RIMINI E FABRIZIO DE ANDRÉ

IL COLOPHON
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3 min readAug 3, 2018

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Il disco scritto a quattro mani con Massimo Bubola raccontato da un genovese. Di Giacomo Revelli

Fabrizio De André pubblicò Rimini, il suo nono album, il 1 luglio 1978. Sono quarant’anni esatti, ma non è che un caso: prima di cominciare questo articolo non ricordavo la data esatta di uscita. Sarà che per me, per un genovese, Rimini non è la cittadina della riviera romagnola con le spiagge e i vitelloni; è piuttosto il disco di Andrea, Coda di lupo, Sally o della London Valour, canzoni che hanno fatto storia. Fuori Genova, la critica, quelli che se ne intendono (e, forse, anche lo stesso De André), lo ritengono un album di passaggio; ma per chi vive nelle vie di Faber, Rimini è vicina, a due passi, quasi una delle molte delegazioni, come Sampiedarena o Cornigliano, visto che anche quei luoghi, prima di essere divorati dal porto e dall’Ilva, possedevano straordinari litorali rinomati in tutta Europa.
De André arriva a Rimini da Vol. 8, un album lirico, intimista, realizzato in collaborazione con Francesco De Gregori e dopo la svolta dei concerti, in cui il timido Fabrizio si trasforma e intuisce la forza che il rock può dare ai suoi testi. Non a caso le canzoni di Rimini sono scritte con Massimo Bubola, un autore abituato al mondo nuovo e dirompente della chitarra elettrica, capace di rappresentare al meglio, in quegli anni, i sogni e le aspettative dei giovani.
Perchè l’album si chiami proprio Rimini non ci è dato saperlo fino in fondo, ma certo è che la Rimini che cercano Bubola e De André, non è tanto quella felliniana, quanto il luogo simbolo, la terra promessa delle vacanze, la Rimini “di gelati e di bandiere”. Lì andava nel ’78 la piccola borghesia, per godersi le ultime gocce di benessere consentite dallo sboom di fine ’70 e ripetere uno dei cliché della classe dominante: la villeggiatura. Di questa classe di droghieri, commercianti e impiegati, De André canta una crisi di cui, oggi, quarant’anni dopo, possiamo constatare, volenti o nolenti, la sistematizzazione. Sono solo cambiati i modelli, i cliché dell’ostentato benessere, nonché valori e pregiudizi: chi non ripete a bacchetta i modelli della TV e dei social alla ricerca disperata del proprio narcisismo? Nella foto di copertina Guido Harari, ritrae ragazzi, bagnanti, palme; la stessa scena che potremmo vedere oggi, magari con qualche smarthphone in più.
Di questo non sapremo mai se rallegrarci o rammaricarci: è meglio ora o allora? Rimini fa lo stesso effetto: testi poco lirici, narrativi e melodie bellissime, canzoni che lasciano un po’ storditi e che alla fine non si capisce se ridere o piangere tanto sono belle. Temi cari a De André che ci racconta di prostitute, di tossicodipendenti, emarginati, ma anche di ragazze madri, di aborto e omosessualità, di personaggi investiti dalla guerra e dai pregiudizi, e non si capisce che cosa sia peggio.
Così Teresa, la figlia del droghiere naviga con la fantasia come Cristoforo Colombo, ma poi si scontra con la dura realtà dell’aborto del figlio del bagnino; Sally si distacca dall’autorità dei suoi genitori, ma cade vittima di una realtà parallela, quella della droga. E Andrea che salta da una trincea sociale, quella dell’amore omosessuale, a quella sui “monti di Trento”, dove incrocia la mitraglia.
In Coda di lupo, invece, il fallimento è più generazionale che personale: quello di chi ha creduto nella fantasia e nelle idee del ’68 che dieci anni dopo si trova a contestare il sindacato e a non saper più a quale dio votarsi.
Rimini introduce altri due lati fondamentali della musica di Fabrizio De André. Uno ci è già noto, il suo amore per il folk e la tradizione: Volta la carta è una divertente allegoria popolare, mentre Avventura a Durango è un omaggio ad un re del genere, Bob Dylan. L’altro lato interessante, a suo modo dirompente e legato con un filo sottile al precedente, è quello di Zirichiltaggia: una canzone completamente in dialetto. In questo caso è il gallurese, ma nel 1984 arriverà un album al completo in genovese, Crêuza de mä.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE