SCARPE, TACCUINO E UNA PEZZOLA ROSA: C’È L’ALTROVE CHE TI ATTENDE

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Intervista a Simona Baldanzi e Paolo Ciampi di Emiliano Gucci

L’ultimo viaggio in parole di Simona Baldanzi(Maldifiume, Ediciclo 2016) va dal monte Falterona al mare di Pisa, “lento, a passo d’acqua, nel tempo che ci metteva un tronco” con l’Arno in piena, poiché ha seguito proprio lo scorrere di questo fiume tra i suoi paesi e le sue case, le sue genti, i suoi pieni e i suoi vuoti; quello di Paolo Ciampi (Il sogno delle mappe, Ediciclo, 2018) inizia assieme ai suoi librai di fiducia, “in una di quelle librerie dove si comincia a partire e che mi piace immaginare come moli protesi sul mare”, e si dilunga tra mappe di ogni tipo per un itinerario che può portarci ovunque, magari rimanendo fermi. Prima hanno camminato nella Toscana più o meno nota e oltre, in Italia e nel mondo, scoprendo e illuminando luoghi, rimanendone illuminati; viaggiare fa parte della loro vita e scrivere pure, poi forse scopriremo con quali priorità. Fatto sta che le loro opere, spesso, portano dentro il germe del viandante, la fascinosa cometa che spinge alla partenza. Li incontro sulle parole di Giorgio Manganelli che lanciano questo numero de Il Colophon, “Ogni viaggio è il più bel viaggio del mondo. Non fanno il viaggio né la lunghezza né la durata, né le così dette meraviglie, i capolavori che ci può permettere di vedere. Il viaggio è fatto in primo luogo di sé stesso”.

E intanto gli chiedo se sono d’accordo e che cosa aggiungerebbero in merito, giusto per scaldare… le gambe.

Simona Baldanzi: Sì, è fatto di sé stesso, ma per me non nel senso che ti metti al centro, che solo tu sei il viaggio. Parti da quello che sei, corpo e vita che ti porti addosso e cominci a sentire passi e impronte su di te. Il viaggio è quello che ti fa perdere dei margini, toglie il confine del sé, ti fa quasi sparire tanto ti apre con tutto il resto.

Paolo Ciampi: È proprio così, Manganelli coglie l’essenza del viaggio quale è e quale deve essere. Il viaggio non accetta di essere valutato e classificato con le unità di misura del tempo e dello spazio, non vale tanto più dura e nemmeno tanto più ci porta lontani. O meglio, la lontananza cui si riferisce non è fisica, casomai ha a che vedere con movimenti interiori: e non è detto che ci spingano più distanti, casomai ci consegnano più vicino a noi stessi. Ci sono viaggi importanti giusto sotto casa, che magari durano un fine settimana. E altri, che ci portano in diversi continenti e che in realtà non ci spostano di una virgola. In realtà il viaggio ha più a che vedere con la nostra capacità di guardare. Marcel Proust diceva qualcosa del genere, a proposito di viaggi di scoperta che non hanno bisogno di nuove terre, ma di nuovi occhi.

Simona, dal tuo Mugello “trapunta di terra” tra Barbiana a Montesole, ma anche “sottosopra” nell’indagare i cantieri delle grandi opere (per non dire della splendida umanità raccontata nel tuo esordio Figlia di una vestaglia blu), hai scelto l’Arno per il tuo nuovo cammino di conoscenza, scoperta e riscoperta. Eppure questa avventura nasce, in qualche modo, in Uruguay; ci racconti come, e perché?

Simona: In Uruguay ho incontrato il fiume Rio Negro a Paso de Los Toros, dove ero andata sulle tracce di Mario Benedetti, scrittore e poeta che amo molto. Arrivai su quelle rive e scoprii che tutto il paese stava lì a trovare refrigerio dai 40 gradi e a vivere un’idea di comunità che da noi mi pareva scomparsa. Mi sono immersa in quel verde e in quello stare insieme che mi ha dissetato. È stato una sorta di battezzo laico che mi ha aperto voragini di domande sui nostri fiumi, su come li viviamo, su cosa sono diventati. Dovevo andare lungo l’Arno.

Hai detto che “Il fiume non è un sentiero, si assottiglia e si ingrossa e non lo puoi prevedere fino in fondo”. E hai detto pure che “Ogni inizio è difficile e faticoso. Ogni volta me ne stupisco, di quella sensazione di inadeguatezza e del mettersi alla prova”. Ti chiedo di quell’imprevedibilità e di questa inadeguatezza come temi di viaggio.

Simona: Camminare lungo un fiume dove non sempre c’è un sentiero, dove l’acqua può impedirti di passare mi ha insegnato l’approccio all’imprevedibilità: il pensare a una soluzione, il cambiare direzione, l’adeguarsi. L’imprevisto ci turba sempre un po’, ci appesantisce, ci costringe a una fatica, ci rallenta. Non puoi sapere cosa ti capita, ma puoi sapere quale atteggiamento scegliere per affrontarlo. Ti stupisci di scoprirti divertita anche da una difficoltà. Allora questa sensazione che trovi nel cammino ti rimane, che so, anche quando in città cerchi un parcheggio. Poi, ecco, non è che hai i superpoteri in tasca perché cammini. L’inadeguatezza sta sempre lì, soprattutto per me che non sono allenata, che riesco con molta difficoltà a ritagliarmi il tempo dell’andare a muovere passi. Ogni inizio è una fatica immensa, ma non solo fisica. Ti destruttura. Devi essere pronto a farti modellare, a farti pesticciare, a scalfire pregiudizi, a farti abitare da un bosco, una foglia, un alito di vento. Sono una molto coi piedi per terra e concreta eh, sono poco avvezza alla spiritualità. Il cammino ridimensiona anche il mio materialismo o forse gli da un senso.

I tuoi viaggi appaiono, in molti frangenti, un pretesto per incontrare nuove persone, ma forse anche contesti sociali. Ti chiedo una riflessione sulla solitudine in viaggio, quella di chi cammina/si sposta da solo ma anche quella dei pensieri, del sentimento, della condizione di solitudine che a volte ci trasciniamo dentro sebbene in compagnia. E, di conseguenza, dell’approccio e dell’importanza del prossimo incrociato sulla via.

Simona: È la solitudine di cui hai bisogno, non quella da cui fuggi o che ti schiaccia. È una solitudine vigorosa, per me di tradizione operaia, la definirei col vestito buono della domenica. Cammino per vestirla bene e farmi aiutare dagli altri. Sono affamata di sapere come gli altri vestono la loro solitudine. Credo che ascoltare le loro storie sia mostrarci e scambiarci i vestiti degli armadi.

E Paolo Campi cosa pensa in merito?

Paolo: C’è chi sostiene che ci sono due tipi di viaggiatori, colui che parte da solo per incontrare gli altri e colui che parte in compagnia di persone con le quali potrà sperimentare e auspicabilmente rafforzare i legami, rinunciando a qualche incontro per la strada. Credo di appartenere alla seconda categoria, ma del viaggio lento, soprattutto a piedi, apprezzo la possibilità di ritagliare spazi importanti per me stesso e con me stesso. In genere, soprattutto in salita, mi stacco dagli altri. E questo certo ha a che vedere con i miei limiti fisici, però mi piace rimanere in fondo, sicuro che ci sarà chi mi aspetta al bivio successivo. Sarei più solo senza la mia solitudine, diceva Emily Dickinson e sottoscrivo. E nel cammino in cui l’ultimo viene atteso c’è la mia idea di come dovrebbe funzionare il mondo.

Paolo, tu hai scritto del tuo camminare sulla Via degli Dei da Bologna a Firenze, ma anche sul Vallo di Adriano per un’Inghilterra da costa a costa; così come del pedalare tra i fiori d’Olanda o sotto i cieli di Rugen, nel Baltico. Orizzonti e modalità diverse, ti chiedo per cui cos’è che unisce ogni viaggio, cosa accomuna ogni partenza e cosa invece le divide tutte, anche quelle che sembrerebbero condurre nello stesso luogo.

