SPORTSWRITER di Richard Ford

IL COLOPHON
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[Feltrinelli]

“Mi chiamo Frank Bascombe. Faccio il giornalista sportivo. Da quattordici anni vivo qui, al 19 di Hoving Road, a Haddam, New Jersey, in una grande casa Tudor che ho comprato dopo aver venduto un libro di racconti a un produttore cinematografico. Mi aveva reso un mucchio di soldi, allora, e sembrava che la cosa avrebbe garantito una vita piacevole a me, a mia moglie e ai nostri tre bambini, due dei quali non erano ancora nati. Che cosa fosse esattamente quella vita piacevole che mi aspettavo, non saprei proprio. Comunque, non direi che non ci sia stata. È solo che sono successe tante cose da allora.”
Non sono capace di recensire i libri di Richard Ford. E forse non serve. L’esperienza sexy del consiglio ha qui un arcigno difensore. L’autore, ma anche i suoi libri. Tutto chiedono tranne la carezza.
Ho iniziato ad innamorarmi di questo scrittore leggendo proprio Sportswriter. Ho avuto fortuna. Richard Ford infatti è un autore di cui ci si può soltanto innamorare. Non lascia mai indifferente. Guardo con biasimo e dispiacere coloro che nel tempo ho iniziato a molestare proponendogli in lettura i suoi libri ricevendone giudizi tiepidi, balbettanti, addirittura silenzi. Ma comprendo. Comprendo tutto.
I riluttanti lettori di Richard Ford iniziano con il tempo però a non piacermi, ne ricevo e ricavo disamine sui loro caratteri come nemmeno i tarocchi o una bevuta al bar. Sbaglio, lo so.
Frank Bascombe non avrebbe da obiettare. Il mondo è faticoso. Anzi, il mondo non è un luogo perfetto, direbbe lui. Giornalista sportivo. Scrittore. Sceneggiatore. Lo si ritroverà altrove venditore di case. Pensionato. Padre dubbioso, uomo divorato da una noia attiva e da una spinta feroce all’incursione nell’anima. Non può convivere probabilmente in un solo essere umano tanta diversità, eppure il miracolo di Richard Ford è quello. Lo è in questo romanzo, lo è sempre.
Lui, Richard Ford, potrebbe diventare una religione, e per alcuni ci è riuscito. Leggere le sue parole, ascoltarne le divagazioni sul nulla. Sul nulla? Su tutto!
Non c’è frase in questo romanzo e su qualunque altro che io abbia letto dello stesso autore che non mi abbia fatto fermare a rileggerla. Non mi succede spesso. Tre o quattro sono gli autori di tanto capaci.
Frank Bascombe è diventato un mio amico. Richard Ford no. Non ne avrebbe voglia lui, nemmeno io probabilmente. Frank Bascombe invece sarebbe uno di quelli cui chiederei di andare a bere una birra, ogni tanto. Ricevendone spesso dei rifiuti impacciati. Ma chiedendomi come mai.
Tutta la narrativa di Richard Ford vira attorno ad un “come mai”. Siamo qui. Facciamo questo. Facciamo quell’altro. Amiamo. Fingiamo. La morte. Un sorriso.
La negligenza affettiva, anzi sociale, del protagonista di questo libro, è il motore lento su cui si siede chi si mette a leggerlo. Se dalle nostre mani passano sentimenti spigolosi e bollenti, nelle sue diventano diluite speculazioni filosofiche. Senza volerlo, ci mancherebbe.
Eppure Frank lo sa. Sa di portare la saggezza del mondo sulle sue spalle fragili.
Non è l’ex moglie. Non è il loro figlio morto. Non ci sono ragioni reali per cui una persona diventa saggia invece che un’altra. Probabilmente quella persona lo era stata sempre, osservando anche soltanto una partita di baseball oppure intervistando uno sportivo. O interloquendo con l’idraulico che deve sistemargli lo scarico del water.
Non c’è molto sport in questo romanzo, nonostante il titolo. Non c’è lo sport sudato. C’è una proposta dello sport vista appunto dagli uomini che lo osservano, che come braccia larghe lo interpretano in una generale sovrapposizione dell’esperienza umana. Frank Bascombe si compiace di alcuni gesti atletici. Non ne viene conquistato. Non si esalta. Rimane lì con il suo passo regolare a far la conta degli errori.
Ma non sbaglia nessuno.
Richard Ford non mette in bocca al suo personaggio nessuna strofa correttiva. Lo fa guardare. E trascrivere.
“Quello che vorrei riuscire a fare, mentre me ne sto qui sdraiato, prima che il giorno sbocci in una Pasqua radiosa, è mettere insieme due o tre idee su Herb, solo un paio di dettagli che servano da calamita per qualsiasi altra idea mi possa venire in mente nei prossimi giorni, che è il modo in cui lavora il buon giornalista sportivo. Non ci si mette lì a scrivere a freddo, fissando a occhi sbarrati un foglio bianco e aspettandosi che ti vengano in testa delle buone idee già pronte. Può essere un’esperienza orripilante. Invece, quel che bisogna fare è dare spazio ai propri istinti di casualità, stare a guardia abbassata, pronti a buttar giù un concetto, là una descrizione inattesa: il profumo dell’aria, quel giorno, o come il vento increspava la superficie del lago in quel modo particolare che in seguito rende una storia inevitabile. Una volta che queste note sono fissate, le si può mettere benissimo da parte, lasciando che si sviluppino per conto loro, in modo di averle a disposizione quando il tempo di consegna è scaduto e bisogna mettersi a scrivere.”
Che cosa è la nostra vita se non una uguale rassegna di eventi, il più delle volte noiosi? Il segmento che ci è concesso pensiamo di occuparlo con baldanza. Come se sgomitare prevedesse un premio, alla fine. Non c’è. Richard Ford lo sa. Lo sa Frank Bascombe. I suoi atleti, i protagonisti dei suoi articoli, sono nomi. Sudori. Numeri. Parcheggi di centri commerciali tutti uguali da cui poi si riaccende il motore e riparte. Abbandonati. Non c’è epica nella sua narrazione dei gesti sportivi. E nemmeno delle consuetudini umane.
Sportswriter è la disillusione di stare al mondo raccontando di sport. Ma alla vita non importa.

Alberto Schiavone

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE