama scherzosamente “il primo segretario.” E poi Beaujean, certo. E l’Agi Carcassai e Pietro il veronese interessato di brutto alle cattedrali di Fulcanelli. E poi Erik di Duisburg e Magico Alverman. E la stella polare Federica, e Fausta e Miriam e il grandeamico Piffo; Enos e Andrea di Mira ed Edi Brancolini e Giuliano G. e il mitico Nicola Corona e Lucia, Nadia, Giovanni e ancora tanti altri che qui ingiustamente dimentico, mentre mi viene in mente che mio figlio Pier Vittorio ha diciott’anni, ormai, e in questo esatto momento è a Londra. È a Londra, voglio dire, senza minimamente tenere conto che i Led Zeppelin hanno smesso di suonare nello stesso anno in cui PVT pubblicava Altri libertini.
Tutto questo di cui parlo, voglio dire.

Mentre a quarant’anni già compiuti da un pezzo, ero andato moltissimo oltre le migliori aspettative romanzesche del signor Holden Caulfield, che era un personaggio sedicenne notevolissimo e magistrale nato quattro cinque anni prima di PVT e del sottoscritto. Moltissimo oltre le migliori aspettative del signor Caulfield, si vuol dire, e non solo perché dai ventotto o giù di lì fino ai trentacinque compiuti avevo potuto telefonare al mio scrittore preferito tutte le volte che volevo (quasi), ma perché a un bel momento avevo conosciuto e parlato e a volte persino frequentato proprio i notevoli tizi a cui lui si era ispirato scrivendo i suoi romanzi — tutti costoro, voglio dire, a cui adesso tengo come fossero i miei migliori amici, quasi. Senza quasi.

E a parte questo, saturo di Le parole e le cose, L’Archeologia del sapere e Sorvegliare e punire, non molto dopo la recensione di Pier Vittorio al libretto regionalpunkettaro di cui dicevo, avendo in valigia essenzialmente le bozze del romanzo d’esordio di Claudio Lolli, quelle di Sentiamoci qualche volta di Gilberto Severini a cui PVT avrebbe aggiunto al momento opportuno una partecipe postfazione, e Engels, Manchester e la classe lavoratrice di Steven Marcus più appunto Pao Pao, tra la fine del 1982 e il 1983 ero partito soldato alla volta di Salerno e poi Napoli e poi Padova.
Fu dunque nel novembre 1983 o giù di lì, che incontrai Pier Vittorio nella grande cucina dell’appartamento bolognese di via Fondazza diviso inizialmente con gli amici Roberto Daolio (1948–2013) e Gian Domenico Sozzi, alias il Beaujean di Pao Pao».

La morte della rockstar, in senso lato dell’autore [individuale], del narratore. Un concetto affascinanante teorizzato tra le righe più volte dal grande aedo argentino Jorge Luis Borges e oggi, in ambito nazional bolognese, dal collettivo Wu Ming. Il suo ricordo è del 1983, anni di neofuturismo fumettaro, penso alla virata di Alter Alter e compagnia, a Scozzari, Liberatore… forse, parafrasando Tony Wilson, il mentore dei Joy Division, “eravamo già postmoderni prima che il postmoderno diventasse di moda.” Ma poi la figura dell’autore (e quella della rockstar) non si è ammantata tra le nebbie delle narrazioni, anzi forse è proprio in quei primi anni Ottanta, in cui per un po’ tracima l’agonia dei Settanta degli Anni di piombo, risorge nuovamente. Che cosa significa questo per il panorama letterario italiano dell’epoca in relazione a quello odierno?
In questo senso come si delinea il rapporto tra Pier Vittorio Tondelli e Transeuropa (penso, solo per fare un esempio al progetto degli Under 25)?

«Detto in breve, sarei condotto a credere che la ripresa del romanzesco da parte dei narratori italiani giovani negli anni che vanno dai primi ottanta alla fine del decennio successivo abbia rappresentato una sorta di chant du cygne. Non già l’inizio di una stagione nuova, quanto piuttosto il concludersi di un’epoca di autori ed editori che erano stati protagonisti dagli anni controversi e fecondi del Gruppo 63 al giro di boa del nuovo millennio. Dalla stagione, per intenderci, in cui volgendosi indietro il giovane Arbasino sapeva di poter guardare con fiducia ai grandi vecchi Gadda, Longhi, Palazzeschi, Contini… e poi “addirittura Moravia, che era di una generazione successiva… Basta vedere quali erano i livelli qualitativi di allora,” dice, “e quelli di degrado in cui ci si dibatte adesso. Vi è del disagio. Poiché nel degrado si prova disagio, c’è poco da fare.”
Esattamente per questo, mi dico, non è che converrà manovrare con un certo senso di responsabilità e coraggio, volendo evitare un gran brutto cozzo finale col temibile iceberg che in piena notte si staglia come montagna avanti a noi?