Paolo: Dato che sono persona che abusa delle citazioni — e non mi dispiace: come Borges, in fondo credo a una Biblioteca di Babele in cui tutto è già stato scritto, certamente meglio di quanto saprei io — ti rispondo per l’appunto con una delle più belle riflessioni sul viaggio. È di Josè Saramago e conclude il suo Viaggio in Portogallo:

«Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto…».

Il viaggio ricomincia sempre, aggiunge Saramago, il viaggiatore ritorna subito. Se mi guardo indietro avverto che c’è verità in queste parole, una verità che appartiene alla mia vita. Si tratti delle dune del Baltico o delle pietre romane del Vallo di Adriano sento che tutto questo appartiene a un unico viaggio che è la mia vita. A volte perfino mi confondo, tra un paese e l’altro, un anno e l’altro: non ha più importanza. Quello che conta è sapere che non mi sono fermato, che c’è ancora mondo per la mia vita.

“Però in queste mappe cerco altro” hai scritto nella tua ultima opera, chiosando in merito alla discussione su quali siano le migliori, le più precise, nel ricondurre la realtà in un disegno; “Sembra quasi un paradosso, con tutto il lavoro che ci sta dietro (…), eppure ecco cosa mi viene da cercare per prima cosa: i sogni che sono i primi biglietti da staccare per la partenza”. Questa frase già racconta molto del tuo approccio al viaggio/sogno…

Paolo: Da bambino, mi rammento, la cosa cui più tenevo era il mappamondo. Aveva la luce interna ed era bella tenerlo acceso di sera, nel buio della stanza. Consumavo i polpastrelli a forza di girarlo e di puntare le dita sugli oceani e i continenti. In realtà era molto di più di un mappamondo, era un tappeto volante per andare via, un generatore di possibilità di altrove. Da allora sono cresciuto nella convinzione che non c’è viaggio che non sia preceduto e preparato dalla mia capacità di sognare. E dopo, l’esperienza del viaggio è in realtà un continuo confronto tra il paese immaginario e il paese reale — e in effetti vai a capire dove finisca l’immaginario e dove comincia il reale. A breve uscirà un altro mio libro dedicato a un viaggio in bicicletta e in canoa sui Laghi Masuri, estremo lembo di Polonia, al confine con le Repubbliche Baltiche, un tempo Prussia. Ci ho messo 20 anni per arrivarci, dal momento in cui l’occhio mi è cascato su una cartina e su un articolo di giornale che parlava di un paese fuori dal mondo, dove la gente abitava casette di legno e si spostava in carri tirati da cavalli. In fondo è l’idea dell’altrove con cui si parte a dare un senso all’intero viaggio.

Già lo accennavi, il tuo testo è ricco di citazioni ad ampio raggio, da Dante a Paolo Rumiz, da Karl Popper al monaco camaldolese Fra Mauro, autore di “uno straordinario planisfero che non è meno capolavoro di tanti capolavori dell’arte”; quella della cartografia appare come un’esperienza a se stante che merita di essere vissuta a prescindere dal viaggio che può esserne accompagnato. Dall’Atlante delle isole remote di Judith Schalansky peschi questa affermazione: “La cartografia dovrebbe essere annoverata tra i generi poetici e l’atlante tra la bella letteratura”. Cosa puoi aggiungere?

Paolo: Che è vero, le mappe non sono solo il risultato del duro lavoro di specialisti delle misurazioni e delle rappresentazioni, lavoro che peraltro mi sembra che di per se stesso abbia a che vedere con la bellezza, così come la chimica di cui ci parla Primo Levi. Da sempre con le mappe l’uomo ha raccontato la sua visione del mondo, a volte rovesciando visioni precedenti — anche il nord, per dire, non è sempre stato dove oggi è scontato che sia collocato. Nella scelta e nella cura dei dettagli, nel loro modo di evidenziarli e comporli io vedo una forma di arte. A volte scorro le dita sulla superficie di una carta pronunciando i nomi delle città, dei monti, dei fiumi: ed è come una musica, la musica dell’altrove.

Simona, qual è invece il tuo rapporto con le mappe?

Simona: Fin da piccola mi hanno sempre fatto impressione per come cambiassero, come diventassero più precise man mano si viaggiasse e si conoscesse di più il mondo. Terre che si credeva non ci fossero, poi c’erano. Se le disegni, se le tracci, esistono, proprio come le storie. Le mappe sono continui racconti corale della scoperta, della conoscenza, dei cambiamenti e lo si può fare su vari piani, fisico, politico, tematico, sentieristico, scegliendo vari colori e decori, diventando arte e musica come dice Paolo.

Che cosa significa per voi scrivere sul viaggio? Intendo proprio andare a pescare nelle esperienze e nei concetti di cui abbiamo parlato finora, per restituirli in parole: cosa cercate, come lo fate? Che differenza c’è rispetto a scrivere di “finzione”, o d’altro?

Paolo: Amo leggere narrativa, ma poi per quanto mi riguarda mi piace raccontare la vita filtrata dall’esperienza, tanto so che la realtà può essere più generosa di storie e di possibilità di sorpresa della mia fantasia. I viaggi cominciano prima di partire — per esempio con una buona lettura — e proseguono una volta tornati. Il ritorno, anzi è ciò che fa il viaggio, altrimenti si sta parlando di un’altra cosa, che a volte è una scelta di vita a volte una tragedia. Nel ritorno il viaggio continua con il ricordo e anche con la parola. Ovvero con il momento della condivisione. Mi piace pensare che i miei libri abbiano la stessa intenzione e lo stesso spirito di una serata passata al pub con gli amici di sempre, che ritrovi dopo un certo tempo e che vuoi aggiornare con tutto quello che hai fatto.
Simona — Non credo di scrivere sul viaggio come esperienza intima, ma più come politica e conoscenza dell’umanità e delle loro forme. Ho una formazione sociologica, di ricerca sul campo, di osservazione partecipante, di interviste. Uso muovere passi, come uso aprire libri e studiare o leggermi romanzi. Mescolo questa metodologia al silenzio dei boschi ed è sorprendente ciò che ti arriva in chiarezza e distensione di pensiero. Dello scrivere della realtà più di tutto mi piace l’ascolto. Ci vuole compassione, ascolto e nessuna fretta. Nel camminare ce le ritrovi tutte e ti allena.

E adesso perdonatemi se cedo al gioco facile delle domande rapide, facili e retoriche, del resto io amo la retorica (e gli aggettivi)… E rispondetemi pure con una singola parola, una frase al massimo. Qual è il miglior compagno di viaggio? Escluderei “il libro” e “lo zaino”…

Paolo: Anch’io non scherzo con la retorica… Mi hai bloccato sulla risposta libro e allora rimango sul banale dicendo taccuino. Non tablet, ma taccuino. Per collezionare parole, scritte di pugno.

Simona: Il taccuino lo dice già Paolo, io direi buone scarpe comode e resistenti.

Quale l’errore da non commettere mai viaggiando?

Simona: Scordarsi l’acqua.

Paolo: Non sforzarsi almeno una volta a fare tuo lo sguardo degli altri.

Qual è il viaggio più facile da raccontare?

Simona: Quello in cui non sei solo e gli altri ti rammentano e ti aiutano a raccontarlo.

Paolo: Quello in cui hai collezionato storie, ovvero hai fatto provvisto di umanità.

E il più difficile?

Paolo: Per la stessa ragione, quello in cui ti sei rinchiuso in te stesso, alla fine ritrovandoti uguale a te stesso, come eri partito.

Simona: Quello che fai tutti i giorni magari per andare a lavoro che sembra sempre tutto uguale. Ma se ti sforzi scopri che non lo è.

Quale il miglior viaggio che hai fatto, in assoluto? Dovessi sceglierne uno solamente.

Simona: Non dico il migliore, ma dico quello di rottura. Avevo undici anni e i miei mi lasciarono partire sulla nave per la Sardegna con dei parenti per la vacanza estiva che avevamo sognato da tanto. I miei mi raggiunsero solo una settimana dopo perché mio fratello si era ammalato. Sentii che i viaggi potevano essere distanza, separazione, avventura, indipendenza. Insomma, qualcosa di terribile e bello insieme.

Paolo: Mannaggia, ho la mia classifica alla Nick Hornby, con i best five che non stanno fermi un attimo. Ma ti dirò: a dodici anni, mio padre che mi portò in Scozia. Era l’altrove che mi attendeva, per dirla con Tabucchi.

Qual è il miglior viaggio che hai letto? Uno solo. Sul libro/racconto di un altro, intendo.

Paolo: Idem come sopra per la classifica. Ci provo con Ebano di Ryszard Kapuscinski. Dentro non c’è solo l’Africa ma un modo di abbracciare il mondo.

Simona: La frontiera di Alessandro Leogrande, sui viaggi difficili, sui naufragi dei migranti, sull’idea di confine e frontiera che si sposta sempre a nostro piacimento.

C’è una cosa che viaggiando porti sempre con te?

Paolo: Il taccuino l’ho già detto, allora provo a non scordarmi mai a casa quella che è la prima dote del viaggiatore: la curiosità.

Simona: Una pezzola rosa che avevo quando ero neonata.

Simona, cosa ne pensi dei viaggi di Paolo? E tu, Paolo, di quelli di Simona?

Simona: A Paolo non gli si sta dietro! Quanti viaggi fa, quanta curiosità ha, dove trova il tempo? Prima di leggerlo e prima di conoscerlo ti aspetti una persona frenetica, iperattiva, poi invece ne scopri la pacatezza e la gentilezza, anche nella scrittura. È generoso e curioso e ha una gran capacità di setacciare le storie, di renderle fini come la farina per il pane. Sa scrivere per gli altri, si sente nelle storie che racconta, il piacere della condivisione.

Paolo: Simona per me è una scrittrice importante fin dai tempi di Figlia di una vestaglia blu: ancora non l’avevo conosciuta, ma quel libro l’ho consigliato a molti. Però non è solo questo. Mi viene di nuovo in mente Kapuscinski quando diceva che non esiste un bravo giornalista che non sia anche una brava persona. Vale anche per lo scrittore e non è buonismo. Nei viaggi di Simona c’è l’altro e ci sono gli incontri. C’è l’idea di una comunità che può essere ricostituita, ci sono legami e valori. Senza banalità. C’è un desiderio, uno sguardo che tiene insieme radici e un barlume di futuro, c’è tenacia. Di tutto questo abbiamo maledettamente bisogno.

E qua mandatemi pure a fare “un bel viaggio”: scrivere o viaggiare? Vietato “entrambi”.

Paolo: Visto che devo scegliere: viaggiare, viaggiare. La vita è più importante.

Simona: Non è per scansare la risposta, ma direi leggere, che è il modo più economico e sorprendente di viaggiare.

Simona Baldanzi è scrittrice e sindacalista su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Nata a Firenze, vive in Mugello. I suoi ultimi libri sono Maldifiume. Acqua, passi e gente d’Arno (Ediciclo) e Il Mugello è una trapunta di terra (Laterza). Ha esordito con il romanzo Figlia di una vestaglia blu (Fazi). Insiste a muovere passi e a curiosare nei luoghi che la circondano.

Il suo sito è www.simonabaldanzi.it

Paolo Ciampi, giornalista e scrittore fiorentino, si divide tra la passione per i viaggi e la curiosità per i personaggi dimenticati nelle pieghe della storia. Ha all’attivo oltre venti libri, gli ultimi sono L’uomo che ci regalò i numeri (Mursia), che racconta i viaggi e le scoperte del matematico Leonardo Fibonacci, L’aria ride (Aska) sui i cammini di Dino Campana, e Il sogno delle mappe (Ediciclo). Con Tito Barbini ha firmato per Clichy I sogni vogliono migrare, mentre a breve pubblicherà un libro sulla Polonia per Fusta Editore.

Il suo blog è www.ilibrisonoviaggi.blogspot.it

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE