RIMINI È UN MARCHIO CHE NELLA NARRATIVA NON FUNZIONA

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5 min readAug 3, 2018

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Intervista a Piero Meldini. Di Manuela Angelini

Cinque romanzi, una poderosa quantità di saggi, Piero Meldini (classe 1941) è il decano degli scrittori riminesi. Direttore della civica Biblioteca Gambalunga per oltre vent’anni, si è occupato di storia locale, gastronomia, politica, con uno sguardo originale, puntuale e attentamente critico. Vincitore di numerosi premi per la sua attività letteraria, ha ricevuto nel 2005 il “Sigismondo d’Oro”, il riconoscimento che la città di Rimini conferisce ai suoi cittadini illustri.
Limitandoci alla narrativa, ricordiamo i suoi romanzi, in ordine cronologico: L’avvocata delle vertigini (Adelphi, 1994, Premio Bagutta opera prima), L’antidoto della malinconia (Adelphi, 1996, Premio Selezione Campiello), Lune (Adelphi, 1999), La falce dell’ultimo quarto (Mondadori, 2004, finalista al Premio Viareggio), Italia. Una storia d’amore (Mondadori, 2012).

Meldini, qual è il rapporto di Rimini con la scrittura?

«Si tratta di un rapporto poco indagato. Nel Novecento abbiamo una serie di scrittori abbastanza modesti che vanno dagli anni Venti ai Cinquanta, tra cui si può menzionare Luigi Pasquini più noto come pittore e come giornalista, ma anche autore di due romanzi vagamente autobiografici. Siamo nell’ambito della letteratura romagnola che guarda a figure come Alfredo Panzini e Marino Moretti, in cui Rimini rappresenta un’esperienza minore rispetto a personaggi come, ad esempio, Antonio Baldini. Tra le romagnole, le voci riminesi sono quelle meno interessanti.
Alla fine degli anni Trenta è stato pubblicato il romanzo di Maria Massani Dall’arco al ponte. Si tratta di un romanzo “per signorine” ambientato nel periodo napoleonico, di cui recentemente ho curato una riedizione. È un libro interessante, che non ha gli stereotipi del cosiddetto romanzo “rosa”, ma rimane un unicum.
Nel secondo dopoguerra ci sono esperienze di autori non riminesi che scrivono di Rimini. Tra questi c’è Pier Vittorio Tondelli con Rimini, uno dei più brutti tra i suoi romanzi, se si confronta, ad esempio, con Altri libertini. Tondelli è un caso esemplare: scrive di Rimini sulla base degli stereotipi, senza esserci mai stato. Il libro non andò male, ma si tratta di un romanzo sconclusionato.
Poi ci sono cose molto diverse, come Romanza di Sergio Zavoli, totalmente autobiografico, o il curioso Animanera di Daniele Brolli, un bel romanzo pulp che rovescia gli stereotipi e in cui si racconta una Rimini invernale con mostri e serial killer.
Michele Marziani tra i suoi romanzi ha ambientato a Rimini solo Barafonda che è riminese per modo di dire, non si interroga sulla città, poteva essere ambientato ovunque. Anche Marco Missiroli ha ambientato a Rimini un solo romanzo, Il senso dell’elefante, non tra i suoi migliori.
Questo a dimostrare la difficoltà a scrivere di Rimini, a meno che non si vada nell’autobiografismo».

Anche lei nei suoi romanzi non fa esplicito riferimento a Rimini.

«I miei romanzi sono ambientati a Rimini, in periodi diversi, nel Seicento, nell’epoca della Restaurazione, ai giorni nostri. Sono riconoscibili la toponomastica, le atmosfere, ma non ho mai fatto esplicitamente il nome di Rimini perché è impossibile parlare della città senza incorrere in due stereotipi. Il primo è quello del divertimentificio, dello sballo, della vacanza balneare, il secondo è quello di Fellini, di Amarcord.
In romanzi come i miei non si ha a che fare né con l’uno né con l’altro. E allora il trucco per farli funzionare è non dire che si tratta di Rimini».

Rimini fa male ai romanzi?

«Manca tuttora un romanzo che abbia descritto Rimini veramente com’è e credo sia molto difficile farlo, succede anche ad altre città. Forse con il cinema è più facile. Penso ad esempio a La grande bellezza di Paolo Sorrentino, il cinema riesce a dare questi quadri generali.
Tornando alla letteratura, Rimini è una realtà contraddittoria, in continuo movimento, e descrivendola si rischia di fare una foto mossa. Va poi considerato che Rimini vive sull’immagine e avere un’immagine forte funziona bene come attrattiva turistica, meno per la narrativa. Rimini è un marchio pubblicitario, come la Coca Cola, è uno stereotipo. La città reale è diversa, è complicata, è metropoli e paese, è cento cose differenti, è città della linea e del cerchio, con sistemi di valori diversi. Si fatica a dare un’immagine. Ci vorrebbe un “romanzo mondo” con tanti personaggi, ma non so a chi possa interessare. E poi oggi non c’è molto interesse per le metropoli, per la città. La gran parte della letteratura americana, ad esempio, descrive la provincia».

Anche in Italia c’è molta attenzione per luoghi non metropolitani. Penso al successo di Cognetti…

«Paolo Cognetti e Mauro Corona rappresentano il massimo dello stereotipo, del politicamente corretto, del sano giusto buono, dell’ideologia “slow food”. Tra i due c’è una bella distanza, uno si colloca a destra e uno a sinistra, ma entrambi propugnano questo stereotipo secondo cui il mondo buono sta fuori del consorzio umano. È una posizione che non condivido. Il mondo buono deve essere nel consorzio umano, fuori è troppo facile, sono capaci tutti.
E poi questa idea della solitudine rousseauiana mi irrita profondamente. Mi metto lì, nella mia casina… O ti contrapponi con forza a questa società oppure non ha senso. La scelta di andare in un posto isolato mi infastidisce. È una scelta snobistica, se tutti ci rifugiassimo nella nostra casetta il mondo non andrebbe avanti. E i libri neanche esisterebbero. Per realizzare un libro ci deve essere qualcuno che fabbrica la carta, che lo impagina, che lo pubblica. Quindi una struttura sociale indispensabile per produrlo e venderlo. Troppo facile la scelta di isolarsi.
Altra cosa la solitudine necessaria alla scrittura. In questo caso parliamo di solitudine popolata che cattura il mondo, quando ci riesce».

Il suo ultimo romanzo risale a qualche anno fa. Ha qualcosa di nuovo in preparazione?

«Sto scrivendo, ho qualcosa in progetto ma senza grande entusiasmo né fretta. L’attenzione ai libri va scemando e oggi, per quanto riguarda la letteratura, o ti infili in una serie di strade che sono quelle già battute o fai fatica ad avere la necessaria attenzione. Le statistiche dicono che i lettori sono sempre meno. Un libro è una grande fatica, nel mio caso che dura anche anni, per poi avere un modesto riscontro: non vale la pena. Non avendo il “sacro” zelo, scrivo solo se mi va. Ho qualche idea, scrivo, correggo ma, ripeto, senza particolare entusiasmo».

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE