SCUSI, LA STRADA PER BRERA?

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Gianni Brera ripensato, di Angelo Ricci

Fu proprio Gianni Brera che, osservandone la conformazione geografica, definì la provincia di Pavia come la “provincia a grappolo d’uva”.
Certamente tale definizione era mutuata soprattutto dal fatto che in Oltrepò, che ne rappresenta il grappolo, ci sono le migliori cultivar di vite, le stesse che trovi in California nei vigneti di Tim Mondavi e che, anzi, è proprio dall’Oltrepò che sono partite per poi arrivare fin là.
Ma ogni grappolo d’uva che si rispetti ha anche le sue brave foglie. La più grande, quella che sta a Occidente, è la Lomellina che col vino non c’entra nulla ma che è ricca di risaie e, si sa, il riso nasce nell’acqua per morire nel vino. La foglia che sta a Oriente subito dopo la città di Pavia, la “bassa pavese”, invece è più piccola, quasi si confonde nel disegno con una vasta ibridazione geografica che, non rimarcata e definita da precisi confini fluviali o appenninici, si perde verso quel “hic sunt leones” che, per ogni buon pavese, è il territorio di Milano.
Ed è proprio in quella “bassa pavese” che Gianni Brera nacque il 9 Settembre del 1919 a San Zenone al Po, in quella bassa che, come tutte le pianure è, in modo moderatamente allegro e spensierato, un po’ meretrice perché si apre senza far tante storie a tutti quelli che la attraversano.
Anche la Lomellina è una pianura, ma lì devi fare i conti con i confini fluviali che non sono poi così facili da oltrepassare, con il Sesia a Ovest (o “la” Sesia come preferiscono dire i confinanti vercellesi), il Po a Sud, il Ticino a Est e la linea delle acque sorgive che a Nord la separa dall’amata/odiata Novara, città che ha eretto il monumento alla mondina e nelle cui campagne si è girato Riso amaro e che si è impossessata nell’immaginario collettivo della nomea di terra d’acque e di riso al posto della Lomellina che, imbambolata come una mondariso ciucca per il troppo sole preso in risaia, se ne è stata a guardare senza far nulla (e son sicuro che Sebastiano Vassalli se la ride sotto i famosi baffi).
L’Oltrepò pavese invece (e Gianni Brera non si stancò mai di dire che si scrive con la o accentata, non come invece fa La Provincia Pavese, provincialissima gazzetta di queste terre, dove spesso si legge Oltrepo o Oltrepo’) se ne finisce a imbuto verso Bobbio (che Mussolini, quando era il Duce d’Italia, scippò con Regio Decreto alla provincia di Pavia per concederlo a quella di Piacenza e, siam tutti sempre d’accordo, piacentini, ladri e assassini) incardinato senza via di fuga dagli Appennini che costeggiano la strada per Varzi e per il Penice e che lasciano semmai solo sentire un po’ di aroma mandrogno a Ovest e emiliano a Est.
Ma restiamo ancora un po’ (c’è l’apostrofo e quindi non è il fiume) qui a ciurlare nel manico con questa storia che i lomellini fanno prima ad arrivare in Piemonte, a Casale Monferrato o a Valenza Po (qui non c’è l’accento perché in questo caso si tratta del fiume), piuttosto che a Vigevano (che d’altra parte da sempre è convinta di essere Milano anche se Milano di Vigevano non ne vuole sapere) o a Pavia (che fino a ieri mattina si era dimenticata di essere stata la capitale dei Longobardi) o che se vai in Oltrepò (ancora con l’accento) e pronunci il nome di Voghera nella piazza principale di Broni o di Stradella non è che poi ti guardino così tanto amichevolmente e ci restiamo però giusto il tempo per dire che Gianni Brera lascia la bassa pavese e se ne va a Milano alla Gazzetta dello Sport e inventa un un nuovo linguaggio, un nuovo idioma da applicarsi alla cronaca sportivissima, quasi un gramelot alla Dario Fo, per mezzo del quale la rappresentazione delle partite di football diventa epica come epici diventano anche i calciatori, gli allenatori, i presidenti cumenda e tutte le concernenti terne arbitrali assortite (e con i relativi soprannomi da lui repentinamente affibbiati ed entrati ormai nel mito e nell’immaginario collettivo della seconda metà del Novecento).
Esattamente come il Carlo Emilio Gadda che per scrivere della borghesia meneghina partorisce una parlata novella che del padano mantiene sì gli echi, anzi li rimarca alquanto, ma ne diviene codice cifrato, crittografia open source affinché l’universo mondo che legge capisca che siamo in Lombardia, anzi nelle Lombardie.