PVT, dicevamo. Nella sua traiettoria di scrittore, il passaggio dagli anni di università (compresi fra il 1974 e il 1980) al nuovo decennio avrebbe assunto un’accezione “sfumata” e quasi subito “postmoderna” (Ugo Perolino 2012), Pier Vittorio avendo scelto d’interfacciarsi non già col politico più utopistico e strong, quanto col cosiddetto fenomeno del “nuovo fumetto italiano” nato verso la fine dei settanta “come espressione di quella vasta fauna creativa, irridente, dissacrante e non violenta, passata sbrigativamente alla storia come generazione del 1977…
“Formatasi culturalmente davanti al teleschermo,” cresciuta avendo in testa “il sound delle più belle ballate della storia del rock” e maneggiando “paperback e altri gradevoli frutti dell’industria culturale,” nell’impossibilità di offrire a se stessa una ben precisa identità culturale (seguendo percorsi, ponendosi obiettivi, rivalutando origini),” la generazione del 1977 avrebbe preferito non darsene alcuna scegliendo di “mischiare i generi, le fonti culturali, i padri putativi, fino ad arrivare alla compresenza degli opposti.” In cui i linguaggi si confondevano e sovrapponevano, le citazioni si sprecavano, gli atteggiamenti e le mode si miscelavano in un cocktail “gradevole e levigato” che era poi forse “il succo di questa tanto chiacchierata postmodernità.”
Detto altrimenti, essendo un critico della cultura giovanile che fino ai vent’anni era stato un catechista e nel contempo un intellettuale di prim’ordine — entrambi questi due aspetti efficacemente taciuti oppure mimetizzati, dopo l’esordio scandalo di Altri libertini dietro i tratti (anche) di un’omosessualità non estranea al glamour — Pier Vittorio mai avrebbe tessuto l’elogio del postmodernismo considerandolo — cerco di dirlo nel modo più scientifico e logico calcolante che mi è possibile — alla stregua di una sbornia temporanea.
Mentre un certo tipo di sincretismo capace di “arrivare” come egli stesso scrive “alla compresenza degli opposti” doveva non apparirgli affatto una buona idea.

Il panorama letterario odierno, viceversa.
Proviamo a volgere lo sguardo in ciò che è servendoci di alcune considerazioni selezionate dall’amico Andrea Demarchi in vista di un suo nuovo e rilevante progetto su Tondelli, che mi paiono condivisibili.
Com’è ovvio, al momento opportuno svelerò i nomi degli autori a cui esse appartengono.
Un primo nucleo di considerazioni dice questo:

Oggi la letteratura è divenuta “non un’attività a cui si riconosce uno statuto di eccellenza tecnica e di valore particolare,” sembrando quasi, oggi, “che la letteratura venga praticata come un diritto di chiunque,” in un’epoca in cui del resto “stabilire dei criteri di valore è molto più difficile, perché il valore è piuttosto diminuito, molto diminuito, a volte drasticamente diminuito, se si fanno confronti con ciò che era la letteratura venti trenta quarant’anni fa.” Tant’è che se “i nuovi lettori e i nuovi scrittori non sanno più nulla, o sanno pochissimo di ciò che è avvenuto nel passato, per il critico sarà difficilissimo non solo dare giudizi, ma perfino farsi capire, perfino rendere convincenti i proprî giudizi, poiché a tutto il suo pubblico mancano i punti di riferimento.”

Il secondo nucleo di considerazioni è invece del seguente tenore:

“Va preso atto del progressivo aumento di libri in cui è evidente la totale indifferenza per le ragioni della forma, ciò che del resto è in linea con lo spirito dei tempi,” essendo “evidente il diffondersi di un atteggiamento di grande sospetto verso qualsiasi ricorso a un minimo di complessità di pensiero e di espressione, che viene bollata come attitudine da intellettuali (accusa considerata tra le più gravi).
“Com’è naturale, la mancanza di cura stilistica è particolarmente evidente nei romanzi di consumo. Non deve sembrare inutile dedicare attenzione a tali sottoprodotti: ignorarli rischia di falsare l’immagine complessiva della galassia narrativa. Infatti, se la paraletteratura è sempre esistita, oggi ha preso uno spazio fino a poco tempo fa inimmaginabile, risultando nettamente maggioritaria dal punto di vista commerciale e anche bene accetta a molta parte della critica giornalistica.”

Nel contempo, occorrerà pur dire che la narrativa non di consumo si mostra rispetto al passato più fragile, un poco, certo accadendo in un ambiente intellettualmente più povero di quanto ancora non fosse quello del decennio novanta. Personalmente, mi limito a credere che Boccalone e Altri libertini e Pao Pao, Staccando l’ombra da terra, Luisa e il silenzio, Treno di Panna e Uccelli da gabbia e da voliera costituiscono un orizzonte romanzesco apparentemente invalicabile da parte di narratori e giallàri che vanno forte adesso.
Il panorama letterario attuale, ecco: a mio avviso, esso mantiene comunque un suo perché; sebbene di quando in quando è vero, tracce d’una certa malafede e overdose di sensazionalismi e nichilismi e infantilizzazioni rischino di guastarne, un poco, i tratti salienti, morali e tecnici.
Ma naturalmente, come artista sui generis dell’editoria posso sbagliarmi della grossa. E anzi lo spero. Però non è quel che credo.

Sul progetto “Under 25,” invece.
Un giorno presi il telefono, chiamai Pier Vittorio a Bologna e gli dissi: “Ma perché scusa tanto non curi un’antologia di racconti di giovani scrittori a tua scelta tipo Palandri, De Carlo, Piersanti, Del Giudice, eccetera? Eh? Che mi dici?”
Pier Vittorio rispose che vi avrebbe pensato.
Di lì a poco mi disse che volentieri avrebbe curato un’antologia di scritture giovanili, a patto che queste appartenessero a persone giovani davvero, ossia che non avessero superato i venticinque anni di età.
Pensai che il selettore dell’età fosse dannatamente troppo basso e non avremmo combinato nulla di buono, per cui com’era un po’ nelle corde della mia ipocrisia eroica gli dissi che andava benone e avremmo trionfato di sicuro.
Era il 1985, e il suo terzo romanzo, Rimini, era stato appena pubblicato.

Pier Vittorio ne parlerà come di un libro costituito da una “serie di storie parallele” in cui Marco Bauer, inviato a Rimini dalla redazione milanese del suo giornale per occuparsi del supplemento estivo, allaccerà con la collega civetta Susy una relazione da cui uscirà sconfitto; Bruno May, giovane scrittore omosessuale vivrà a sua volta una liaison con il giovane artista Aelred; il musicista Alberto si innamorerà di Milvia, madre di famiglia in vacanza a Rimini; l’antiquaria tedesca Beatrix andrà alla ricerca della sorella minore scomparsa; i cineasti Roby e Tony tenteranno di realizzare un film ambientato in riviera, e un professore di latino giungerà in città per annunciare l’apocalisse.
A proposito del personaggio Bruno May, nel corso di una mitica conferenza anconetana in compagnia di Claudio Lolli, Pier Vittorio offrirà alle cinquecento persone che nell’estate del 1985 affollavano gli ambienti della Mediateca di via Bernabei una serie di dettagliate suggestioni, “imprestiti” e para intertestualità utilizzati durante la stesura di Rimini per dar corpo al personaggio del giovane scrittore omosessuale — suggestioni e imprestiti tratti sia dal romanzo breve La dedica di Botho Strauss, sia dai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes.
A Bologna, nella tarda primavera di quel medesimo anno era stato lo stesso Pier Vittorio a confidarmi che il suo terzo romanzo aveva prenotato in una sola libreria di Rimini un quantitativo di copie vertiginoso: “Millecinquecento copie in una sola libreria,” mi disse.
In precedenza, nell’inverno del 1984, Pier era venuto a trovarmi nello studentato bolognese in cui alloggiava la mia fidanzata di allora, e lo studentato era una struttura molto ben realizzata posta alla fine di via San Felice, forse un ex mattatoio riattato da poco, e Pier mi aveva fatto presente che per i quattro mesi a venire sarebbe sparito dalla circolazione poiché doveva dedicarsi giorno e notte alla stesura di Rimini.
Nella primavera del 1982 — il suo servizio militare presso la 2a Compagnia del Cusdife e le campate della caserma Macao di viale Castro Pretorio a Roma era finito da un anno — Pier informa l’amata Federica Gazzotti che il suo soggiorno bolognese sta andando discretamente. Ha ultimato la stesura definitiva del secondo romanzo, ha già consegnato il dattiloscritto all’editor Aldo Tagliaferri e ora attende a breve dalla casa editrice di via Andegari una risposta, fiducioso che sarà ancora l’editore di Altri libertini a pubblicarlo — in effetti Pao Pao uscirà in cartonato per Feltrinelli nell’ottobre del 1982 — e subito dopo spiega a Federica di essere passato in università per dottorati di ricerca e borse di studio e contratti, ma c’è niente da fare. E ancora, non avendo granché soldi, ha insistito con Tagliaferri per un piccolo assegno che è poi riuscito a “scucire,” ma ovviamente già sa che a breve si troverà di nuovo al verde.
Nel periodo 1983–84, Bompiani gli offrirà quale anticipo sulla base di un contratto per due titoli una somma sedici volte superiore a quella che Feltrinelli deciderà infine di non corrispondergli in vista, credo di ricordare, del terzo romanzo. Certo, non vorrei apparire pettegolo; e in ogni caso è pur vero che siamo ancora negli anni del trionfo a livello mondiale del Nome della rosa, ed è ragionevole immaginare sia (anche) grazie agli introiti del libro di Eco se la casa editrice in cui operano Mario Andreose ed Elisabetta Sgarbi vorrà ingaggiare, secondo una strategia capace di molti frutti, la coppia di giovani narratori Pier Vittorio Tondelli e Andrea De Carlo “strappandoli” rispettivamente a Feltrinelli e alla casa torinese di via Biancamano.
Tornando a Rimini, sempre nella primavera del 1982 Pier confida a Federica di aver comprato pour son instruction personnelle una quantità di libri, tant’è che la sua stanza nell’appartamento di via Fondazza è ora un caos.
Infine, con più di tre anni di anticipo rispetto al momento della sua effettiva pubblicazione le dice: “Poi scriverò finalmente in forma di romanzo Rimini, partendo da quella vecchia sceneggiatura di cui credo tu sappia.”
En passant aggiungerò che Federica era, insieme a Tagliaferri, la sola persona a cui sin dall’inizio Pier faceva leggere i proprî testi prima dell’uscita in libreria, tenendola al corrente dei suoi progetti di scrittore anche rispetto a ipotesi romanzesche rimaste poi senza seguito — le fonti sono Federica stessa e l’ottimo amico di lei e PVT, Claudio Bizzarri, i quali in tempi diversi me ne hanno parlato.
Successivamente, l’amico Filippo Betto che Pier aveva conosciuto a Bologna negli ultimi mesi del 1985 mi disse di aver avuto accesso alle pagine di Camere separate con un certo anticipo rispetto alla pubblicazione del romanzo presso Bompiani, avvenuta nell’aprile del 1989.

Più avanti, se mai vi sarà spazio, volentieri riprenderei un minuto quella cosa mai sentita prima dell’iceberg in piena notte, molto pericoloso avanti a noi».

Il suo riferimento al progetto di Andrea Demarchi su Tondelli cita, senza nominarli, autori che perimetrano in modo severo, ma tuttavia condivisibile, la sensazione di una radicale mutazione del e nel senso della letteratura, mutazione a noi coeva e nella quale nessuno, né lo scrittore né tantomeno il lettore né, a maggior ragione e/o rensponsabilità, gli editori o ciò che ne resta (di tutti e tre intendo) sono in grado di percepire la dilatazione spaziotemporale. Vuole svelarci chi sono questi autori?
Mi affascina e preoccupa al contempo il monolito quasi kubrickiano a cui fa riferimento, quell’ iceberg molto pericoloso che si staglia di fronte a noi e a cui, come passeggeri intenti nelle danze a bordo del Titanic, ci avviciniamo inconsapevolmente. La prego, ha tutto lo spazio che vuole per definire la questione.
Inoltre come considera l’attuale interpretazione, critica e mediatica, della figura di Pier Vittorio Tondelli?

«Partiamo dall’attuale interpretazione critica e mediatica circa PVT.
Riporto poche annotazioni (e auspici e istanze) in cui a diverso titolo ritengo di potermi riconoscere. Ventisei anni fa François Wahl, l’editor francese di Pier scriveva: “Fin dall’istante in cui l’ho conosciuto, PVT è stato per me un mistero… Il silenzio in cui ha avvolto la malattia venga accostato alla sonorità dei suoi primi libri. PVT era sintonizzato sulle onde di Woodstock, ma nello stesso tempo avrebbe potuto diventare un trappista… Queste pagine si limitano a evidenziare le dimensioni dell’enigma in cui è avvolta l’opera di PVT.”
E a vent’anni dalla morte, a ventidue, a venticinque, ecco alcune voci (di Stefano Iorio, del caro Massimiliano Chiamenti e Pierangelo Milano) che domandano di capire un po’ bene:
“… Ancora oggi non sappiamo nemmeno quando si sia ammalato… Pubblicate gli epistolari, diteci chi era quel suo amante morto, qualcosa. Basta con queste reticenze.”
“… Mancano nella biografia dello scrittore molti fatti inerenti alla sua vita privata e sociale che, lungi dall’essere un ozioso e morboso gusto del pettegolezzo piccante, contribuirebbero all’ermeneutica.”
“… Nulla emerge della vita sentimentale di Tondelli.” Qualcuno potrebbe obiettare “che ciò non sia affatto necessario ai fini dello studio dei testi, ma questi ultimi sono pieni d’amore e storie che riguardano tale sfera del vivere. Inoltre, una conoscenza della vita privata dello scrittore potrebbe gettare nuova luce su determinati personaggi o riferimenti presenti nei suoi libri… Non si dà spazio,” insomma, “a quelle vicende che caratterizzavano la vita quotidiana di Tondelli e la cui conoscenza permetterebbe non solo di dipingerne un ritratto più completo, ma anche di collegare fatti, abitudini e persone reali a vicende e personaggi letterari.”

Come considerare, si diceva, l’attuale interpretazione critica e mediatica di PVT: ebbene, con talune rilevanti eccezioni, io direi forse a tratti un pochino stereotipata, e nel contempo tanto più pletorica quanto più dispersiva.
D’altra parte, in decenni di studi critici e specialmente tesi di laurea dedicate all’autore di Altri libertini, non potendo gli estensori disporre con certezza se non dei testi editi, dopo un certo numero di approfondimenti e ricognizioni il rischio del giro a vuoto si lascia intendere.
In questo senso, e certo avrei piacere nell’essere contraddetto in proposito, ma credo che a quasi trent’anni dalla morte, di Pier Vittorio non sia stata resa consultabile nemmeno la tesi di laurea dedicata alla Letteratura epistolare come problema di teoria del romanzo. Dico questo perché nessun giovane studioso di Pier ne parla mai, credo, e dunque nessuno parrebbe averla vista nemmeno con il binocolo. Se viceversa risultasse consultabile, volentieri mi darei a leggerla.
Ma anche sul fronte dell’ampio dattiloscritto contenente l’ur-testo da cui Pier Vittorio avrebbe tratto Altri libertini, mi pare che tutto taccia. Evidentemente, sapremo meglio più avanti.

Nel contempo, le estese testimonianze video e audio in mio possesso raccolte grazie alla sollecitudine di importanti testimoni diretti quali François Wahl o Filippo Betto oggi scomparsi, unitamente alla vasta messe di lettere scritte da Pier Vittorio di proprio pugno e ben per questo difficilmente disponibili in copia all’interno del suo epistolario (a tutt’oggi peraltro inconoscibile), credo ci dicano di una mancata attenzione, forse, nei confronti del cosiddetto contesto (di amicizie professionali e non solo) in cui Pier Vittorio operò e visse, contribuendo in buonafede e senza volerlo a fare di lui una persona parzialmente priva di mondo.
D’altra parte pur io, un po’ come l’ispettore Rock interpretato da Cesare Polacco negli sketch della brillantina Linetti ho commesso i miei errori: scomparso anche il professor Frasnedi, a chi mai chiederò fino a che punto, secondo le sue conoscenze in proposito, esistette o meno una “questione girardiana” in Tondelli?

Infine, “la faccenda dell’iceberg.”
E anche qui, a decenni di distanza, prima di qualunque altra cosa diveniamo maggiormente attenti alle azioni di Pier Vittorio e lasciamoci guidare dalla sua intelligenza per tanti aspetti, non solo quanto a capacità prefigurative, straordinaria.
All’inizio, nemmeno capivo bene: perché insistere nel voler definire quella che a me appariva una raccolta di racconti — Altri libertini, intendo — come un romanzo a episodi? “Intanto,” Pier mi avrebbe chiarito, “considerando un po’ meglio la ricorrenza di determinate situazioni e personaggi in alcuni dei sei racconti.”
Pochi mesi più tardi, a proposito del Diario del soldato Acci, ecco che Pier pensa — ce ne dà notizia Fulvio Panzeri — a una riduzione televisiva: “Una serie di telefilm di breve durata che vede come protagonista appunto Acci, i suoi amici, e l’esercito d’Italia. La scansione nei tempi brevi del racconto” permetterebbe “una traduzione televisiva efficace e quasi naturale.”
Romanzo a episodi (1980), serie di telefilm (1981).
Poi arriva Rimini, e Pier Vittorio ne parlerà come di un libro costituito da una “serie di storie parallele.”
Romanzo a episodi (1980), serie di telefilm (1981), serie di storie parallele (1985).
E ancora dopo, eccolo alle prese con la sceneggiatura di Sabato italiano, che è poi un film articolato in tre episodi distinti, con protagonisti indipendenti tra loro che di tanto in tanto transitano da una vicenda all’altra.
Romanzo a episodi (1980), serie di telefilm (1981), serie di storie parallele (1985), e infine questa pellicola a episodi che ti sorprende (1992).
Dopo, mi bastano meno di venticinque anni e alla fine, mutate le cose che son da mutarsi, se Dio vuole ci arrivo anch’io!

Dunque, siamo sempre alla “questione dell’iceberg.”
E qui, chiedo scusa, ma sono obbligato a un indugio narrativo o qualcosa che non mi è possibile evitare.
Entre-temps — ormai lo sapete — quattro citazioni.

La prima, brevissima ma folgorante da Umberto Eco, di cui com’è noto Pier fu allievo al Dams di Bologna, mentre la Rai ha già annunciato l’uscita entro fine anno della serie tratta da Il nome della rosa con Turturro ed Everett; a seguire, la seconda e la terza citazione da Aldo Grasso, e la quarta da Gian Arturo Ferrari:

1.) Sono un consumatore quotidiano di serial di ogni tipo.

2.) Salvo rari casi, in Italia abbiamo perso l’abitudine di essere un po’ più coraggiosi, rischiare, pensare in grande. Sky ha prodotto Romanzo criminale e Gomorra, due serie che hanno fatto ben sperare. Peccato abbia poi prodotto The Young Pope, l’anti-serie per eccellenza, una serie che in America non succederebbe mai, scritta e diretta da un solo autore, una specie di sogno rinascimentale.

Nella produzione americana una serie è un’opera collettiva, invece in Italia abbiamo questo vizio autoriale che fa parte della nostra cultura.

3.) … Tra il romanziere e la figura dello showrunner, il velo di separatezza sembra essere sempre più sottile… Se mai la serialità ha fatto giustizia di quella Nozione d’Autore che specie in Italia ha contribuito a creare non pochi equivoci. [Nelle serie,] il valore della scrittura è generato da una sorta di qualità plurale che tiene a bada il narcisismo autoriale e le manie di grandezza del singolo scrittore.

4.) Nelle nuove serie le vicende si intrecciano, l’andamento è “frondoso,” il plot decisamente più complesso… Questo modo di raccontare ha un vantaggio: garantisce più verosimiglianza. Del resto, le nostre vite non sono lineari, e gli intrecci non mancano… Il successo delle serie dimostra che le persone hanno bisogno di storie, e di storie lunghe e complesse in particolare.

Ora, per provare a dar conto dei miei convincimenti romanzeschi di tipo nuovo e di ciò che intendo per rischio iceberg, nonché “crisi dell’autore tradizionale” e “compiti che in futuro spetteranno a una classe particolare di editor showrunner,” invece di abbandonarmi a un unico filo di pensiero, “one long argument,” un lungo ragionamento à la Girard da cui pure avendolo già tutto in mente mi piacerebbe lasciarmi avvolgere, dispongo solo — e me ne scuso — di due modesti spezzoni di appunti che già da tempo avrei dovuto decidermi a completare e giuntare.
E stavolta, invece di una citazione, una precisazione, avendo fatto carte false affinché l’assonanza ione-ione giungesse a colpirmi in questo punto esatto del discorso come il fulmine di Eràclito che governa ogni cosa.
Va bene. Le righe che seguono relative ai nuovi compiti dell’editor eccetera; voglio dire: è evidente in che senso non si tratti di rimuovere nessuna delle competenti figure professionali chiamate a operare, secondo tradizione, all’interno di ogni casa editrice degna di questo nome.
Gli editor come li conosciamo, così come gli autori individuali, esisteranno sempre! Voglio dire: ci mancherebbe. Eppure l’urgenza di un’integrazione o qualcosa con la figura di cui tento di disegnare il profilo mi sembra si faccia incontro di brutto, che noi lo si voglia o no. Questa figura che ufficialmente ancora non esiste. Costui, voglio dire, con tutta la sua operatività nuova, i suoi comparti creativi, e i problemi di osmosi e compagnia bella.
Magari si tratta di autosuggestione e nient’altro, eppure provo la sensazione di sentirlo talmente vicino e fraterno che già mi par di conoscerlo, costui di cui parlo, da tanto tempo.

Comunque, primo spezzone:

Sempre più spesso mi capita di avere avanti agli occhi questa immagine dell’editor che eroicamente appostato sulla riva di un fiume limaccioso e colmo di detriti, munito di una canna da pesca modernissima in fibra di carbonio, di quando in quando, speranzoso, sfila a caso dall’acqua uno pneumatico senza più battistrada, una camera d’aria danneggiata in modo irreparabile, un salame coi piedi à la Jacovitti e anche, però molto ma molto più raramente, un fiore bellissimo e intatto, o una pietra preziosa che non ti aspetti.
La cosa che in questa sorta di costosissimo incubo a occhi aperti più mi sorprende, è che sia un editor nostrale (a cui ritenetevi liberi di attribuire il nome del bravo professionista di libri che più vi piace), sia un editor statunitense smaccatamente di grido come Gary Fisketjon si appostino all’opera con le loro struggenti esche e mulinelli all’incirca nello stesso identico modo, entrambi ugualmente speranzosi — eroicamente in agguato come li immagino lungo il solito flusso limaccioso di storie a caso — in una giornata di pesca un po’ fortunata.
Scommetto che anche le pattuglie di volenterose stagiste di cui si sostanziano parte delle forze intellettuali attive nelle agenzie letterarie del nostro Paese possano essere immaginate all’òpre intente, sostenute da un miraggio-speranza di tipo ìttico non dissimile.
Il fiume di inediti è costituito non lo so, da ottomila romanzi, ottantamila, otto milioni, ma i bravi editor e le agenti letterarie niente, son sempre lì, muniti di canna da pesca ultramoderna, desiderosi di vedere cosa diavolo verrà su oggi, dai flussi dell’indistinto, di realmente abbastanza buono quando non già addirittura ottimo.
E un simile genere di attese è attivo ovunque: nelle meravigliose e sognanti grandi case editrici newyorkesi, tedesche, parigine, ovviamente lombarde, e ovunque.
Da prima della guerra, è così.
Da quando in Italia le case editrici si chiamavano ancora praticamente coi nomi proprî degli intraprendenti tipografi che le avevano inventate.
E oggi, invece? Be’, oggi è uguale.
Il fiume limaccioso con dentro di tutto è sempre lì, e gli impavidi pescatori, sia pure più o meno coadiuvati d’aiutanti — puoi vederli anche ora — lo stesso.

È un incantesimo globale. Una specie.
Un superenalotto della madonna, però applicato all’editoria di narrativa su scala planetaria. Che a parte qualunque altra considerazione, già solo in termini di mera gestione ma cosa ci costa? Il dottore Amministratore Delegato lo sa?
E ben per questo mi chiedo: quanto ancora vorremo andare avanti così? Sempre speranzosi a casaccio — tanto nel 2018 quanto negli anni in cui in Germania la casa editrice del libraio Massimiliano David Niemeyer, figlio di Hermann Agatone Niemeyer pubblicava nella città di Halle Essere e tempo?
O non sarà il caso che le aziende editoriali degne di questo nome si dotino (sperimentino senza bisogno di suicidarsi la sostenibilità) di editor di nuova concezione destinati — Dio lo voglia — a operare (progettare) in tutt’altro modo?

Secondo spezzone:

Manteniamoci saldi nel mare pur gelido e presidiato d’iceberg generato dalla sempre meno attraente narrativa contemporanea in mano ad “autori” che pretendono di competere con le serie tv lavorando in solitaria e scrivendo svelti-svelti storie di minuto in minuto sempre più implausibili, imbottite di trucchi scellerati e ruffianerie d’ogni genere: ebbene, al posto di tanto disgraziato semprepèggio non sarebbe forse altamente indispensabile che editor showrunner degni di questo nome provvedessero a selezionare squadre di autori, e dopo aver messo a punto e concordato coi proprî comparti creativi e gli editori-armatori progetti seriali degni di questo nome, figurativamente salpàssero, lasciandosi l’ormai inservibile sicurezza del porto alle spalle, e affrontassero insieme alla caccia della nutriente balena-megaseller di cui hanno bisogno, il rischio del mare aperto?

Posto che per tutto questo serve loro una nave e non già una canna da pesca, essi nell’immensa saggezza di cui sono forniti sanno che solo puntando alle stelle non resteranno con in mano un pugno di fango, allo stesso modo in cui sono consapevoli che scrivere non è più come credono le fidanzate e le signore anziane quell’operazione intima e appartata che in intellettualistici film francesi dei sessanta caratterizzava personaggi introversi e fuori dal mondo.
La verità è che oggi noi vediamo da un lato il proliferare incontrollato di testi di narrativa semplificata e mortificata, segno che la scrittura di un romanzo viene appunto percepita come una competenza sempre più diffusa, coi libri scritti dalle vecchie per le vecchie, e dalle casalinghe Usa bulimiche infantilizzate per un pubblico mondiale di lettrici infantilizzate. Dall’altra, comprendiamo senza incertezze in che senso tale proliferazione s’accompagni a una crisi difficilmente sopravvalutabile, con gli scrittori degni di questo nome che ormai si contano sulle dita di una mano (Cappi-Manzoli 2014).

Per molti autori, lavorare nei modi oggi praticati all’interno delle writers’ room statunitensi diverrà un’ottima buona occasione con cui provvedere alle necessità dell’esistenza, e secondo la mia modesta esperienza in proposito — notare le due assonanze in enza da brivido — non riesco a vederli frustrati dal lavoro standardizzato come accadeva, sul genere Barton Fink, agli scrittori prestati a Hollywood nell’America dei Faulkner e Fitzgerald (Cappi-Manzoli 2014).
Le modificazioni della sensibilità narrativa che sperimenteranno li porterà viceversa a concepire una nuova forma di letteratura interdividuale, ossia relazionale, capace di mettere i lettori a confronto con romanzi innovativi che nessuno degli autori nuovi di cui parlo avrà scritto in solitudine.

I romanzi.
Già.
Questi straordinari compagni di viaggio che possiedono specialmente una forza morale in quanto forniscono risorse per conoscere, comprendere e rispettare l’altro. Poiché per dirla con Silverstone, sulla base di quel che viene letto, (visto, e ascoltato), decisioni saranno prese, responsabilità identificate o negate, la mano tesa o richiusa.
La nostra è un’epoca in cui a quanto pare i romanzi (le narrazioni), sono quasi tutto quello che abbiamo. Per cui sarà indispensabile che i nuovi editor pongano la massima attenzione nel progettare, in serie, quelli giusti.

Quand’ero a mia volta un “under 25,” leggevo spesso nelle pagine culturali dei quotidiani determinati pissi-pissi circa più o meno misteriosi editing invasivi ed editing, viceversa, “leggeri” come le sigarette Multifilter — editing cosiddetti di superficie, e dunque sempre rispettosi, a livello strutturale, delle istanze autoriali.
Oggi, certe giovani editor tendono a immaginare se stesse alla stregua di levatrici.

Personalmente, mi ricordo che a trent’anni parlavo spesso e volenteri di “atteggiamento maieutico.” E poi ricordo che di lì a non molto, forse non ancora abbastanza ebbro, traversai un periodo in cui nei panni dell’editor self-made tendevo a immaginarmi come un “restauratore” di buoni mobili bisognosi di speciali riparazioni.
Voglio dire: questi miei onesti luoghi comuni, e questo caro catalogo di oneste pose editoriali divenute, ciascuno di voi ben comprende, di colpo antiche.

Oggi viceversa, nell’epoca dell’immagine del mondo e di un’editoria di minuto in minuto più riguardata dalla necessità di provvidi cambiamenti, credo che compito di un editor sia preoccuparsi innanzitutto di veder edificate delle cattedrali. Meglio se grandiose, possibilmente.
Proprio come scriveva Carver: “La cosa più importante è mettere insieme un’opera d’arte. Non sapete chi le ha costruite, quelle cattedrali, però eccole lì, ci sono.
“Ezra Pound diceva: «È immensamente importante che si scrivano grandi poesie, ma non fa alcuna differenza chi le scriva.» Ecco come stanno le cose.” Ecco, le cose, come stanno.

Oggi, cominciando a prendere sul serio Raymond Carver e la lezione ancora largamente misteriosa di Pier Vittorio Tondelli, il cui significato d’assieme non è stato inteso e resta perciò oscuro, nascosto, si tratta di comprendere in che senso il vero contenuto espressivo e destino della parola romanzesca riposi per una parte essenziale, in vista dell’editoria del futuro, in quello sontuosamente dimesso della parola “serie.”
Fingere che non sia così, non potrà mai essere una buona idea.
E rimandare ulteriormente i passi indispensabili al costituirsi delle nuove professionalità e attitudini a cui ho accennato nelle presenti righe, renderà più debole l’apprestarci a fronteggiare la vasta oscurità che ci minaccia.

… Fra l’altro, pare che determinate canne da pesca in fibra di carbonio o materiale metallico comportino un rischio reale di folgorazione, nel caso finiscano a contatto con linee elettriche aeree.
Per cui voglio dire: pensiamoci».

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IL COLOPHON
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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE