UNA STELLA DI NOME HENRY di Roddy Doyle

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[Guanda]

Ogni storia che abbia come protagonista qualcuno la cui prima parola da infante è stata «’NCULO» merita di essere raccontata, tanto più se la persona in questione è animata da un’indifferenza rabbiosa che l’accompagnerà per gran parte della vita, quando all’indifferenza tecnicamente non andrebbe imputato alcun aggettivo. A maggior ragione se quest’ultimo si riferisce ad un sentimento così forte, quello della rabbia, che implica tutt’altro che distanza e imperturbabilità. Però la bile che infiamma Henry Smart, primo attore e prima voce del romanzo politico Una stella di nome Henry di Roddy Doyle, non è irragionevole, non è un frutto della sua indole; è la reazione e il modo con cui Henry si relaziona al mondo nel momento in cui si palesa ai suoi occhi il tradimento della vita che boicotta sin dai primi mesi ogni possibilità di un’esistenza gioiosa, o quantomeno facile. Non sarà dunque un caso se Henry entra in scena nella prima pagina come uno che guarda e odia. «Guardai verso l’alto e l’odiai», dice riferendosi alla stella indicata dalla madre che punta il dito verso un firmamento brulicante di bimbi morti diventati stelle che brillano di una luce e di un calore che mai lambiranno le incerte esistenze di quei figli sfuggiti all’estinzione a cui sono stati affibbiati i nomi di quelli che un improbabile Dio ha voluto con sé e trasformato in luminosi promemoria di vite mancate. Non esattamente un pigolio di stelle. È incredibile, tuttavia, che i presupposti a che ci si immedesimi con i personaggi oggettivamente sfortunati e anche un po’ maledetti di Una stella di nome Henry tramite una smielata compassione velata di pietismo siano demoliti dall’ironia sferzante della penna di Roddy Doyle, magister verbi. Roddy Doyle, classe 1958, è un Dubliner (volendo anche nell’accezione joyciana del termine), laureato in Lettere all’University College di Dublino, dedito all’insegnamento per 14 anni, per poi votarsi a tempo pieno alla scrittura, attività e talento premiati con il Booker Prize per Paddy Clarke Ha Ha Ha! (1993). Infatti arrivati alle battute finali di Una stella di nome Henry, pubblicato nel 1999 e seguito da Una faccia già vista (2005) e Una vita da eroe (2010), è impossibile non innamorarsi dello stile e delle storie partoriti dalla mente dello scrittore irlandese. Ci sono libri che si fanno apprezzare e voler bene e libri che si impongono nella vita di un lettore, costringendolo a interrompere la lettura per digitare su Google il nome dell’autore, reperire qualche notizia su di lui e annotare tutto ciò che ha scritto e prodotto per poterlo leggere una volta concluso il libro che lo ha schiuso al suo universo. Ecco, Una stella di nome Henry rientra decisamente in quest’ultima categoria. Siamo ai primi del ‘900 in un’Irlanda vecchia e fragile, rassegnata ad un destino opaco all’ombra del torreggiante Impero britannico; Henry Smart riesce a superare le Scilla e Cariddi dell’utero di Melody Nash che ha risucchiato nel gorgo del suo liquido amniotico molte vite incompiute e facendosi strada tra le gambe materne viene alla vita forte e sano. Il bimbo più in salute che si sia mai visto a Dublino, quasi un miraggio per le donne della zona che hanno dato alla luce bambini che sin dal primo vagito hanno espresso un futuro di stenti e deperimento. Per qualche mese è lui una stella, la star della situazione, non il fratello morto, di cui ha il nome, che la madre ricorda ossessivamente rivolgendo gli occhi alla volta celeste. Poi un errore di leggerezza, il padre, Henry Smart Senior, il cappotto e la manica più sporchi di Dublino, propone e infine impone per orgoglio il suo nome al bambino, contro il volere di Melody spossata per i troppi parti andati male, tra cui figura anche quello di un Henry, l’unico e solo per lei, e Henry Smart III viene rifiutato come essere vivente, privato dell’identità, ricettacolo di ogni rimpianto e dolore assiste alla fine dell’amore tra i suoi genitori e alla nascita dei suoi fratelli che non avranno mai nemmeno un solo grammo dell’affetto riservato ai figli morti dalla madre, una giovane donna esaurita e più prossima alla morte che alla vita a soli vent’anni. Perciò assieme al fratellino Victor scappa da casa mischiandosi ai mille altri bambini che affollano le strade di una lurida e incurante Dublino. «In Dublin’s fair city / where the girls are so pretty» si imbatte nella signorina O’Shea, maestra di una scuola elementare cattolica da cui lui e Victor vengono cacciati, e se pensate che il loro sia un incontro come tanti vi ricrederete quando si sposeranno clandestinamente in una chiesa dimenticata nella campagna irlandese, con fuori appostati a fare la guardia contro eventuali incursioni dei Tommy, i membri dell’esercito inglese, alcuni soldati dell’IRA. Difatti, all’inizio della seconda parte del libro, troviamo un Henry quattordicenne reclutato da James Connolly, capo della Brigata di Dublino e fra i protagonisti della Rivolta di Pasqua del 1916, finita in un bagno di sangue per gli irlandesi. La vita del giovane Henry Smart si intreccia con personaggi storici realmente esistiti, come Éamon de Valera e Michael Collins, tra i volti principali della Guerra d’Indipendenza irlandese, quando Henry verrà nuovamente incluso nelle fila dei ribelli e degli indipendentisti. Attraverso i suoi occhi si fa strada l’imborghesimento dei valori che Connolly e i suoi avevano messo per iscritto nella carta d’indipendenza della Repubblica d’Irlanda nel 1916 (uguaglianza, fraternità, tolleranza e felicità). Infatti verso il 1921, vicine alla tregua con il governo inglese, le menti della rivoluzione sembrano più propense a un gattopardiano compresso alla «se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi» per conciliare le istanze della classe cattolica che conta e dell’alta borghesia che ha finanziato la guerriglia, piuttosto che ad una rinascita del popolo irlandese. Ora il governo è verde trifoglio, ma sembra che il cambio di colore sia l’unica trasformazione realmente percepibile. Henry Smart utilizza per la prima volta un fucile per sparare contro una vetrina di scarpe, emblema di tutto ciò che è stato negato a lui, a Victor e a tanti come loro, e ne fa uso un’ultima volta per uccidere l’uomo simbolo di tutto ciò di cui è stata privata l’Irlanda, ingannata da ideali di cui si è ammantata gran parte della futura classe politica dirigente per nascondere i propri interessi. La sua è una vicenda che da personale si fa collettiva, in un’Irlanda selvaggia che scopre mano a mano a cavallo della sua bicicletta, spaccata in due dall’indifferenza delle regioni estreme e dalle manovre brutali dell’intellighenzia dell’IRA, in cui la difficoltà maggiore è trovare il vero cuore del Paese per rinverdire il motivo per cui un giorno morire. Un romanzo sospeso tra realtà e finzione, ideale per chi voglia svelare le ragioni di un legame che da sempre sente con l’isola di smeraldo.

Giulia Annecca

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RIVISTA DI LETTERATURA DI ANTONIO TOMBOLINI EDITORE