Perché la Lombardia non è mai esistita se non come territorio medioevale che va dalle Alpi occidentali alla laguna veneziana, tanto per farlo capire e indicarlo rapidamente senza star troppo a perder tempo ai mercanti frettolosi che, ai tempi del Sacro Romano Impero Germanico, vanno di fiera in fiera a vender le loro mercanzie. È come la definizione di Franchi che i cronisti arabi del medioevo utilizzavano per rappresentare chiunque provenisse dall’Europa.
E Gianni Brera marchia con il suo nuovo idioma l’intero universo del football italiano, un universo totalizzante, estremo, passionale e anche feroce, così che possa essere traslato in ciò che vorrebbe ma non riesce ad essere: una millenaria guerra omerica dai toni biblici che tuttavia andrebbe anche un po’ (con l’apostrofo) presa per i ciapp.
Lo stesso fece Luigi Veronelli (altro Gran Lombardo di questa Lombardia che non esiste ma che tuttavia è un potente e ineludibile sentire dell’anima) che inventa stigmi e stilemi, poetiche e narrazioni che diventano esse stesse ciò che racconta nobilitandolo al contempo.
Gianni Brera e Luigi Veronelli come personaggi del manganelliano Discorso dell’ombra e dello stemma, come creatori di un linguaggio che fa nascere le cose che descrive, cose che prima che questo linguaggio le raccontasse non esistevano.
“Quello che sto per dirti te lo dice uno che non solo ha fatto l’università a Pavia ma che l’ha anche finita”, pacatamente Gianni Brera si rivolgeva così a un giornalista sportivo eccessivamente preso dalla foga alle ore 23 di un febbraio degli anni Settanta durante La Domenica Sportiva. Brera si guarda indietro, non disconosce, anzi non vuole per nulla disconoscere, la terra che gli ha dato i natali, ma ormai il suo sguardo è orientato verso quella Lombardia nuova, che esiste per mezzo della parola scritta e di cui è nello stesso istante scopritore e artefice.
Oltre alle migliaia di articoli giornalistici, di Gianni Brera un libro fondamentale è la Storia critica del calcio italiano, edito da Bompiani nel 1975 e uscito in quegli anni di estrema e oltraggiosa crisi della Nazionale eliminata dai Mondiali germanici del 1974 dalla nazionale di Haiti e affidata, dopo la defenestrazione del fedifrago Valcareggi (in quel momento più odiato dell’Edmondino Fabbri sconfitto dalla Corea del Sud nel Mondiale britannico del 1966), alle momentanee cure dell’impopolarissimo Fulvio Bernardini in attesa del salvatore della patria Enzo Bearzot, ma è fondamentale anche La pacciada. Mangiarebere in Pianura Padana, edito nel 1973 e scritto a quattro mani con, ça va sans dire, Luigi Veronelli.
Il sogno di una terra che non esiste, di un’isola che non c’è prende così definitivamente forma. Come il resoconto che ne farebbe il Borges di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, questo continente ha le sue mappe, le sue cartografie, le sue storie ufficiali e ufficiose, i suoi trattati internazionali, le sue città, i suoi templi, i suoi eserciti, le sue flotte, le sue passioni, i suoi cibi, i suoi mercanti e i suoi poeti. E come in Borges anche questa terra, questo continente principierebbe proprio a esistere nel momento stesso in cui i suoi artefici dal nulla iniziano a descriverlo in tutti i suoi minimi particolari.
Ogni grande maestro ha avuto discepoli e imitatori. Tanto per rimanere nel campo della parola scritta a noi coeva, insomma, un pochetto si vede che l’Andrea Vitali rifà il verso al Piero Chiara o che il Paolo Nori lo rifà all’Ermanno Cavazzoni. Gianni Brera ebbe un solo discepolo che, nella scia del maestro, seppe fare propri in modo originale i suoi insegnamenti, la sua ironia, la sua serietà professionale, il suo esempio. Quando Beppe Viola morì a 43 anni nel 1982, sulle colonne di La Repubblica Gianni Brera lo commemorò cosi: “La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto per questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore…”
Gianni Brera morì il 19 dicembre del 1992 in un incidente automobilistico sulla strada che collega Codogno a Casalpusterlengo.
Sono certo che, proprio accanto a quel luogo, iniziava il confine della autentica Lombardia.
Quella che aveva creato lui.

P.S.

In provincia di Pavia già si parla delle celebrazioni per il centenario della sua nascita che cade nel 2019. Ma sono già sicuro che non si tratterà del Gianni Brera di cui ho appena terminato di scrivere.

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE