RECENSIONI

IL COLOPHON
IL COLOPHON
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29 min readJul 7, 2015

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IL REGNO DEGLI AMICI di Raul Montanari
[Einaudi]

La lettura del Il Regno degli amici, soprattutto la parte iniziale — la felice scoperta della casa abbandonata e la conseguente naturale appropriazione — mi ha catapultato nel periodo della mia adolescenza. Anche io come i protagonisti di questo romanzo ho trovato il mio regno, anzi per essere precisi, io e la mia migliore amica di allora ce lo siamo ricavato tra i rami e le foglie di un foltissimo cespuglio. Diversamente da Nicodemo (Demo) e i suoi amici che conoscono Milano e vi si destreggiano con grande facilità, io e Cinzia vivevamo nella campagna veneta e della campagna veneta avevamo fatto il nostro regno. Ma il senso di libertà e di conquista di uno spazio fisico e creativo ci accomunava allora, e tramite i ricordi anche adesso, a Demo e ai suoi amici.
Il Regno degli amici si svolge a Milano durante l’estate del 1982. Sono due i fatti storici che fanno da cornice alle avventure degli abitanti del Regno e che Demo ricorda più volte: l’allora recente vittoria dell’Italia ai Mondiali e la triste vicenda di Alfredino caduto in un pozzo artesiano alle porte di Roma nel 1981.
Demo deve prepararsi per affrontare gli esami di riparazione a settembre e quindi per lui niente vacanze: se ne starà a casa sui libri mentre la sua famiglia se ne va in vacanza. A Demo questa situazione non dispiace, anzi, ne approfitta per girellare per una Milano quasi deserta nel caldo torrido di agosto e nelle sue peregrinazioni si imbatte in una casa abbandonata lungo in naviglio della Martesana. Orgoglioso come solo un adolescente può essere di un qualcosa che solo lui sa e che lui per primo ha scoperto, la mostra ai suoi migliori amici: Fabiano e Elia, detto il Profeta che approvano e decidono di mettere radici. È Elia che con la sua davvero personale interpretazione e traduzione di una frase che appare su un muro della casa “Reign over me”, battezza il nuovo covo con il nome de “Il Regno degli amici”. Le quattro mura diventano presto il rifugio dei tre amici adolescenti, anzi facciamo quattro dato che dopo poche pagine entra in scena per rimanervici Ric Velardi, new entry che affascina Demo, il giovane protagonista, e che mette un po’ in crisi il suo rapporto con Fabiano, il suo migliore amico in assoluto, forte, deciso, punto di riferimento della banda. Ric però sembra non rappresentare una minaccia all’equilibrio di antica data e si unisce al gruppo con rispetto standosene almeno all’inizio un po’ in disparte a guardare le dinamiche del gruppo come se fosse uno spettatore esterno. I quattro si completano a vicenda e formano nell’insieme un gruppo di adolescenti davvero interessante: Demo è timido e insicuro, con i segni dell’acne adolescenziale; Fabiano è l’alfa del gruppo, sbruffone ma sensibile allo stesso tempo; Elia ha dei muscoli da non credere e una visione e interpretazione del mondo — e anche della lingua inglese — tutte sue; Ric è il maturo del gruppo, quello con il sangue freddo e i nervi d’acciaio, un’aggiunta che si rivelerà utilissima visti i grandi casini nei quali i quattro sicacceranno.
Perché i quattro, ne “Il Regno degli amici”, non solo si fanno le canne, guardano le loro collezioni di giornaletti porno, mangiano schifezze a go go, bevono e si ubriacano, ma devono anche vedersela con gli aspetti e i rappresentanti peggiori dell’umanità: il piano superiore del Regno infatti viene preso con la forza da uno spacciatore jugoslavo, Svetozar e Cosimo, fratello sulla brutta strada di Ric.
L’estate del 1982 di Demo non è solo l’estate dell’indipendenza, della libertà, dei sedici anni, ma è anche l’estate dell’amore e delle prime volte. Appare infatti nel naviglio davanti alla Martesana una ragazzina che come Demo compie gli anni in agosto, solo che lei di anni ne fa quattordici. Demo si innamora da subito di questa ragazzina che lui chiama la ninfa pescatrice che vive con la madre in un camper poco lontano e che ha il suo letto su un albero. Valli così si chiama la ragazzina-ninfa incuriosisce subito i quattro del gruppo che decidono per il suo quattordicesimo compleanno di darle le chiavi del Regno. Ma mentre per i quattro il Regno è un luogo magico, per Valli si trasformerà in una prigione, in un incubo: a fine compleanno viene infatti violentata. Demo e i suoi amici pensano subito allo jugoslavo e in un momento di follia, annebbiati dall’alcol, lo stanano e lo annegano nel naviglio. Ma il destino a volte è crudele e quello che si pensa giustizia non lo è affatto. Il gruppo si spezza, Valli viene portata via dalla madre, lo zio Rainer fa vuotare il sacco a Demo che con sollievo racconta la verità e segue i suoi consigli.
L’estate finisce portandosi via la spensieratezza di Demo e dei suoi amici responsabili di un omicidio di cui colpevoli non verranno mai trovati.
L’estate finisce depositando Valli nella piana di Asiago e Demo a Bologna. Le domande sono tante, i dubbi troppi, uno più atroce degli altri: e se avessero ucciso la persona sbagliata? La risposta arriva vent’anni dopo grazie a una promessa mantenuta. Demo e Ric si ritrovano sulla Martesana. Ric che da sempre voleva fare il detective detective ora è e racconta a Demo la verità: si sono sbagliati. Non era stato lo jugoslavo. Fabiano. Fabiano era lo stupratore. Io lo avevo capito da subito, da quando lo avevano ritrovato addormentato nell’officina nella quale lavorava vestito con la tuta da meccanico. Perché cambiarsi? Perché non gettarsi come si è, ubriaco e stanco e al resto ci si pensa domani? Ric porta anche notizie di Valli. Sulla piana di Asiago lei ha sempre aspettato l’arrivo di Demo, ma invece è arrivato solo il figlio di Fabiano, figlio di uno stupro che lei ha tenuto. Ric dà una lettera di Valli a Demo. Lui ci prova anche a lasciarla cadere nel naviglio, ma il destino dice di no e la lettera gli ritorna fra le mani e forse da Valli ci andrà davvero.
Un’adolescenza anni ’80. Un’estate milanese. Un mondo che cambia. Al centro “Il Regno degli amici”.

Giulia De Gasperi

PER LEGGE SUPERIORE di Giorgio Fontana
[Sellerio]

Fiat iustitia ne pereat mundus. Questa potrebbe essere la recensione più breve del mondo, al pari del racconto in sei parole scritto da Hemingway (“Vendesi scarpe da bambino mai usate”).
Giorgio Fontana è un caso singolare nella letteratura italiana, un autore capace di esordire con Mondadori e scrivere questo romanzo per Sellerio (tre anni prima di vincere il Campiello con Morte di un uomo felice, ancora Sellerio).
Giorgio Fontana è anche un caso a sé da un punto di vista umano: uomo cordiale, riservato, gentile, educato, profondo, persona che scrive come vive, in modo pulito ed efficace, ideale e corretto. Ed è qui che sta il pregio e il limite del suo romanzo, senz’altro ben scritto ma un po’ stereotipato nei dialoghi e nei personaggi.
Fiat iustitia ne pereat mundus, si diceva, e in questa frase si ritrova il fulcro del romanzo, in questa sentenza senza ritorno che Roberto Doni, il magistrato protagonista del romanzo, legge sul palazzo di giustizia di Milano e che diventa la pietra miliare del dubbio (e ancor prima della certezza) che si insinua nella mente dell’uomo: quale giustizia? Esiste una giustizia giusta? E a quale costo? E può valere per tutti?
Difficile definire il romanzo, che pare a tratti un libro sulla giustizia senza, in definitiva, esserlo; che sembra un libro sociale, ma non è nemmeno questo. Che assomiglia, a momenti, anche a un thriller; mandandoci fuori strada. È piuttosto un romanzo di formazione sulla coscienza e sulla conoscenza interiore, un testo, come detto, che è scritto bene ma che non riesce a graffiare davvero. La trama è molto semplice. È la storia di un magistrato ormai ultrasessantenne, senza grandi stimoli, che sta per essere promosso e che vive un’esistenza agiata e tranquilla, molto borghese e pulita. Uno che sembra aver deciso già tutto, o che tutti abbiano già deciso per lui, quand’ecco che inaspettatamente si fa coinvolgere da Elena, una giornalista freelance, nella storia giudiziaria (un po’ scontata) che riguarda la pretesa colpevolezza di un immigrato tunisino, Khaled, accusato di aggressione (ovviamente ritenuto innocente dalla ragazza). Doni la seguirà (senza convincerci davvero sul perché un magistrato del suo rango faccia una cosa simile) per le vie di Milano alla ricerca di qualcosa di impalpabile ma profondo: il vero senso della vita e della giustizia. Doni, dopo un iniziale scetticismo, finisce per credere all’innocenza di Khaled, anche se continua a dubitare sull’opportunità di sovvertire la legge in nome della giustizia. La sua frase “Eccezioni sempre, errori mai” viene fastidiosamente ripetuta dal protagonista più volte, come un mantra ipnotico, dimostrando la sua ignavia e pavidità (alla fine il nostro eroe si riscatterà, conquistato dalle vere ragioni della giustizia). E sta qui tutta la chiave del libro, in questo dubbio amletico (rappresentato anche dal testamento senza fine che Doni si diverte a redigerequasi ogni giorno).
La parte più bella del romanzo è senza dubbio quella che riguarda le passeggiate del magistrato per i luoghi di Milano (“Mi piacciono i pensieri nati camminando”, diceva Nietzsche), e Fontana è bravo nel mostrarci non tanto le immagini quanto i suoni, le voci, i profumi, gli odori, tratteggiando luoghi bellissimi e ai limiti del degrado, camminando dal centro alle strade periferiche della città, descrivendo in modo convincente una Milano distratta e borghese, cieca, fino a giungere al quartiere multietnico di via Padova, costellato di realtà difficili ed emarginate. Una Milano ingombrante, presente anche quando non ne parla, e anche quando Fontana racconta di abitudini, di riti, di locali (come, ad esempio, Peck), di situazioni.
Il mondo borghese che descrive Fontana è probabilmente il suo, quello in cui è nato e cresciuto, ma anche qui l’autore non convince del tutto, stereotipando personaggi e ambienti (i cliché dei luoghi ricchi e curati, la moglie bellissima e apatica che fa da spettatrice al travaglio del marito, la figlia ribelle che studia all’estero, i colleghi meridionali che tirano a campare, e così via).
C’è molta musica nel romanzo (che il protagonista, come gli fa dire Fontana, non ama, ma che ha usato per conquistare la moglie), soprattutto classica, alla fine uno dei pochi collanti tra Doni e la moglie, che in quella passione, vera e vitale per lei, incomprensibile ma necessaria per lui, sembrano trovare l’unico momento di complicità vero.
Il finale del libro (che si basa in buona parte su questa intuizione storico-iconografica, una di quelle rare cose che quando uno scrittore le riesce a trovare, si diverte a costruirci tutto il suo mondo attorno) è dato dalla comprensione del vero significato della frase iniziale Kantiana Fiat iustitia ne pereat mundus, il brocardo scolpito appunto sulla facciata posteriore del Palazzo di Giustizia, che in realtà è frutto di un cambiamento apportato durante il regime fascista (incredibilmente mai corretto) che l’ha inserito al posto dell’originale Fiat iustitia et pereat mundus: è qui, nell’immensa lotta fra scopo e azione, tra fine e pratica, che sta il cuore del libro nonché la cosa più bella e profonda di tutto il romanzo di Fontana.

Luca Martini

DIES IRAE di Giuseppe Genna
[Mondadori]

Appaiono talvolta opere che si stagliano nel paesaggio della letteratura con la severa assertività di un monolito kubrickiano che presiede i destini di una materia oscura plasmante panorami di inquietudine metafisica simili a un dipinto di Salvador Dalì o di Giorgio de Chirico. E in quel continuum spazio temporale che è l’espressione narrativa degli umani nell’anno del Signore 2006 sorge, come un mitologico frammento borgesiano includente in sé tutta la storia dell’universo, Dies Irae di Giuseppe Genna. Romanzo universo dalle fattezze postmoderne così come quelle che sono decriptate da Franco Moretti nel suo saggio Opere mondo? Coralità estrema che pesca nei baratri dell’underground? Peana paranoico in onore dell’eterna teoria del complotto che nasce dalla chirurgica mutilazione dell’Antico Regime posta in essere dai rivoluzionari del Terrore nella a noi coeva Place de la Concorde? Romanzo di riscrittura estrema della storia politica e sociale italiana? Noir genialmente atipico? Fantascienza partorita da new waves ballardiane? Sui bastioni digitali di Goodreads e di aNobii si appalesano Wu Ming 1 e Wu Ming 5 che, a proposito di questo romanzo, si chiedono: “Cosa abbiamo qui?”. E a ragion veduta Dies Irae diviene protagonista della ricerca tassonomica intrapresa dal New Italian Epic (NIE) che crea la definizione di “oggetto narrativo non identificato”. Perché questa summa del disumano, dell’angoscia, della tragicomica significazione del nulla inteso come opera di un demiurgo malefico che governa il mondo, questa partenogenesi di oscurità storiche è ben più di un romanzo. Dies Irae è simulacro di identificazione di riti tribali, animaleschi, riti che guidano il divenire della storia degli umani, quella storia che è feudo incontrastato del sortilegio e della sopraffazione. La morte in diretta di Alfredino Rampi a Vermicino, primigenia apparizione dell’ipnotico potere del lutto televisivo sulle masse, è da Genna assunta come oggetto e soggetto chialistico che si trasfigura nei tempi, avvenimento che diventa opera al nero di alchimisti demoniaci al servizio di un’entità che tutto governa e tutto inghiottisce al contempo come lo scheletrico cane da guerra che, nel Trionfo della morte di Bruegel, azzanna le carni putrescenti di un peccatore destinato all’eternità del tormento. Ed è dalla e nella epifania di questo accadimento, quella Vermicino dea ex machina della mutazione politica e genetica di una intera collettività, che Genna prende le mosse per la creazione del vero Dies Irae, libro celato, misterico, oscuro, forse maledetto, Necrocromicon latore di apparizioni lugubri che lasciano labili tracce al di là dello spettro del conosciuto e del conoscibile, apparizioni che risiedono ormai al di là della letteratura stessa, letteratura che, di fronte all’ostensione dell’abisso, non è più nemmeno in grado di essere strumento sufficiente per interpretare il mondo. Genna, mirabilmente consapevole che l’analisi del tutto deve ormai andare oltre la parola scritta, intraprende una efferata dissezione del proprio essere e della propria anima, essere e anima di uno scrittore che è attraversato e trafitto dalle stimmate di una narrazione sempre più sanguinosa e sanguinante, una narrazione che penetra le vicende italiane del crollo della Prima Repubblica, le vicende di quella contaminazione che ha permeato la caduta del muro di Berlino e la palingenesi italica di figurazioni che avrebbero dovuto essere annullate dal termine dell’urgenza della guerra fredda e che invece si sono rinsaldate come protagoniste al di là di ogni estinta cortina di ferro, al di là di ogni umana cognizione, e le trasla in universi paralleli dove echi di morte lanciano criptici segnali alla interpretazione di un’umanità futura che ha perso il ricordo della sua medesima origine nelle selve di un mito dalle epiche sembianze di fondazione asimoviana oltrepassante lo spazio e il tempo. Ed è la creazione di questo testo millenaristico, il vero Dies Irae celato nel Dies Irae che è nelle mani del lettore, il mezzo con cui Genna artiglia la storia, le storie, con parole estreme che avvinghiano anche e soprattutto la sua figura, il suo fantasma forse, di scrittore disperatamente fluttuante tra le vie, le periferie, i locali, le dimore, le congiure criminose, politiche ed economiche, la danza macabra e lisergica delle addiction e il disagio umano e psichico attivi in una Milano, capitale im(morale) della lacerazione unanime e pubblica, mattatoio sessuale dove la pornografia è al contempo demonizzata e divinizzata e forse trasformata anche in arte divinatoria, ma anche mattatoio politico, sociale che è genesi antropofaga di una apparizione in cui tutto si trasfigura nella genealogia malata dei singoli che è parallelamente immagine e riflesso della malattia incurabile di una collettività allo sbando. Visioni che straziano l’anima dello scrittore, anima in cui mimesi e diegesi convivono per comporre il titanico sforzo di descrivere l’indescrivibile, anima estenuata da quel tragico rapporto con le origine spermatiche di quell’ombra definitiva che è la sua famiglia, nucleo mostrato come simultanea negazione e affermazione dell’esistenza di quell’io narrante che, con onniscienza di raccapriccio, si intreccia anche con le vite degli altri protagonisti. Dies Irae è romanzo, reticolo di singolarità e di collettività, zibaldone di schegge di una certa cultura pop che ha alterato, con la complicità di un potere oscuro e totalizzante, la vita in una televendita artefatta e artificiosa, breccia narrativa e narrante che si apre tra le mura di una crudele fortezza costruita ai limiti di mondi estremi, alle frontiere delle possibilità di vita degli esseri senzienti. Dies Irae è dimostrazione terminale di ciò che la letteratura può diventare anche e soprattutto oltre i suoi stessi confini che, mai come in questo romanzo, si espandono verso la linearità assoluta dell’infinito.

Angelo Ricci

MILANO CALIBRO 9 di Giorgio Scerbanenco
[Garzanti]

Lo ammetto: io Milano la conosco pochissimo, direi quasi niente. Ci sono stata una volta sola, nel 1993.
Di Milano so solo quello che mi racconta un mio amico che ci viveva fino a poco tempo fa. Ammetto anche di non sapere chi fosse lo scrittore Giorgio Scerbanenco. E sì che a me i gialli sono sempre piaciuti. Ma io sono cresciuta a King — più horror che gialli, direte voi — e Camilleri. Ovviamente è solo una scusa.
Sono però una persona curiosa. A me piacere imparare, scoprire, e già dal titolo, Milano calibro 9 ho capito che si trattava di un libro per me. E me lo sono accaparrato subito. Sono felice della mia scelta istintiva perché ora, dopo più di duecento pagine, e un salto indietro nella Milano e nell’Italia degli anni Sessanta, posso dire di conoscere un po’ di più Milano e di essere diventata una fan di Scerbanenco.
Milano calibro 9 è una raccolta di ventidue racconti brevi pubblicata per la prima volta nel 1969 (anno in cui l’autore morì). I racconti sono ambientati in giro per l’Italia degli anni Sessanta anche se Scerbanenco torna sempre nella sua Milano. Questa è la recensione delle ammissioni: io ho un’anima nera, un carattere buio, un sarcasmo macabro e dei racconti di Milano calibro 9 mi sono crogiolata come le lucertole fanno al sole. L’attenzione, la suspense, la necessità di arrivare alla fine del racconto, alla fine del libro mi hanno fatto volare tra le pagine di questa raccolta. Scerbanenco narra l’umanità di quegli anni — non tanto diversa di quella odierna — intrappolata nei pensieri più luridi, nei desideri inafferrabili, nelle necessità primordiali: gente malata, pazza, insoddisfatta, furba ma nemmeno tanto, cattiva, sadica, perversa che uccide altra gente, la sevizia, la massacra, la fa saltare in aria, la brucia, la deruba, la smembra…
Ma come si fa a vivere, a meglio a sopravvivere in un mondo così malato? Scerbanenco ci offre due alternative: o ci si ammala come tutti gli altri e si diventa complici di ogni sorta di nefandezze, oppure ci si vendica aspettando l’occasione giusta che a volta può presentarsi subito oppure anni e anni dopo.
Dei ventidue racconti ho particolarmente amato “Preludio per un massacro estivo” ambientato nella provincia di Modena durante il 1966 anno in cui sei uomini che lavoravano nella Casa di cura del Sole vengono tutti misteriosamente ammazzati a poca distanza di tempo l’uno dall’altro. Esempio di vendetta perfetta: voi vi trastullate con mia figlia, mia sorella malata mentre noi, padre e fratello maggiore pensiamo invece che voi ve ne prendiate cura? E allora noi vi uccidiamo, piano, piano, uno per volta, senza rimorsi, senza pentimenti. Amore senza fine di un padre e di un fratello. Giustizia è fatta.
Oppure tu, Luca Baioli, protagonista senza coscienza alcuna di “Minorenne da bruciare” che prima sgozzi la bottegaia e a momenti anche il figlio e poi fuggi, fuggi portandoti dietro la sorellina malata che progetti di usare come ostaggio. Uscito di prigione dopo essere stato condannato, uccidi Amedeo, l’uomo che aveva interrotto la tua fuga, e muori bruciato vivo all’interno della tua auto dall’amico di Amedeo felice di poter finalmente vendicarlo perché tanto in te e nella giustizia italiana lui non aveva mai avuto fiducia. “Piccolo hôtel per sadici” è un capolavoro che mi ha tenuta incollata fino alla fine del racconto. Non appena ho letto rappresentante di coltelli per macellai, camera d’albergo, due uomini ubriachi e donnina poco per bene, me la sono subito immaginata la fine e non sono rimasta delusa. Voi con questi indizi che dite che possa succedere?
Ma il racconto più bello secondo me, quello che descrive la feccia peggiore di questa nostra triste umanità è “Come è fatto un mostro”. Donato Cinati artista con il debole per le bambine, lo sa di essere malato, di avere qualcosa che non va, vuole smettere, farla finita, ma non ce la fa, continua il suo peregrinare per la penisola con la roulette a caccia di bambine, sole, attirate dai disegni dei cartoni e da quella bambola a grandezza naturale che espone nella sua roulette dalla porta sempre aperta. Cerca bambine con i genitori distanti, impegnati, il bruto, le uccide, lo ha fatto con Cappuccetto Rosso e ora lo sta per rifare con la Piccola Fata Turchina, ma è una trappola, un tranello, ma lui il pericolo opposto non lo annusa. Ci casca e piuttosto di farsi prendere si uccide.
Non c’è redenzione per questa nostra triste umanità. Lo sapeva Scerbanenco allora e lo sappiamo noi adesso. Rimane la morte o la vendetta. Quella che arriva prima.

Giulia De Gasperi

L’ADALGISA di Carlo Emilio Gadda
[Adelphi]

Leggere Carlo Emilio Gadda non è una metonimia, bensì una esperienza completa cui il lettore avveduto e appassionato non può e non deve rinunciare. Certo, rispetto a L’Adalgisa, il “pasticciaccio” (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) si pone come elemento determinante dell’immaginario letterario grazie anche alla talentuosa trasposizione filmica che ne fece il grande Pietro Germi con il titolo di Un maledetto imbroglio. Ma quello che definisce “il” Gadda de L’Adalgisa (ah, quell’articolo determinativo prima del cognome che compone la figura monumentale di ogni padre della letteratura italiana ,“il” Manzoni, “il” Leopardi, rievocato nel ricordo delle nostre esperienze di alunni più o meno disciplinati dei patrii licei dalla stentorea voce di supplenti di italiano dalla giovanile sensualità e che Nanni Moretti avrebbe stigmatizzato in Ecce bombo, si dice “Silvia” non “la Silvia!”) è proprio l’uso sapiente della lingua che, muovendo dalla parlata meneghina, diventa strumento di affabulazione e di condivisione di idiomi italiani influenzati dalle millenarie inflessioni dialettali, patrimonio linguistico inestimabile, e anche dalle piroette imposte dal lessico burocratico rivisitato in versione ironica (come in seguito la geniale “questurinizzata federzonite” del futuro “pasticciaccio”) delineando l’intrecciarsi di vite e vicende di una Milano dal fascino straniante. Michele Mari, acutissimo creatore di mimetismi linguistici, riproduce, tra gli altri, anche gli stilemi gaddiani nel suo Tutto il ferro della Torre Eiffel, facendoli assurgere a esempio di narrazione di accadimenti e sentimenti che solo la penna del Carlo Emilio può rappresentare. Gadda inventore, sperimentatore, artefice di variazioni linguistiche che nascono dalla preistoria della lingua italiana e poi lentamente si trasformano in strumento di espressività di storie in cui i personaggi sono il linguaggio che utilizzano e il linguaggio è a sua volta espressione di un’epoca, e forse anche di un’epica, che accompagna il divenire storico, politico e sociale di una nazione intera. Perché quindi leggere
L’Adalgisa? Perché leggere questo geniale pastiche di racconti legati da un filo narrativo e comunque autonomi che racchiudono tutto il Gadda che sarebbe giunto in seguito, da La cognizione del dolore, al “pasticciaccio”, financo alle sue epistole, rapporto esaustivo della difficoltà di immedesimarsi in quella parte complessa da interpretare che è l’essere scrittore? Perché L’Adalgisa, prodromo di un romanzo non portato a compimento, silloge di racconti in progress, raccolta di frammenti è in realtà sia autoritratto potente di uno scrittore sia affresco narrativo del divenire storico di una città (la Milano dei primi decenni del Novecento, non più erede del Risorgimento e non ancora capitale di un futuro economico di cumenda e palazzinari e industrialotti brianzoli, come quello espresso da Duilio Del Prete che nel Sessomatto di Dino Risi, A. D. 1973, dice “ma lo sa cosa mi ha detto ieri il presidente degli industriali lombardi? Guardi, non mi faccia parlare! Così mi ha detto. Guardi, non mi faccia parlare!”). L’Adalgisa quindi da lavoro incompleto, da frutto di meditazioni editoriali di un romanzo mancato diventa invece, una volta pubblicata, opera totale, opera massima che in sé riproduce tutto il Gadda che avremmo poi conosciuto. Un caleidoscopico ritratto (Disegni milanesi è infatti il sottotitolo), una rappresentazione tipicamente gaddiana (nel senso di geniale miscela di storie e stilemi e fonemi) di un Terzo Stato di molteplici borghesie, più ancora che di esclusiva borghesia, che appare come una risposta ironica e mirabile a Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, e dove neoingegneri di belle speranze, dignitose mamme, zii e zie, cognati e cognate, nonne tiranniche, capifamiglia dai mustacchi umbertini, vie, piazze, palazzi signorili, vespasiani solitari, presenze proletarie, anticamere goliardiche, ex sciantose e nobili decaduti, banche popolari, società anonime e ragiunatt convergono tutti verso l’obiettivo di un fotografo novecentesco che, nascosto dal telo nero della professionale coperta d’ordinanza, prorompe un lampo al magnesio che fissa sulla pellicola del racconto il ritratto dell’operosità caotica, non scevra comunque né da meschinità né da rivalse, di quella metropoli lombarda che ha per motto “Fa e disfà l’è tüt un laurà”. È sufficiente leggere questa parata di famiglie e cognomi meneghini che incedono come in una illustrazione di Giuseppe Novello per rendersi conto della capacità descrittiva di Gadda nel rivelare un intero universo urbano che si trasforma in eterna commedia umana: «Si buttava, intanto, all’inseguimento dei Lattuada di Moncucco, mentre già stava delineandosi l’attacco proditorio di quegli e altri peggio, i Lattuada-Ghezzi di Mornate Gavirolo. Non si aveva notizia dei Bartesaghi. Ma i Cormanni erano apparsi inopinatamente a via della Passione, da quei gran tattici che erano a ogni contingenza, in ogni loro bisogna: e gran signori a Cormanno, e anche a Brusuglio. Qui però la manovra fallì: perché nel contempo, dal camminamento defilato di via Donizetti, per il pertugio di via Bellini, dopo aver strisciato come pellirosse lungo la fiancata della chiesa, sfociavano già nella piazzuola, in due distinte coorti, i Ghiringhelli maschi e femmine e i Frigerio femmine e maschi, con pattuglie d’avanguardia dei Trabattoni, dei Berlusconi e dei Bambergi, e alle calcagna però il grosso dei Tremolada, dei Casati, dei Bollati, dei Recalcati e dei Calchi Novati».
Finale e compendio imprescindibile sono le note che l’autore pone al termine di ognuno dei disegni milanesi che compongono questa opera fondamentale, appendice di valore che nella sua funzione apparentemente esplicativa appare ancor più come elemento squisitamente gaddiano, elemento che apre altre porte ancora, altre possibilità di narrazione, altri scenari e vien da pensare che queste note hanno preceduto di più di mezzo secolo quelle che David Foster Wallace pose a chiosa di Infinite Jest e non appaia questa come una blasfemia, bensì come una riaffermazione del maestoso valore di precursore dei tempi letterari che è stato ed è tutt’oggi l’ingegner Gadda Carlo Emilio.

Angelo Ricci

MUORI MILANO MUORI! di Gianni Miraglia
[Elliot]

Ci sono romanzi che anticipano un futuro prossimo, che si può toccare, immaginando momenti e situazioni che poi, alla resa dei conti, ci si rende conto essersi verificate davvero. È il caso di questo bel libro di Gianni Miraglia, Muori Milano muori!, pubblicato nel 2011, che immagina la vita affannosa e caotica nella plumbea e maleodorante città lombarda a pochi giorni dall’Expo del 2015.
Questo è il secondo libro di Gianni Miraglia, che giunge dopo tre anni dal suo esordio culto, con il libro Six pack, uscito per Arcana.
Miraglia è un genovese, giornalista ed ex pubblicitario (cosa che dà al libro un senso di autenticità assoluta), nato nel 1965 e da vent’anni trapiantato a Milano. Il suo scrivere è caratterizzato da uno stile asciutto e originale, a tratti spigoloso, ma molto efficace, unito a una sapiente scelta del plot, strutturato come un countdown capace di tenere altissima la tensione narrativa. Non usa i dialoghi, che racconta sempre senza virgolettati pur narrando il tutto in prima persona. Uno scrittore, dunque, più di contenuto che di forma (qualcuno ha parlato, forse a ragione, di un misto fra Irvine Welsh e Chuck Palahniuk), capace di descrivere ambienti allucinati in maniera efficace e tagliente, a tratti anche violenta e forte, senza lasciare scampo al lettore, per poi smussare gli spigoli e smorzarsi quando tratta le tematiche sociali legate alla disoccupazione, ai disadattati, agli anziani esclusi dalla società, agli emarginati che Miraglia affronta con una poesia empatica che lascia sorpresi.
Un inesorabile countdown, si diceva, che parte dai trenta giorni antecedenti l’inizio dell’expo (quindi dai primi del mese di aprile del 2015) per giungere poi, giorno dopo giorno, con una tensione crescente, all’inaugurazione di questo grande carrozzone, il quale, tra piogge artificiali indotte e notti bianche, pare aver lasciato, tra le cose più rilevanti, un gigantesco fetore di sterco (metafora palese di una città ferita e putrescente, e ancor prima di un intero paese in crisi d’identità e di valori). La situazione politica ed economica è confusa: Berlusconi è morto, la destra ha perso appeal, la sinistra arranca, il malessere dilaga, piccoli Renzi crescono (c’è una descrizione del possibile leader della sinistra che sembra proprio tratteggiare i contorni dell’ex sindaco di Firenze…) la disoccupazione è alle stelle ma, soprattutto, i valori sociali e morali sembrano essere stati spazzati via.
La storia narra di Andrea, un 47enne redattore di brochure pubblicitarie appena licenziato e abbandonato dalla moglie, che osserva la crisi dilagante e cerca di barcamenarsi tra i derelitti e gli approfittatori, autentici stupratori di una Milano senza identità, in un clima apocalittico e senza speranza che contribuirà lui stesso a far crescere.
Andrea si muove tra miserie umane e assurdi colloqui di lavoro, nel tentativo di difendere i pochi soldi rimasti e cercare di sopravvivere nelle maniere più strane (ad esempio, vendendo le proprie scarpe marca MBT e un iPad III al mercatino organizzato di sera dietro la stazione, oppure cercando di mendicare le rimanenze sbocconcellate di un aperitivo appena terminato in un locale alla moda), lottando col padrone di casa per non pagare l’affitto dell’alloggio (che dovrà abbandonare) insieme all’amico Pietro Coccoreddu (detto Koch) fattorino dell’agenzia dove lavorava, anch’egli lasciato a casa dal lavoro.
Queste trenta giornate segnano lo scorrere di una vita rabbiosa e concitata verso il grande evento, mentre attorno a lui persone senza nome o volto (ad esempio, l’uomo del trolley o l’ex assicuratore impazzito) vivono vicissitudini inenarrabili e allucinanti, dipingendo a tinte forti una città blindata e impaurita (l’atmosfera così ben descritta riporta subito alla mente quanto capitato al G8 di Genova).
Attraverso gli occhi solitari di Andrea, viviamo la rabbiosa impotenza di un uomo che vede sgretolarsi tutto intorno a sé, un uomo ancora umano (forse troppo umano per una società simile) che assiste al fallimento del modello capitalistico nel quale credeva (o, meglio, nel quale era costretto a credere) e che viene coinvolto nei piani terroristici segreti di una Milano che non si beve più da tempo, ma che, invece, deve morire, come auspica Pietro Koch insieme agli altri disperati che gli fanno da spalla (ex buttafuori e strani avventori di bar), tra derelitti che assomigliano a lebbrosi infettati dal morbo della crisi e poliziotti che paiono monatti algidi senza volto e anima. Le fiamme che escono dai pennacchi più alti del Duomo sono l’ultima, fortissima immagine che ci resta di una Milano descritta nella maniera più cupa e plumbea possibile. E la cosa più agghiacciante che ci viene da dire a lettura terminata è che, a quattro anni di distanza, in pieno Expo, Miraglia ha disegnato un quadro che assomiglia incredibilmente al mondo che, in questi giorni, viviamo, con la peste economica che dilaga e i monatti che ti raccolgono, sì, ma col sorriso, per buttarti nella calce e cancellare così ogni traccia del tuo passaggio.
Un libro a metà tra il romanzo e il saggio, che lascia il segno e sconvolge, un testo affascinante e angosciante, da leggere con l’amaro in bocca senza la possibilità di uscirne rassicurati o rasserenati. Un libro che, davvero, anticipa tanto e prevede molto, che lascia la sensazione soddisfatta ma, al tempo stesso inquieta e angosciata, di rileggere le prime pagine di quotidiani che raccontano fatti devastanti appena successi.

Luca Martini

MILANO NON È MILANO di Aldo Nove
[Laterza]

Appare evidente fin dal titolo — Milano non è Milano — che non abbiamo fra le mani una guida turistica. Piuttosto il ritratto, un po’ scombinato e frammentario, che uno scrittore — Aldo Nove — fa della propria città. A modo suo. E infatti inizia a raccontare il capoluogo lombardo attraverso il mito del dio azteco Axolotl che incessantemente si trasforma per non morire. Come Milano.
Proseguendo nella lettura pare incredibile che grazie al puzzle di citazioni da wikipedia o dal sussidiario delle elementari, ai versi di poesie e canzoni, Nove riesca davvero a rendere l’idea di cosa significa per lui questa città, al di fuori degli stereotipi e dall’immagine che se ne fa per lo più chi non ci vive e l’ha sperimentata superficialmente come turista o per lavoro.
“[…] per un bambino che arriva a Milano dalla provincia, Milano è un sogno, strano. Anche un incubo, potremmo dire. ʻUn sogno guasto e cavo al centroʼ, ha detto un grande poeta milanese, Milo De Angelis, forse il più capace, negli ultimi trent’anni, di descrivere le suggestioni e le inquietudini del capoluogo lombardo. O più sobriamente, senza suggestioni metafisiche, quello che avverti, che avvertivo da bambino, era l’urto di una città ʻacuta e duraʼ (Franco Buffoni, altro grande poeta lombardo).”
Attraverso gli occhi di un bambino della provincia vediamo la Milano degli anni Ottanta, attraverso gli occhi più disincantati di Nove ormai adulto scopriamo curiosità che nelle guide turistiche non compaiono, conosciamo la storia di una città distrutta tante volte ma che è sempre stata in grado di rialzarsi in piedi, ha ripulito ogni volta la sua immagine a costo di nascondere le vestigia del passato e si è reinventata continuamente.
Aldo Nove, con la sua scrittura discontinua e un po’ straniante, intrisa di ironia, riesce nell’intento di farci penetrare — per quanto possibile — nell’anima della città rimbalzandoci da piazza Duomo ai Mac Donalds, da Via Montenapoleone agli ipermercati, dal Cenacolo di Leonardo alla metro. Sono tanti anche i luoghi di cui non parla — la Scala, l’Accademia di Brera, giusto per ricordare i più noti — ma già cominciamo a conoscerla un po’ meglio (forse) e a capire se ci affascina o no, trovare la chiave di lettura per interpretare questa città e le sue mille facce in continuo divenire. E decidere se vogliamo approfondirne ulteriormente la conoscenza e la frequentazione. “Milano è come la punta di un iceberg. Sotto, immensa, c’è la sua storia. Ogni tanto un’onda ne scopre un frammento, prima che le acque, nell’opera di corrosione inarrestabile che questa città si è proposta per esistere sempre presente a se stessa, ne presente, lo riportino sotto.”

Carla Casazza

SETTE SONO I RE di Angelo Ricci
[Antonio Tombolini Editore]

Sette sono i re è un noir ambientato nel cuore della pianura più produttiva d’Italia, non lontano dalla capitale della “rigenerazione economica” del nostro Paese. E ne racconta il degrado ambientale e morale travestito da normalità: infiltrazioni mafiose in tutti gli affari che contano; pressioni e corruzione per oliare un sistema su vastissima scala; e piombo, tutte le volte che serve a eliminare gli impicci.
Angelo Ricci è bravissimo a descrivere il paesaggio. Ricorda Ghirri e Celati per l’uso della luce e per uno sguardo diretto che coglie, con precisione, tutti gli ingredienti dello squallore padano. Dalla sua penna affilata esce una scrittura dura e incisiva, perfetta per raccontare la violenza, quella sporca di fango e di sangue e quella più subdola e multiforme del crimine organizzato.
Tutto il romanzo è retto da un fortissimo dinamismo narrativo, messo in moto dall’immagine iniziale di uno sciame di ciclisti che ritorna più volte come uno stilema futurista. L’autore ci proietta dentro una sorta di vortice che ci trascina, senza sosta, fino all’ultima riga di una storia avvelenata dai miasmi del male: «Lo sciame migra attraverso le vie. Abbandona con velocità le strade provinciali delimitate dai fossati e dai campi. Occupa tutte e due le corsie, impedisce i sorpassi, rallenta auto e camion, nella speranza, racchiusa nella sua intelligenza multicellulare e collettiva, di poter incontrare qualcuno che trasporti un malato grave verso un qualsiasi ospedale e di poterlo così rallentare, incurante delle sue proteste, fino alla probabile morte. Pronto a riprendere la corsa infinita, sicuro dell’oblio indifferente notificato dall’espressione stolida delle molte facce di pietra della sua struttura».
Ricci ricorre a descrizioni essenziali di cose e persone; ripete frasi con la cadenza ostinata di versi formulari; costruisce pagine brevi di un’epica antieroica, spezzate da una punteggiatura acuminata e battente, come grandine sporca.
Ci guida nei quattordici capitoli la voce silenziosa di un mercenario — il migliore sulla piazza — che si prepara all’azione: voce rappresa, concentrata su di sé e sull’obiettivo assegnato. I suoi pensieri accolgono dalla realtà esterna solo qualche dettaglio che illumina lividi paesaggi della sua memoria, tra pulizie etniche e guerre chiamate per nome: Bosnia, Libano, Caucaso…
Ma anche in mezzo al niente della finta campagna vicino a Milano costui è chiamato a una guerra: «Una guerra di discariche, di inquinatori, di mafie. Una guerra che è arrivata anche qui e che si combatte ogni giorno. Come a Beirut, come a Sarajevo, come in Ossezia o in Cecenia.
Una guerra che ha i suoi generali. Una guerra dove i suoi generali sono tutti alleati. Alleati degli affari.
Degli affari degli amici».
E lui è lì, a fare bene la sua parte, fino in fondo.
Il mercenario, come quasi tutti i personaggi di questa storia, non ha nome: lui, il boss, la zucca pelata, il principe, i sette re del titolo posseggono un’identità scarnificata; non sono uomini, ma tragici fantocci incastrati nell’ingranaggio dell’indifferenza o della brama di potere. Per tutti loro il senso del mondo si è perso per sempre.
Eppure, a volte, dal vuoto torna un’immagine, un luccichio che si avvicina, è di nuovo qui. E stavolta qualcuno si è seduto ad aspettarlo.
Il romanzo è l’ultimo in ordine cronologico di una ideale trilogia della pianura (Notte di nebbia in pianura — L’odore del riso — Sette sono i re).

Milena Miazzi

MILANO — AA.VV.
[Sellerio Editore]

Non amo Milano, e non la conosco. Non amo Milano. Come non si amano tutte le cose che non si conoscono. Finché non cambia qualcosa, che te le fa conoscere, e magari capire. E magari anche amare.
Il primo ricordo che ho di Milano risale ai miei dodici o tredici anni, quando con mia madre andammo a trovare la zia che studiava lì per diventare avvocato. Ricordo via Giambellino. La ricordo dall’alto, mentre infilo il viso nella ringhiera del terrazzo dell’appartamento in cui viveva mia zia.
Ricordo gli alberi spogli al centro della strada (che poi non so se fosse quella stessa via), ma soprattutto ricordo il grigio, e il puzzo.
E la zia che mi dice strizzandomi l’occhio, “Non dire al nonno che abito in via Giambellino, se ne sentono tante al Tg”.
Ricordo poi che tutto era dello stesso tetro colore, e ricordo che non mi piacque affatto.
O almeno così mi pare.
Questo è il primo, direttissimo effetto di Milano, sei racconti per una città.
Sei racconti di esistenze lontane nel tempo e nello spazio, sei racconti i cui protagonisti si avvicendano e affaccendano, presi dai loro drammi quotidiani, dalle loro sconfitte, dai dolori annegati nell’alcol o dalle vite perse alla Play station.
Così ho iniziato a seguire Marco e i suoi reietti amici “gringo” nei loro giri alcolici per bar, chiedendomi dove mi avrebbero portata.
Così ho ascoltato instancabile i fiumi di parole di Pietro, che si “sorbisce messa” e dice sempre “minchia”, e poi torna a giocare con Giu a FIFA mentre whatsappa con altri amici per una fiera di videogame. E a tratti mi è quasi sembrato di essere io quel Giu, amico-di-Play siciliano, che ascolta molto e ribatte poco, che lo consola mentre i suoi di là in cucina litigano perché dei loro amici della “Milano bene” sono indagati.
Ho seguito il racconto allucinato e allucinante del “supermontatore ingegner Boris Mladic”, ed ero con lui mentre passeggiava in pigiama e pantofole in via Astolfo.
Mi sono seduta al Radetzky a bere acqua del rubinetto con gli “amici miei” di Marco Balzano, insegnanti disincantati in un Paese da riformare; e ho conosciuto Maurizio dagli occhi verdi, che vuole sapere “perché qui dentro chiudono le finestre col lucchetto”.
Poi Milano diventa strana, onirica, e riesce a entrare tutta in un tram, il numero 55, dove si cerca l’amore perduto, si parte per la Croazia, si prega la Madonna della Buonanotte, e dove a Carlo “gli piace quello che gli fa schifo”.
Infine sono arrivata a Milano Centrale con Daniel e Simeone, profughi siriani, il 16 giugno, giorno di Ulisse.
Così queste storie si sono intrecciate con la mia storia, mi hanno fatto ricordare la via Giambellino di quando avevo dodici anni, la Milano di quando ne avevo diciassette e prendevo il treno alle quattro del mattino per fare su e giù in giornata e andare a vedere le mostre di Kandinskij con le mie due migliori amiche del liceo.
Questo è l’effetto di Milano, sei racconti per una città, in cui esistenze così lontane appaiono invece tanto vicine, grazie a una città “dall’animo incostante, che non si può raccontare”.
Sei autori per una città.
Fontana, Janeczek, Di Stefano, Balzano, De Benedetti, Cataluccio, si susseguono passandosi un testimone invisibile nel delineare tutte le increspature negli animi di questa gente di Milano, gente del centro-centro o gente dell’hinterland, gente che in fondo potremmo essere io, o tu.
Le penne a volte si fermano piano, a volte bruscamente, e la sinfonia cambia di colpo tra un racconto e l’altro, ma senza sbavature, sempre in equilibrio.
L’effetto generale è quello di un’opera lirica, un’opera per Milano, di cui l’ouverture firmata da Giorgio Fontana rimane la mia preferita. Agrodolce com’è la vita, dove non si vince mai una medaglia d’argento. È vero, “non conoscere vuol dire rimanere vittima dei luoghi comuni”.
Non posso dire di amare Milano, ma so che ora, forse, la conosco e capisco un po’ di più. Ne colgo le contraddizioni con maggiore profondità, comprendo l’odi et amo dei suoi cittadini di fronte a “cose” come (il terribile) Foody e l’Expo, e mi rendo conto che sto bene dove sto, “nella provincia denuclearizzata, a 6 km di curve dalla vita”.

Giulia Sbaffo

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IL COLOPHON
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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE