Vilém Flusser e il Design
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Inizia con questo articolo una serie dedicata al design. Lo spunto proviene da una piccola raccolta di Vilém Flusser, “Filosofia del Design”, pubblicata da Bruno Mondadori. Questi articoli li prepareremo per i nostri studenti, ma possono essere di interesse più ampio.
La loro caratteristica? Essere semplici e non dare per scontate le narrative che, in questi anni, ci stanno proponendo del design, partendo dalle considerazioni di Flusser e tentando di capire come si potrebbero aggiornare allo scenario attuale.
Inizieremo proprio dal primo dei saggi contenuti nella “Filosofia del Design”, che tratta della parola Design, dei suoi significati e delle implicazioni di questi significati.
Design, dopotutto, vuol dire tante cose. Vuol dire progetto, e progettare. In inglese è sia sostantivo che verbo, e vuol dire sia proposito, piano, intento, complotto, attentato, che architettare, ideare, organizzare. Ma, usando le parole dello stesso Flusser, la parola design “ci rende consapevoli del fatto che tutta quanta la cultura è una frode, che noi siamo truffatori truffati, e che qualsiasi interessamento alla cultura equivale ad un autoinganno”. Ci rende, ovvero, consapevoli del fatto che design indica, in tutti questi sensi, l’ingannare la natura tramite la tecnica, sostituendo “ciò che è naturale con ciò che è artificiale, e costruendo macchine in grado di fare uscire un dio che siamo noi stessi.” È una truffa, quindi.
Tra l’altro, cosa è la truffa se non il design perfetto. Il truffatore deve per forza di cose essere un designer eccellente. Deve sapere di psicologia, cultura, estetica, tecnologia, scienze, antropologia, magia. Deve essere capace di parlare mille lingue, e di conoscere l’animo umano. Deve lavorare sul piano della funzionalità, dello spirito, della comunicazione, della narrativa, della magia. Deve essere, in poche parole, un designer perfetto.
E, non dimentichiamo, che design vuol dire anche intenzione, ma anche indizio, e presagio, arrivando ad una interpretazione ancora diversa: “la risposta è appunto questa: tutto dipende dall’intenzione (design).”
Il design è ideologia materializzata. Il designer, secondo la sua ideologia, secondo la propria visione del mondo, progetta, architetta. Secondo la sua ideologia riguardo come debbano essere raccolti dati, opinioni ed espressioni, raccoglie i bisogni e le espressioni degli utilizzatori degli oggetti e delle interfacce che progetta, ponendo proprio quelle domande che interessano a lui, non altre, e posizionando i sensori proprio in quel modo “ideologico”. Raccogliendo i risultati della propria ideologia e, quindi, capendo, secondo il proprio credo, di cosa hanno bisogno gli “utenti” (che altro non sono che la ideologia di “utente” che ha il designer, sono pura speculazione), miscela questa conoscenza con la sua idea del mondo, di come dovrebbe essere il mondo, e progetta.
Progettando, crea una “cosa” che è intenzionalmente di parte, è ideologica: è la cosa che, secondo l’ideologia del designer, massimizza la trasformazione del mondo in ciò che dovrebbe essere. Lo scopo di questa cosa è quello di essere narrata, comunicata al fine di truffare le persone, imponendogli la propria visione del mondo, sostituendo “ciò che é naturale” (per quelle persone, ciò che facevano prima) con “ciò che è artificiale” (la mia cosa, la mia ideologia del mondo).
C’è una certa dose di violenza in tutto questo. Ma non è questa la cosa grave, dopotutto. In un certo senso ogni interazione e relazione ha una certa dose di violenza, mentre confrontiamo le nostre ideologie, in ogni minuto della nostra vita, cercando di influenzare quelle degli altri.
L’aspetto più degno di nota è un altro, a mio avviso. E consiste nel fatto che questa “truffa” — questa “violenza”, se vogliamo — da un lato ha lo scopo di fallire e, dall’altro, viene comunicata come qualcosa di obiettivo e misurabile, il che, di nuovo, è una “truffa”.
Sul primo punto non diremo altro, in questo articolo. Già, alcune indicazioni le abbiamo date, e dedicheremo una altra puntata della serie a questo aspetto.
Sul secondo, investigheremo qui, brevemente.
Nel libro di Donald Norman “La caffettiera del masochista” si danno alcuni fondamenti di quello che è chiamato Human Centered Design (HCD): quel particolare approccio al design che ha tra le caratteristiche principali il desiderio di “mettere l’essere umano al centro”.
Sembra un buon proposito, e il libro (e i tanti altri che ne parlano) mostra tutta una serie di concetti, metodi e strumenti per far sì che questo avvenga: l’essere umano al centro del design.
Sin dai principi che usa per descrivere le interazioni umane lo Human Centered Design mostra l’estensione della truffa di cui stiamo parlando.
(Nota per i critici di questo articolo: si noti la particolare connotazione della parola truffa in questo articolo, che noi intendiamo in modo alquanto tecnico: “ottenimento di un vantaggio o di un cambiamento di comportamento da parte di un altro soggetto indotto in azione o coinvolto in processi con imbrogli e falsità”, il che è vero per la quasi totalità degli oggetti e delle interfacce che usiamo nella nostra vita di tutti i giorni)
I principi sono quei concetti psicologici fondamentali che permettono di comprendere come le funzionalità e gli usi di un certo oggetto siano visibili.
Elenchiamoli e commentiamoli brevemente:
- l’Affordance è una relazione: è l’insieme delle interazioni possibili tra una persona e un oggetto. Alcune affordance sono visibili, altre no;
- i Significanti, sono elementi percepibili che segnalano quali azioni sono eseguibili su un oggetto;
- il Mapping, che è l’insieme delle associazioni tra comandi e funzioni. Alcuni mapping si dicono “naturali” se permettono di associare “naturalmente” il comando o l’indicatore alla funzione corrispondente (per esempio l’associazione degli interruttori della luce di una stanza e le luci che controllano solo di rado sono “naturali”, perché solo di rado vi è una corrispondenza riconoscibile tra la posizione degli interruttori e la posizione delle luci nella stanza);
- il Feedback, che è la retroazione, ovvero l’insieme degli effetti percepibili che segnalano che il risultato dell’interazione è andato a buon fine, o che c’è stato un errore, o che si è raggiunta una qualche altra condizione di stato. Il feedback non solo è oggetto di progettazione, ma anche di limitazione, perché quantità e qualità eccessive di feedback non solo risultano fastidiose, ma anche meno significative e riconoscibili;
- i Vincoli (che possono essere fisici, logici, semantici, culturali) sono quegli accorgimenti secondo cui si rende evidente che non è possibile fare una certa cosa con un certo oggetto (per esempio piegare oltre un certo angolo, o utilizzare in un certo modo);
- i Modelli Concettuali, che sono la spiegazione, di solito molto semplice, di come funziona una cosa. In oggetti come gli elettrodomestici si cerca di far sì che l’oggetto stesso coincida con il suo modello concettuale, lavorando su affordance, significanti, feedback e vincoli per far sì il più possibile che l’oggetto possa essere immediatamente compreso. Per altri oggetti il modello concettuale è inserito in un manuale, o in uno schema. Per altri oggetti è incomprensibile, o non trasparente.
Studiando questi principi è possibile progettare oggetti funzionali e utili.
Ma, facendo un passo indietro, è possibile notare che
- pongono l’essere umano al centro, sì, ma al centro del vetrino del laboratorio, mentre viene studiato da designer e psicologi
- sono completamente arbitrari e indeterminati nei loro limiti e confini
Analizziamo con ordine questi punti.
L’essere umano al centro del vetrino da laboratorio.
Human Centered Design. Il Design con al centro l’Essere Umano. L’essere umano viene studiato, analizzato, che lo sappia o meno, che lo desideri o meno. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di volte che veniamo analizzati secondo gusti, preferenze e comportamenti attraverso social network, applicazioni, carte di credito e di fedeltà, e tramite telecamere e sensori.
E, come abbiamo già detto, in maniera completamente ideologica: è il ricercatore (e la sua ideologia) che definiscono esattamente come vengono piazzati i sensori, come vengono raccolti i dati, come vengono stabiliti i valori significativi. L’Essere Umano quasi non c’entra nulla. Si tratta di più del ricercatore che osserva sé stesso e la sua ideologia, per come si manifesta nei comportamenti delle persone.
Questa è una condizione che vale, ovviamente, non solo per l’HCD, ma anche per tutte le varianti di quella che in questi anni stiamo chiamando co-progettazione (Co-Design). In questo senso è una truffa. Sono i designer che progettano il modo in cui le persone progetteranno, ciò che percepiranno, vedranno, sentiranno, toccheranno, quali strumenti useranno, con quali gradi di libertà, con quali modalità di discussione. E che poi riassumeranno ciò che è avvenuto. E sappiamo bene che un riassunto oggettivo non è possibile: il rapporteur crea una fiction, in cui utilizza quello che è emerso dall’attività per dire quello che vuole lui; non può fare altrimenti.
In sintesi, come dicevamo nel titolo: gli esseri umani al centro, sì, ma del vetrino da laboratorio, osservati col microscopio, e su cui vengono immessi reagenti, enzimi, elementi per far sì che la colonia di utenti-batteri si comporti in un qualche modo, che poi i designer racconteranno nel loro rapporto, e su cui baseranno il proprio design (progetto, piano, complotto, truffa).
Principi Indeterminati.
I principi stessi sono indeterminati e indeterminabili, a meno che di non stabilire confini e limiti in maniera arbitraria.
Questo è particolarmente evidente nei prodotti digitali, che si manifestano sotto forme di interfacce.
Quali sono, ad esempio, le affordance dell’interfaccia di Facebook, Google o Amazon? O i loro modelli concettuali? O i loro vincoli?
Queste domande sono solo apparentemente semplici. Come solo apparentemente semplice è lo stabilire dove iniziano e finiscano questi sistemi.
Il loro limite è quello che vedo sullo schermo quando sono sul loro dominio web? O quando vedo un pulsante di “social login”, con cui effettuare l’accesso ad altri sistemi tramite le mie credenziali social? O anche oltre, quando, ad esempio, i punti che vedo su una certa mappa di un qualche servizio (per esempio per trovare i ristoranti intorno a me) sono stati calcolati prendendo in considerazione i miei gusti per come li ho espressi sui social? O, ancora, il limite è forse nel data center dell’azienda che ospita il servizio online? O anche nel data center delle aziende cui questa vende i miei dati? O dove, esattamente?
Lo stesso discorso si può fare anche per i prodotti fisici, materiali. Dove inizia e finisce il sistema di una Playstation? Nell’attività di gioco che ci svolgo? Nella scatola dell’imballaggio? Nella fabbrica? Nella discarica in qualche posto remoto del mondo?
Qual’è il sistema? Dove inizia e finisce?
Ogni scelta ha implicazioni differenti, a livello di percezione, economiche, politiche, di mercato, filosofiche, e che riguardano le nostre libertà, l’ambiente, la salute.
Diversi tipi di utenti hanno, in diversi momenti del ciclo di vita del prodotto, diverse percezioni dell’estensione del sistema.
Chi stabilisce che io, utente di un certo tipo, quando uso il servizio, debba percepire un pezzo, ma non l’altro?
Ecologic Design?
Ecco. Appare immediata la considerazione circa l’arbitrarietà di questi parametri, e dei valori che concorrono a definire le decisioni che impongono, di fatto, i confini percettivi dei sistemi e la possibilità di partecipare al loro design.
Appare anche evidente la violenza intrinsecamente collegata ad ogni forma di design.
Sicuramente le condizioni attuali di questo scenario sono migliorate drasticamente, per come diversi attori hanno presto in considerazione queste e altre osservazioni nel cercare forme di design differenti, lavorando sulle modalità di partecipazione, collaborazione, interazione, e sugli immaginari e la possibilità di inventarne di nuovi: Critical Design, Tactical Design, Peer-to-peer design, Co-Design, Participatory Design, Speculative Design, Design Fiction, Intentional Design, e tanti altri.
O anche gli approcci radicali come quelli in cui città ed interi territori vengono considerati come vere e proprie forme di conoscenza, irriducibili e da prendere in considerazione come vere e proprie ecologie complesse.
Dal punto di vista filosofico, però, questa rimane una questione aperta. In questo è bene andare oltre l’affermazione di Flusser: “la risposta è appunto questa: tutto dipende dall’intenzione (design).”
Possiamo, oggi, iniziare a chiederci come ragionare sulle ecologie complesse del design, in cui la creatività è un fenomeno diffuso che può, potenzialmente, coinvolgere milioni di persone, e chiedersi come attivare forme di co-esistenza, di polifonia complessa.