UNA CITTÀ COME MILANO GENERA VIAGGIATORI

IL COLOPHON
IL COLOPHON
6 min readJul 7, 2015

--

Quindici domande allo scrittore Paolo Cognetti di Luca Martini

Caro Paolo, tu sei nato a Milano trentasette anni fa, ci sei cresciuto e conosci bene la città, i luoghi del cuore, i suoi posti magici. La tua scrittura è (o è stata) condizionata dall’esser nato a Milano?

Milano ha condizionato senz’altro i luoghi delle mie storie. Si svolgono spesso in una metropoli che le assomiglia, anche quando non è nominata. La città che Milano ti insegna a descrivere è dura, ostile, spietata di giorno e un po’ accogliente soltanto di notte, simile alle città dei noir più che a quelle dei film romantici. La mia lingua ne è stata condizionata al contrario: sono un figlio di immigrati veneti, cresciuto in mezzo a figli di immigrati pugliesi e siciliani e in misura minore a figli di milanesi. Ho sentito tanti di quei dialetti durante l’infanzia che non so bene quale sia la mia lingua madre, perciò ho cominciato a scrivere in un italiano neutro, senza accenti, che viene soprattutto dai libri. Una lingua sradicata, il che un po’ mi dispiace.

Quali sono i tuoi “posti delle fragole” della città? Dove torni più spesso?

Tolti quelli a cui piace il centro — ma io non so chi siano — gli amanti di Milano si dividono in due categorie: quelli di Milano Sud (il Ticinese, le case di ringhiera, i navigli, le periferie che sfumano nelle risaie e nei campi), e quelli di Milano Nord (le fabbriche, le ferrovie, i palazzoni, le montagne all’orizzonte). Io sono della seconda scuola, quassù l’aria è più pulita. Abito da una decina d’anni alla Bovisa e per affetto direi che il posto preferito è quello, mi ci sento a casa.

Anni fa curasti per minimum fax media la bellissima serie “Scrivere/New York”, nove puntate dedicate a scrittori newyorkesi. Se dovessi fare, oggi, “Scrivere/Milano”, chi intervisteresti?

Giorgio Fontana, Violetta Bellocchio, Marco Rossari. Sono i primi tre che mi vengono in mente, scrittori che Milano l’hanno camminata a lungo.

Quanto e in che modo hai visto cambiare Milano, in questi anni?

Domanda enorme! Ci vorrebbe un libro per rispondere. Posso dirti che sono stato ragazzo in anni belli, per certi versi, che erano gli anni Novanta, perché Milano era ancora ricca di luoghi preziosi per un ventenne in cerca della sua strada (o della sua città). Mi riferisco ai centri sociali, ad alcuni posti occupati e in generale a un’eredità politica e culturale che arrivava dagli anni Settanta, ed era ancora molto viva. Anche le fabbriche abbandonate erano numerose all’orizzonte. Poi tanti di quei luoghi sono stati chiusi da un quindicennio di dominio della destra, tante fabbriche sono state demolite e per anni Milano mi è sembrata una città sempre più insignificante, nonostante i cantieri. Faticavo a capire cosa stessero costruendo, in una città sprofondata nel sonno e in una crisi nera. Ancora adesso non l’ho capito bene. L’architettura contemporanea non mi piace, palazzi e grattacieli sono uguali a Stoccolma o Milano o Tokyo, non hanno nessun legame con il posto in cui sorgono, non raccontano niente. In compenso, negli ultimissimi anni ho cominciato a veder nascere nuovi posti interessanti. Non so se il ritorno della sinistra sia la causa o l’effetto del fenomeno, ma mi pare di respirare un’aria migliore.

È da poco iniziato l’Expo, questa fantomatica grande opportunità per Milano (e per l’Italia). Cosa ne pensi? Credi che questo sia un viatico per una rinascita, oltre che economica, anche culturale dell’Italia in generale e di Milano in particolare?

Penso che l’Expo sia costata un sacco di soldi, troppi per i sei mesi di turismo che porterà a Milano. Penso che si potevano spendere meglio e che gran parte di quei soldi siano finiti in tasca a chi ne ha già. Ci sarà un po’ più di lavoro, spero, in questi sei mesi, ma finita l’Expo non ne resterà nulla, tranne un sacco di capannoni vuoti e debiti da pagare. Non è un investimento sul futuro ma una spesa enorme bruciata nel presente. Non abbiamo nemmeno lasciato una Tour Eiffel alla storia.

Nei tuoi libri parli spesso di fughe, di andare a vivere in posti isolati, sulle montagne, luoghi avulsi dalla civiltà e dagli uomini (o, per lo meno, da “certi” uomini). Non è, questa, una fuga dalla città? Dalla tua Milano natale?

Eh già. Magari se fossi nato in una città più accogliente non avrei mai coltivato il mito della fuga nei boschi. Penso sempre che dovremmo ringraziare Milano per la sua durezza, e perfino per la sua bruttezza, perché ci spingono a partire senza rimpianti. Una città come Milano genera viaggiatori.

Tu hai studiato alla Civica Scuola di Cinema di Milano. Che influenza ha avuto sul tuo modo di scrivere e di vivere le passioni?

Non è facile trovare la strada giusta in Italia se hai diciannove anni e quello che vuoi fare nella vita è scrivere. Che cosa puoi studiare, Lettere? La scuola di cinema era l’unico modo in cui potessi coltivare la scrittura. O quella, o una scuola di teatro in cui studiare drammaturgia. Ma mi sentivo più vicino al cinema e ancora adesso scrivo soprattutto per immagini. Poi, a sorpresa, la scuola mi ha fatto scoprire il documentario, che è stato un mio grande amore e che vorrei coltivare ancora.

Tra i tuoi lavori, sia come narratore che come documentarista, quale senti più “milanese”? Il tuo lavoro, insomma, più metropolitano?

Tanti documentari che ho fatto con il mio amico Giorgio Carella, i primi. Vietato scappare parlava di due generazioni di ragazzi milanesi a confronto, quelli che avevano vent’anni nel 1977 e nel 1999. Isbam era un esperimento antropologico, in cui entrammo per un mesetto in una compagnia di ragazzini di Cinisello e alla fine non ne volevamo più uscire. La notte del leone era la ricostruzione del concerto di Bob Marley a San Siro del 1980, un evento epocale per Milano. Tra i racconti, penso che in un paio di testi del Manuale e almeno in un episodio di Sofia ci sia tutto l’amore difficile, contrastato, che provo per questa città. Ma poi in realtà sono le cose che ho scritto su New York, credo, a raccontare segretamente qual è il mio rapporto con Milano.

Una piccola facezia: Paolo Cognetti e la gastronomia. Che rapporto hai con la tradizione culinaria della tua città? E cosa ti piace di più dei piatti milanesi?

La cotoletta di maiale è il più grande regalo della cucina milanese all’umanità. Per il resto vivrei tranquillamente senza la cassoeula o il risotto con l’ossobuco.

Se non fossi nato a Milano, dove avresti voluto nascere? E perché?

A New York perché è una Milano più grande, più calda e più bella. Così mi sarei tenuto la mia educazione metropolitana ma magari sarei cresciuto più contento.

Si è sempre detto che Milano e Roma per uno scrittore sono le città più importanti. Tu conosci entrambe le realtà (il tuo primo editore è stato minimum fax, storico editore di Ponte Milvio). Che differenze trovi tra le due?

Come tra il giorno e la notte. Ma poi chi ha detto questa cosa? Mi pare che Torino e Napoli nella letteratura italiana non siano da meno. Penso che Roma tenda a fagocitare, mentre Milano tende a espellere: qui ti viene voglia di andartene per il mondo mentre là sono convinti che il mondo finisca oltre il Raccordo Anulare. Io ci ho vissuto per un annetto ma mi sono sentito sempre uno straniero.

Cosa speri per la tua città natale? E come la vedi fra trent’anni?

Spero per lei che venga invasa dai barbari, e per me di andarmene molto prima.

Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978.
È autore di alcuni documentari — Vietato scappare, Isbam, Box, La notte del leone, Rumore di fondo — che raccontano il rapporto tra i ragazzi, il territorio e la memoria. Per minimum fax media ha realizzato la serie Scrivere/New York, nove puntate su altrettanti scrittori newyorkesi, da cui è tratto il documentario Il lato sbagliato del ponte, viaggio tra gli scrittori di Brooklyn.
Per minimum fax ha pubblicato Manuale per ragazze di successo (2004), Una cosa piccola che sta per esplodere (2007), vincitore, tra gli altri, del Premio Fucini, del Premio Settembrini e finalista al Premio Chiara, Sofia si veste sempre di nero, selezionato al Premio Strega 2013 e A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti.
Il suo blog è paolocognetti.blogspot.it

--

--

IL COLOPHON
IL COLOPHON

RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE